domenica 26 giugno 2016

Pro-euro? No, contrario al ritorno della vecchia politica monetaria (e fiscale) della lira!

Mentre in Italia come negli altri Paesi dell'Unione Europea si sono sollevati i cori roboanti degli euroscettici, siamo in attesa di conoscere cosa farà la Gran Bretagna dopo l'esito del referendum popolare, che è di tipo consultivo e non vincolante, perché qualcuno da loro sta già chiedendosi se abbiano mai commesso una fesseria...


...con la Cancelliera Merkel che frena sull'avvio delle previste trattative di separazione, probabilmente perché da Londra non è arrivata ancora la certezza di una richiesta formale e la questione non è di poco conto se si considera la posizione della Scozia:


Insomma, l'uscita della Gran Bretagna non è cosa certa al momento sebbene non sia semplice per il governo britannico andare contro la volontà popolare.

Ma venendo alle discussioni in casa nostra, capita spesso di essere definiti come pro-euro da chi vorrebbe uscirne per riadottare una moneta nazionale. Questa classificazione di "pro- o contro-euro" è in termini formali errati in quanto l'euro l'abbiamo già. Sarebbe come se negli Stati Uniti qualche politico proponesse allo Stato del Mississippi di adottare una moneta diversa dal dollaro. Oppure alla Scozia di sostituire la sterlina. Ambedue le condizioni non si potrebbero definire rispettivamente pro- o contro dollaro e sterlina, ma semmai pro- o contro la nuova moneta. Insomma non si può essere favorevoli o contrari a qualcosa che è già in vigore! Questo per dire che nel caso italiano formalmente la contrapposizione è semmai tra favorevoli all'adozione (o ritorno) di una moneta nazionale e contrari.

Personalmente non sono, o meglio non sarei, contrario in linea di principio a lasciare l'euro per la lira (o comunque la si vorrà chiamare) se mi venisse dimostrato che questo passaggio avrà conseguenze migliori del rimanere con l'euro.
E non basta che qualcuno mi dica che oggi con l'euro non abbiamo una crescita accettabile e più genericamente una situazione economica e sociale negativa. Mi si deve dimostrare che con una moneta nazionale avremo effetti migliori!
Finora ho sentito solo critiche all'euro e all'Unione Europea, ma ben poco di come si avrebbero benefici nell'abbandonare uno o entrambi. Le repliche più frequenti sono i ricorsi agli anni passati in cui avevamo la lira, ma costoro non tengono conto in primo luogo che i tempi erano ben diversi ed in secondo luogo che la situazione non era poi così migliore. Si cresceva a tassi più elevati, ma si usciva da una situazione di guerra. Il mondo era diviso in macroaree geoeconomiche non molto differenziate al loro interno.
Una azienda italiana aveva come competitor produzioni realizzate in occidente e quindi non si trovava in condizioni particolarmente svantaggiate. Oggi non solo molte di esse sono costrette a delocalizzare per ragioni di competitività ma anche di convenienza grazie ai minori costi che nessun deprezzamento potrà mai compensare
.
Durante il periodo in cui non avevamo vincoli, ovvero da quando cessò di esistere Bretton Woods (1971) a quando iniziò lo SME (1979), non è vero che la situazione finanziaria del Paese fosse così solida. Nel 1974 il governo Rumor chiese un prestito alla Bundesbank (!) per ben 2 mila miliardi di lire di allora dando in pegno 500 tonnellate di oro conservate dalla Banca d'Italia. Alla faccia di coloro che oggi sotto la tanto proclamata 'sovranità monetaria' decantano la facoltà di stampare moneta. Questi fatti gli economisti pro-exit si guardano bene dal rammentarlo.

Si sentono ribadire frequentemente i vantaggi conseguiti in occasione dell'uscita dallo SME nel 1992 e alla seguente svalutazione della lira sul fronte del commercio internazionale, con un aumento delle esportazioni e un calo delle importazioni che hanno migliorato sensibilmente la bilancia commerciale. Vero, ma gli economisti che rievocano questi esiti positivi non menzionano però anche la contropartita, in questo caso alquanto negativa, ovvero l'andamento dell'occupazione:


Dall'uscita dallo SME (fine 1992) al 1995 si persero oltre 850 mila posti di lavoro e qualcuno ricorderà che nella campagna elettorale del 1994 Silvio Berlusconi promise un milione di posti di lavoro, promessa che era appunto legata al fatto che è relativamente più semplice riassorbire un recente calo di occupati che una creazione di nuovi posti di lavoro che necessita di nuove aziende. Insomma l'uscita dallo SME non ebbe ripercussioni solo positive. Questi posti furono riassorbiti (o creati) dal 1996, ovvero quando rientrammo nello SME mentre il surplus della bilancia commerciale nel contempo si ridusse, segno che non c'è una diretta corrispondenza tra i due fattori. E questo perché da noi la quota di export era del 20% circa del PIL negli anni della lira, passata recentemente al 25% (durante l'euro), quindi conta molto di più l'andamento della domanda aggregata interna che il commercio internazionale. I sostenitori del ritorno alla lira si affannano a occuparsi del commercio estero mentre il nostro vero problema è la domanda interna.

Altro fronte da tenere in considerazione è quello dei tassi di interesse sul debito pubblico. Grazie all'appartenenza all'eurozona e alle politiche monetarie della Banca Centrale Europea l'Italia paga oggi un tasso di interesse medio del 1,5% sui titoli decennali nonostante abbiamo un basso rating. L'India, che ha un debito del 67% sul PIL, una inflazione del 5,8% e un tasso di crescita del PIL del 1,7%, paga un prezzo del 7,7% sui bond sovrani decennali e ha un rating simile a quello dell'Italia. Paga quindi il 2% in termini reali contro il nostro 1,5%.
La Gran Bretagna sul decennale paga poco più del 1% a fronte di una inflazione dello 0,3% e gli USA del 1,5% a fronte di una inflazione dello 0,8% ed entrambi godono di un rating ai massimi livelli.
Cosa ne deriva da questi dati? Che i rendimenti sono oggi alquanto allineati a dispetto dei diversi rating e che abbandonando l'euro per tornare alla lira possiamo solo correre il serio rischio di pagare di più, anche se di poco. Finora quindi non si vedono quali vantaggi si possano avere dall'abbandonare l'euro.

Rimane la politica fiscale, ovvero la prospettiva di spendere a deficit pagandolo o con l'emissione di titoli da collocare sul mercato o 'stampando moneta'. Ma se tornassimo alla lira non avrebbe senso un bilancio a deficit simile a quello odierno, cioè di pochi punti percentuali sul PIL, ma ne avrebbe se questo fosse almeno del 5%.
Davvero si pensa che la spesa a deficit genera crescita? Se così fosse dovremmo essere noi a trovarci in condizioni migliori rispetto alla media sia europea che mondiale e non sotto. Se osserviamo le nazioni che hanno conseguito una crescita sostenuta in un lungo periodo si vede come queste hanno quasi tutte un basso rapporto debito/PIL:


I dati non sono aggiornati, l'Irlanda ad esempio nel 2015 ha ridotto il debito al 94% del PIL, ma già da questa tabella emerge che generalmente i Paesi con un peso maggiore di debito, o meglio di variazioni elevate dello stesso nel tempo (conseguente a politiche di alti deficit), hanno registrato bassi livelli di crescita e viceversa.
Ed è questo il punto principale in questione dal mio punto di vista: è da millantatori far credere ai cittadini che con una, così chiamata, sovranità monetaria si ha la possibilità di poter far fronte a qualsiasi spesa in quanto così non è mai stato da parte di qualsiasi nazione nella storia. Un conto sono interventi temporanei al fine di far ripartire l'economia al momento in cui questa sta attraversando una fase di crisi incrementando gli investimenti (non la spesa corrente), altro è che anche in presenza di crescita sia possibile far pagare poche tasse ai cittadini e avere allo stesso tempo un elevato livello di servizi grazie al fatto che la differenza tra entrate ed uscite verrà compensata da emissione di base monetaria da parte della banca centrale.

Tornare alla lira non farà poi rientrare in Italia la produzione di aziende come ad esempio Benetton, oggi quasi interamente all'estero, e allo stesso tempo non impedirà alle aziende di delocalizzare la produzione di basso valore aggiunto fuori confine in Paesi con un costo del lavoro ineguagliabile da qualsiasi moneta sia adottata e a qualsiasi svalutazione questa possa subire. Il mondo con la globalizzazione è cambiato profondamente rispetto a quello che si è conosciuto dal dopoguerra fino alla fine dello scorso millennio. Le barriere ideologiche sono crollate, i Paesi che prima erano basati su una economia pianificata, oggi si sono convertiti (anche se non completamente) all'economia di mercato. I costi della logistica per portare una qualsiasi merce da una zona ad un'altra si sono ridotti considerevolmente. Oggi anche una realtà di medie dimensioni può trasferire la produzione a migliaia di chilometri di distanza senza dover investire ingenti cifre e senza eccessivi rischi. Oppure importare prodotti dall'altra parte del globo.
Oggi non c'è più convenienza come in precedenza da parte di una multinazionale straniera, ad esempio statunitense, di investire in Europa (e in Italia in particolare) piuttosto che in Cina o comunque in un Paese nel continente asiatico dove i costi sono decisamente inferiori.

Occorre quindi prendere atto della nuova era che si è avviata da diversi anni anni e guardare avanti, non pensare che la moneta possa rappresentare una sorta di macchina del tempo.

Bagnai, chi di cialtroni ferisce, di cialtroni perisce

Il referendum brittanico di Giovedì 23 Giugno sull'uscita o meno dall'Unione Europea ha portato ad un risultato che non ci si aspettava, almeno stando agli ultimi sondaggi ma soprattutto ai primi Exit Poll diffusi da YouGov, che dava i sostenitori del remain in vantaggio prima di un punto percentuale e poi addirittura di 2, tanto che uno dei maggiori esponenti politici della Brexit, Niger Farage, aveva paventato una sconfitta.
Forse questo è dipeso dal fatto che spesso si associa la London area con l'intera Gran Bretagna, ma così non è! Difatti analizzando i dati consuntivi si vede come i cittadini residenti in Scozia e Irlanda del Nord abbiano votato in maggioranza per la permanenza nella UE così come i londinesi, mentre è nel resto dell'Inghilterra che ha prevalso il SI. Io non ci avrei scommesso dando per quasi certo un esito opposto, ma rimango comunque convinto che al di là delle turbolenze di Venerdì e che probabilmente vi saranno nelle prossime settimane sui mercati finanziari, le conseguenze sull'economia reale saranno molto meno tragiche di quelle che vengono paventate e questo perché non conviene a nessuno giungere a fratture controproducenti per tutti. Indicativa è la richiesta di iniziare quanto prima le trattative tra Unione Europea e Gran Bretagna per definire le modalità del divorzio, questo proprio per ridurre il più possibile le turbolenze sui mercati finanziari con conseguenze negative sull'economia europea, Gran Bretagna inclusa dato che geograficamente rimane nel continente.

Ma le turbolenze non sono limitate in ambito finanziario, anche su quello politico si assiste ad una levata di polemiche tra chi è a favore di abbandonare, chi l'euro, chi anche l'Unione Europea, e chi invece non ne vuole sapere. Ma anche nell'ambiente economico le accese discussioni non mancano.
Nella puntata di Venerdì 24 u.s. della trasmissione Coffee Break dell'emittente privata La7, mi è capitato di assistere ad uno scontro verbale tra l'economista Alberto Bagnai ed il deputato Andrea Romano del Partito Democratico:


Il professore inizia (5° minuto nel video) con una bizzarra ricostruzione delle cause che hanno portato alle due guerre mondiali imputandole al Gold Standard (o Sistema Aureo in italiano) prontamente contestata dal deputato del PD. Questa teoria non sta in piedi, sia per quanto riguarda le cause che portarono allo scoppio del Primo Conflitto Mondiale, ma soprattutto per quello successivo visto che il Gold Standard fu abbandonato nel 1914 per poi essere reintrodotto tra le due Grandi Guerre ma nuovamente abbandonato in occasione della Grande Depressione del 1929. La crisi economica che portò all'avvento del nazionalsocialismo in Germania e prima ancora del fascismo in Italia hanno altre ragioni che vanno ricondotte agli ingenti (se non esorbitanti) danni di guerra richiesti alla Germania con il Trattato di Versailles. Già nel 1921 la Germania comunicò di non essere in grado di onorare le rate in scadenza e chiese una moratoria. Le fu concesso un anno ma non fu sufficiente, a quel punto iniziarono una serie di trattative alle quali partecipò anche l'Italia come uno dei Paesi vincitori e che diede luogo al Piano Dawes, un programma di aiuti alla Germania da parte degli Stati Uniti e che cessò in seguito con l'arrivo della Grande Depressione. Questo ebbe come conseguenza il ritorno dell'impossibilità da parte della Germania di proseguire nel pagamento dei danni di guerra e l'inizio di una crisi economica nel Paese. Il professor Bagnai farebbe bene a rispolverare questi fatti piuttosto che invitare a leggere le tesi dell'economista Barry Eichengreen. Si può anche affermare che il sistema di cambi fissi dovuto al Gold Standard abbia accentuato la crisi ma la causa non è ad esso imputabile!

Ma la gaffe maggiore Bagnai la fa subito dopo (al 6° minuto e 45 secondi) quando contesta l'affermazione che la sterlina quella mattina di Venerdì ha subito la quotazione peggiore in 30 anni rispetto al dollaro. Non contento lo ribadisce in maniera ancora più netta al minuto 8 e 30 secondi, in cui afferma senza remore che chi afferma questo è un cialtrone! Il deputato Andrea Romano gli fa notare che il tutto parte da un articolo che il prestigioso quotidiano finanziario Financial Times ha pubblicato proprio in quelle ore e che trova singolare che Bagnai arrivi a contestarlo, il quale poi cerca di mostrare al parlamentare chissà quale immagine dal suo cellulare.

Allora, andiamo per ordine per capire chi ha ragione. Questo è l'articolo del Financial Times pubblicato la mattina di Venerdì alle ore 08:38 (della Gran Bretagna) subito dopo che la quotazione della sterlina scende a 1,32 dollari (per 1 sterlina):


Il prof. Bagnai, a sostegno della sua contrarietà a tale affermazione, invita a guardare i dati del quotidiano Bloomberg. Vediamoli.
Questo è il grafico del cambio per il giorno di Venerdì 24 Giugno:


Come si vede la sterlina scende sotto 1,33 $ (per 1 sterlina). Andiamo indietro agli ultimi 5 anni per verificare se in precedenza abbia mai raggiunto un valore così basso:


Anche qui io non vedo quotazioni sotto il dollaro e 33 centesimi. Ma facciamo riferimento all'articolo del quotidiano britannico e andiamo indietro di 30 anni, quindi al 1986 e affidiamoci ai cambi medi mensili storici pubblicati dalla Banca d'Italia:


Anche da questo grafico non emerge alcuna quotazione così bassa come quella registrata la mattina di Venerdì scorso e difatti la stessa Banca d'Italia registra il valore più basso raggiunto in precedenza a 1,40 USD per 1 sterlina nel mese di Giugno del 2001. Insomma l'affermazione del Financial Times (e di molti commentatori) a cui Alberto Bagnai da dei cialtroni è corretta.

Io non intendo scendere a questo basso livello di dialettica, mi limito solo ad invitare il prof. Alberto Bagnai a informarsi meglio e offendere meno, visto che spesso è prodigo di gaffes.

giovedì 16 giugno 2016

La BREXIT (quella vera) che non ci sarà!

Ad una settimana dal referendum in cui i cittadini della Gran Bretagna sono chiamati ad esprimersi sulla permanenza o meno nella Unione Europea, si intensificano i dibattiti e non solo in terra britannica tra i favorevoli ed i contrari. Dibattiti in cui vengono anche prospettati scenari catastrofici, sia per il futuro della Gran Bretagna che per il resto dell'Unione Europea. Personalmente sono quasi certo che vinceranno i NO, i sostenitori del  remain, ma ammetto che è comunque possibile che vinca il fronte del SI all'uscita. I sondaggi sembrano dare loro ragione mentre, ed è qui che mi affido, i bookmakers sono di diversa opinione, infatti le quote sulle scommesse sono più favorevoli in termini di redditività per chi punta sull'uscita. Ma in ogni caso anche dovesse prevalere la Brexit cosa accadrà? Nulla, o quasi. Intanto va precisato che a seguito di questa ipotesi la Gran Bretagna non se ne andrà il 24 Giugno, il primo Luglio pp.vv. o anche dal prossimo anno. Il processo richiederà tempo per dar corso alle trattative che sono previste dai trattati. Infatti è bene rivedere cosa prevede l'art.50 del Trattato dell'Unione Europea:


Come si legge nel secondo comma, a seguito della notifica formale di uno Stato membro al Consiglio Europeo (insieme di capi di Stato e di governo di tutti i Paesi membri) di recedere dall'Unione viene avviata una fase di negoziazione che, oltre a definire le modalità di uscita, terrà conto del quadro delle future relazioni che avverranno in seguito con l'Unione. Cosa significa? Semplicemente che si discuterà non solo delle procedure di come uscire ma anche di quali rapporti si avranno in seguito, rapporti che giocoforza non saranno poi tanto diversi da quelli che vi sono attualmente. E questo al di là delle varie dichiarazioni politiche che si sentono e che paventano un futuro in cui la Gran Bretagna si troverebbe isolata in tutti i sensi.
Con buona pace anche del ministro delle finanze del governo tedesco Wolfgang Schäuble, che ripetutamente ha messo in guardia i britannici sottolineando che "Außer bedeuet außer", ovvero "fuori significa fuori", lasciando intendere che se vinceranno i sostenitori della Brexit la Gran Bretagna non avrà quelle clausole speciali di cui godono al momento Norvegia e Svizzera, ergo sarà esclusa del tutto dal mercato unico.
Credo che gli 89 miliardi di euro di export tedesco verso la Gran Bretagna, ma ancora di più il surplus commerciale di ben 51 mld di euro (dati 2015), siano argomenti sufficienti a far cambiare atteggiamento anche ad un falco come Schäuble.

Ma a seguire anche i vari argomenti a cui si appoggiano i sostenitori della Brexit si dissolveranno come neve al sole. I britannici si renderanno conto che, se resteranno nella UE non ci sarà alcuna invasione straniera, ma che uscendo non potranno certo isolarsi completamente su questo fronte. Ci sarà (forse) qualche difficoltà in più per un italiano, un tedesco o un francese nel trovare lavoro in Gran Bretagna ma di certo non ne risulterà inibito.
I contribuenti britannici si renderanno poi conto che uscendo non pagheranno meno tasse, contando sul teorico risparmio legato al contributo dato oggi all'Unione Europea, ma anzi è molto probabile che vi sarà un aggravio perché il premier Cameron ed il Cancelliere dello Scacchiere Osborne avranno forse gonfiato un tantino le stime di deficit che la Brexit causerà, ma di certo un aggravio nei conti pubblici vi sarà sicuramente, deficit che dovrà essere compensato da nuove tasse o da un aumento di quelle attuali, anche senza clausola europea di bilancio del 3%.

Insomma, citando Shakespeare, "Much ado about nothing!"

sabato 11 giugno 2016

Troika (e figli di...)


Eh sì, è sempre lui:


Ma partiamo da un asserzione:

"Una buona parte degli italiani soffre di un atavico complesso di inferiorità!"

Fateci caso, in molti talk show vengono invitati economisti stranieri per commentare la situazione della nostra economia ed in caso di crisi (ovvero spesso) chiedendo loro lumi sul come uscirne. Come non avessimo noi bravi economisti in grado di fare lo stesso ed anche meglio, in quanto essendo italiani è plausibile pensare che costoro siano più attenti alle vicende nazionali e costanti nel seguirne gli sviluppi. Tra l'altro economisti che proprio perché ritenuti bravi nel loro campo ricevono proposte dall'estero, in particolare cattedre in università prestigiose. Penso ad esempio ad Alberto Alesina (quante volte lo avete visto a Ballarò?) che insegna presso l'università statunitense di Harvard, che a sentito dire risulta essere l'ateneo più prestigioso al mondo. Ma anche rimanendo all'interno dei confini nazionali l'elenco di bravi economisti è lungo, eppure spesso si invitano esponenti stranieri che vengono chiamati ad esprimere il più delle volte dei veri e propri giudizi sulle nostre capacità. A darci un voto insomma.

Lo stesso avviene con politici o consulenti vari (Edward Luttwak dice qualcosa?) su tematiche diverse, spesso riguardanti la politica nazionale più che quella internazionale. Se vi capita di guardare i talk show all'estero vi accorgerete che mai avviene il contrario, semmai un italiano viene invitato per parlare di questioni che riguardano il suo Paese, non di esprimere opinioni sul loro. Insomma, generalizzando, possiamo dire che sentiamo il bisogno di rassicurazioni e/o di sapere cosa pensano di noi altrove. E questo nonostante dalle nostre terre, con la nostra cultura, abbiamo nei secoli stupito (e continuiamo a farlo) il mondo.
Mi è capitato di leggere che qualcuno ritiene che i tedeschi non ci considerino alla loro altezza, inteso come capacità professionali (e non prendo in considerazione posizioni più pesanti espresse da poveri dementi).
Eppure guardando la realtà pare che ad avere scarsa considerazione degli italiani siano gli italiani stessi. Agli appassionati di auto la storia di Giugiaro dirà qualcosa, passato dai marchi automobilistici italiani per approdare a quelli del gruppo Volkswagen con i risultati che possiamo vedere. Oppure Walter de Silva, un altro designer italianissimo oltre che capace, che similmente dalla Fiat è passato anche lui al gruppo di Wolfsburg. Ma di altri esempi se ne possono fare molti, nomi che hanno contribuito al successo di attività straniere. O in quello artistico-architettonico, con noi abbiamo approvato progetti orrendi come il Ponte della Costituzione a Venezia, meglio noto come Ponte di Calatrava dal nome dell'architetto che lo ha disegnato, mentre Berlino ha affidato al nostro Renzo Piano parte del progetto di rinnovare una delle sue zone più importanti della città: la Potsdamer Platz.

Eppure... eppure... frequentemente ci paragoniamo alla Grecia!

Quante volte sentiamo frasi del tipo: "Siamo come la Grecia" o "Dopo la Grecia ci siamo noi" ma anche "Subiremo quello che stanno subendo i greci".
E qui arrivo al tema in questione: la Troika!

Che cosa è la Troika? Con questo termine si fa riferimento oggi alle tre istituzioni internazionali costituite da:
  • Commissione Europea
  • Banca Centrale Europea
  • Fondo Monetario Internazionale
Queste tre istituzioni sono quelle preposte a prestare aiuti finanziari a Paesi della Unione Europea, in particolare della zona euro, in caso questi si trovino in una situazione di forte difficoltà.
Perché ancora oggi si sventola lo spauracchio per il nostro Paese di un intervento di queste tre istituzioni?
Intanto è bene partire con un chiarimento:

La Troika non viene/non va da nessuno se non è chiamata!

Questo va ribadito fortemente, la Troika non è alla stregua di Equitalia che ti arriva a casa perché non hai pagato una multa o le tasse, ergo la Troika non viene perché un Paese ha ad esempio disatteso i parametri di bilancio sanciti dai trattati europei. La Troika viene ad esaminare la possibilità di prestare aiuto finanziario ad un Paese perché ne ha bisogno in quanto si trova in una situazione di forti difficoltà a reperire risorse sui mercati internazionali e perché esso ritiene preferibile chiedere aiuto a loro piuttosto che optare per altre soluzioni (nel caso dell'eurozona, ad esempio di uscire da essa) inclusa quella di fare da soli con la prospettiva di costringere la propria popolazione ad ingenti e duraturi sacrifici.

Quello che è accaduto in Grecia è un caso particolare, in cui non si nega che le richieste della Troika stessa, in cambio di aiuti, siano state esagerate in virtù soprattutto del poco tempo concessole per eseguire riforme strutturali e tagli al bilancio. Dico che è un caso particolare perché la Grecia si è trovata in una situazione di estrema difficoltà finanziaria con una economia praticamente assente ed un sistema pubblico mal gestito.
Ma per l'Italia parliamo di una situazione del tutto diversa. Paragonare i due Paesi non è tanto offensivo per noi italiani ma soprattutto per i greci. E' come quello che si lamenta di fare fatica a pagare le imposte su più immobili di sua proprietà e si paragona a coloro che fanno fatica a pagare l'affitto dell'appartamento in cui risiedono!
La Grecia aveva un deficit strutturale già del 3% al momento del suo ingresso nel 2001 nell'eurozona, e questo lo si sa da poco perché all'epoca i governi ellenici presentavano bilanci alterati grazie ad operazioni complesse sul fronte finanziario con l'ausilio di banche di investimento come la Goldman Sachs. In breve, il governo emetteva titoli del debito pubblico in valuta diversa dall'euro, questi venivano ceduti a Goldman Sachs sulla base di contratti i cui tassi di cambio con l'euro venivano taroccati rispetto alle quotazioni in corso. Queste operazioni consentivano ai Greci da un lato di far figurare un deficit inferiore al reale grazie al tasso di cambio alterato che permetteva di ricevere più euro del dovuto e dall'altra alla banca d'affari statunitense di guadagnare somme ingenti all'atto della restituzione del prestito, grazie alle condizioni contrattuali previste e taciute all'esterno del ristretto ambito governativo.
Questo giochetto è proseguito fino al punto in cui è diventato insostenibile, nonostante il Paese abbia registrato tassi di crescita del PIL da record fino al 2008 e il tutto in assenza di un adeguato tessuto economico. Il deficit strutturale è passato da quel 3% del 2001 al 13 e rotti percento del 2008 (anno della crisi finanziaria esplosa negli USA e che giungerà l'anno seguente in Europa) per salire al quasi 19% l'anno successivo, quando il presidente greco Papandreou ha aperto il vaso di Pandora denunciando le scorrettezze e i dati falsificati. A quel punto si sono mosse le agenzie di rating che hanno declassato ad inizio 2010 il rating della Grecia che ha visto come conseguenza il fuggi-fuggi delle banche straniere che avevano investito nel Paese aggravando così ulteriormente la già difficile situazione.

Da noi, oggi, non vedo per nulla una situazione simile, il deficit strutturale è poco meno del 1% a fine 2015, il rating sui nostri titoli è, seppur basso, comunque ad un livello considerato sempre investment grade. Il tessuto economico, sebbene ridimensionato durante la crisi, è ancora presente e l'economia al momento ha ripreso a crescere seppur lentamente. Insomma, perché mai dovremmo chiamare od essere sul punto di chiedere aiuto in giro, in particolare alla Troika?
E i greci...stanno già attraversando un momento difficile della loro storia, perché allora mancargli di rispetto paragonando la nostra condizione alla loro, mentre nei weekend ce ne andiamo al mare o in montagna con i nostri SUV presso le nostre seconde case mentre molti di loro vedono tagliata la corrente se non pagano le imposte inserite in bolletta, in stile nostro canone RAI?

Cerchiamo di avere maggiore consapevolezza delle nostre capacità e di essere, non dico più ottimisti, ma almeno meno pessimisti.

giovedì 9 giugno 2016

La Spagna di Alberto Bagnai

Ho letto con una certa dose di ilarità la rappresentazione che l'economista Alberto Bagnai ha fatto della situazione economica della Spagna in questo articolo del suo blog. Io comprendo le legittime posizioni contrarie alla moneta unica, alle ricette della Commissione Europea, alle regole di bilancio contenute nei trattati europei e quant'altro, ma francamente muovere osservazioni così singolari come ha fatto Bagnai sulla Spagna descrivendo una situazione che (forse) esiste nella sua fantasia (o più verosimilmente è quella vuole descrivere) dettata dalla sua avversione all'euro(pa) è decisamente e a dir poco folkloristico.
Ma vediamo di esaminare punto per punto le sue posizioni.

Inizia con il mettere a confronto due aspetti che solo apparentemente sono in contraddizione. Uno riguarda a suo dire gli eccessivi toni trionfalistici che molti media di casa nostra usano nel rappresentare l'andamento dell'economia spagnola, e l'altro, sempre a suo dire, quello che userebbero i media stranieri, nel caso specifico l'aumento del tasso di povertà tra i minori.
Nell'articolo del media italiano Linkiesta che Bagnai chiama in causa, si fa una analisi dell'andamento decisamente positivo dei parametri macroeconomici dell'economia spagnola, i quali piaccia o meno stando agli ultimi dati forniti dall'Instituto Nacional de Estadistica vede un PIL che cresce dello 0,8% trimestre su trimestre e del 3,4% su base annua; un livello di occupazione che è salito a 18 milioni di lavoratori rispetto ai 17 milioni di inizio 2014 e un livello di disoccupazione che viceversa è sceso a 4,79 milioni da 5,9 milioni di inizio 2014.
C'è chi tra i suoi sostenitori fa eco alle sue singolari letture (lo si può verificare tra i commenti all'articolo del professore) sostenendo che sono aumentati i part-time (vero, ma...), che il tasso di attività è sceso (vero, ma...) e che sono aumentati gli scoraggiati, ovvero coloro che si sono stufati di cercare un lavoro (in una situazione di espansione economica e di aumento dell'occupazione???).
A costui/costoro suggerisco di approfondire l'analisi dei dati prima di cimentarsi in interpretazioni inconsistenti quanto stravaganti, ad esempio in questo caso leggendo i dati dei flussi nel mercato del lavoro:


...così si può rilevare che il calo del tasso di attività dipenda da altre motivazioni rispetto al presunto aumento degli scoraggiati!
Per quanto riguarda l'aumento dei contratti a tempo determinato oppure di quelli part-time, è vero, però è fisiologico. In una fase di crescita non c'è solo offerta di relazioni full-time e a tempo indeterminato.
Poi non sarebbe male guardare ai dati in dettaglio, al trend nel tempo ed in particolare al confronto con la situazione in altri Paesi, ad esempio dai dati Eurostat si rileva la seguente situazione:


Come si può osservare è vero da un lato che i part-time sono cresciuti percentualmente, ma è una situazione comune a tutti e comunque il tasso presente in Spagna è ancora inferiore a quello presente in altri Paesi (si guardi ad esempio all'Italia - in verde -  o addirittura alla Germania - in blu).
In questo altro grafico Eurostat si può osservare come i contratti part-time riguardino particolarmente (e comprensibilmente) le donne:


Ora, il fenomeno dell'aumento della povertà tra i minori è vero, ma non è antitetica alla crescita economica, anzi quest'ultima è funzionale per ridurla adottando provvedimenti di welfare. Questo perché la ricchezza prima di distribuirla, va creata. Almeno a mio modesto avviso.

Bagnai poi prosegue affermando una divergenza tra Regno Unito e Spagna in merito ai conti pubblici, sostenendo che mentre i britannici hanno aumentato la spesa, la Spagna avrebbe adottato una politica di austerity. Guardando ai dati statistici del Fondo Monetario Internazionale non vedo una sensibile differenza
tra i due Paesi:


Ambedue hanno visto ridursi, a seguito della crisi del 2008, le entrate fiscali e ambedue hanno aumentato la spesa pubblica nel 2009, con un andamento poi calante per quanto riguarda la Gran Bretagna e andamento simile lo si riscontra negli ultimi 4 anni per la Spagna.

Bagnai poi affronta un tema a lui caro, così come a qualsiasi lavoratore, quello dei redditi. Lui sostiene che in Spagna è aumentato il gap tra chi guadagna di più e chi di meno, questo è vero ma è così dappertutto, sia all'interno dell'eurozona che nel resto del mondo. Comunque proporrei al professore di osservare l'andamento della produttività in Spagna confrontando i dati con quelli degli altri Paesi, Regno Unito in primis visto che a suo dire quest'ultimo avrebbe beneficiato dal fatto di non avere l'euro:


Se il professor Bagnai ritiene che nel Regno Unito, stando fuori dall'euro, i salari non abbiamo subito quella che lui chiama svalutazione interna causata dall'euro stesso all'interno dell'eurozona, allora dovrebbe spiegare questa tabella:


O meglio, lo racconti ai lavoratori inglesi!

BREXIT e Costituzione Italiana

Giovedì 23 Giugno prossimo (da notare il giorno, un giovedì, non domenica) i britannici sono chiamati ad esprimersi sulla permanenza o meno nella Unione Europea. Da più parti qui da noi si vorrebbe avere la stessa prerogativa, ovvero decidere tramite un referendum popolare se rimanere nell'area euro o tornare ad una propria moneta, oppure se uscire addirittura dalla Unione Europea. Sappiamo però che questo al momento non è possibile in quanto la Costituzione Italiana all'articolo 75 - secondo comma - proibisce quesiti referendari che abbiamo come oggetto i trattati internazionali, le leggi di bilancio e tributarie, di amnistia e indulto. L'adesione all'Unione Europea in questo caso come quello alla moneta unica rientra in quello dei trattati internazionali e quindi non si può svolgere.

La domanda a questo punto che si pone è se questa rappresenta una limitazione al principio democratico di libertà di scelta dei cittadini oppure se sia legittimo limitare il diritto di esprimere la propria volontà per alcuni argomenti specifici, perché troppo 'tecnici' oppure per altre ragioni, ad esempio di opportunità (v.indulto o tributarie). Sicuramente se vi fosse un quesito che implichi la riduzione del carico fiscale sarebbe alquanto improbabile immaginare che i cittadini non votino a favore.
La questione di appartenenza o meno ad una comunità come quella a cui aderiamo oggi dell'Unione Europea, che noi abbiamo costituito nel lontano 1957 assieme a Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi, oltre poi a promuoverne la fase di implementazione oltre alla partecipazione alla moneta unica, l'euro (anche questo adottato sin dall'inizio), è un argomento che difficilmente può essere trattato con competenza da chiunque soprattutto per il fatto che le sue implicazioni in caso di una scelta o l'altra sono difficilmente valutabili da chi non ha conoscenze quantomeno di medio livello in campo economico.

Trovo quindi più condivisibile oltre che ragionevole la scelta da parte dei nostri costituzionalisti, che nel 1948 inclusero queste limitazioni, rispetto alla possibilità offerta ai cittadini britannici di assumersi la responsabilità di una scelta che avrà, in caso di vittoria del SI (cioè di lasciare l'Unione Europea), ripercussioni negative e dall'entità difficilmente stimabile.
Non è questione di democrazia, qui si tratta di argomenti che se non si possiedono le adeguate conoscenze si corre il serio rischio di avere ripercussioni indesiderate e gravi. Se poi si guarda alle argomentazioni addotte dai sostenitori del SI nel referendum britannico, si nota come queste siano perlopiù fragili e pretestuose, se non demagogiche. Si parte infatti dalla convinzione che lasciando la UE si porrà fine all'immigrazione, che nessuno straniero entrerà più in Gran Bretagna togliendo lavoro ai legittimi cittadini residenti.
Si prosegue con un argomento di carattere economico, ovvero che in questo modo la Gran Bretagna finirà di contribuire alla spesa dell'Unione Europea ricevendo di ritorno meno di quanto versato. Peccato che coloro che pensano questo non vedano al di là del proprio naso, in questo caso al fatto che il trasferimento di risorse finanziarie verso Paesi meno sviluppati consente a questi di crescere e crescendo acquistano e investono, acquistano beni e servizi all'estero accrescendo gli scambi internazionali e investono nei mercati dei capitali di cui Londra è una delle piazze più importanti. Abbandonando l'Unione Europea la Gran Bretagna risparmierà quindi sulla differenza tra quanto versa e quanto riceve ma perderà molto di più dalle conseguenze di autoescludersi dall'appartenere ad un'unica piazza finanziaria all'interno della UE.
Insomma è come abbattere completamente una casa costruita da poco perché non piacciono gli infissi!

Altro tema sollevato sono le regole europee, quelle decise a Bruxelles, che stando ai suoi detrattori limiterebbero l'autonomia o per meglio dire la sovranità nazionale. Anche in questo l'osservazione deriva da una scarna conoscenza di come funzionano le istituzioni comunitarie e la governance. Sfugge a costoro ad esempio la prerogativa di ciascun Paese di avere nei casi più importanti il diritto di veto, attraverso il quale anche un solo voto contrario comporterebbe la non applicazione di un trattato (es. il TTIP).
O l'opzione opt-out che consente ad un Paese di non adottare una regola, di cui si è servita la stessa Gran Bretagna assieme alla Danimarca per non adottare ad esempio la moneta unica. O il caso più recente del Fiscal Compact, il trattato che irrigidisce le politiche di bilancio, respinto dalla Gran Bretagna stessa così come la Repubblica Ceca.
Si potrebbe proseguire con altri esempi, non da ultimo i recenti accordi stipulati tra la Commissione Europea ed il governo inglese di David Cameron per scongiurare proprio la Brexit, concedendo alla Gran Bretagna ulteriori prerogative. A questo punto le argomentazioni a favore di chi la invoca sono ancora più scarne, rimangono solo argomenti che si possono definire populisti, ovvero che trovano accoglienza in una parte della popolazione per la percezione che questi infondono, ma che non illustrano interamente e dettagliatamente tutti gli aspetti, cioè i pro e i contro, che questi comportano.

Ben venga quindi il nostro art.75 della Costituzione e se proprio si vuole discutere di democrazia, allora si parli di concedere ai cittadini il diritto di scegliere direttamente il proprio capo dell'esecutivo, sia esso come è oggi il Presidente del Consiglio oppure eventualmente, copiando il caso degli Stati Uniti, il Presidente della Repubblica.
Si dia la facoltà, anzi l'obbligo, di nominare direttamente i parlamentari scrivendone il nome sulla scheda elettorale anziché apponendo un segno su un simbolo di partito o di lista delegando a costoro la scelta di chi mandare in parlamento.