giovedì 17 dicembre 2015

Bagnai unter alles!

Alberto Bagnai è un economista nonché docente universitario un po' singolare: non ama confrontarsi con chi non la pensa come lui e soprattutto non ama le osservazioni che mettano in dubbio le sue tesi. Francamente trovo singolare questo suo modo di fare, per quanto legittimo, soprattutto in considerazione che la maggior parte degli economisti ben più titolati di lui (vedi anche coloro che hanno conseguito ambiti riconoscimenti come il Nobel) si mostrano sempre disponibili verso tutti. Alla fine chi ci rimette però è lui stesso e coloro che lo seguono acriticamente ritenendo che quel che afferma sia del tutto inopinabile. Non certo chi ha la maturità di verificare altre fonti, altri punti di vista, potendo così realizzare che non tutto ciò che costui scrive (o afferma) sia veritiero.



Errare humanum est, perseverare autem diabolicum

Leggendo il suo articolo (QED61: Black Monday?)
pubblicato il 13 Dicembre sul suo blog, Goofynomics, ci si può imbattere in una delle oramai vetuste quanto inesatte affermazioni ripetute migliaia di volte:


Davvero il governo Monti, insediatosi a metà Novembre del 2011, è il principale fautore della politica di rigore varata a seguito della crisi che ha coinvolto i nostri titoli di Stato a metà del 2011? Politica che secondo un economista come Bagnai avrebbe avuto come unico effetto quello di deteriorare la domanda interna? Io ricordo di aver assistito ad un film diverso, oppure differiscono le nostre interpretazioni. Io rammento che per l'intero primo semestre di quell'anno il governo in carica, il governo Berlusconi quater, si prodigò per rassicurare gli italiani che l'economia italiana era in buona salute. I ristoranti erano pieni e difficilmente si trovava posto sui voli turistici (4 Novembre 2011).

Agli inizi di Agosto congedò la stampa augurando a tutti buone ferie e dando appuntamento alla fine del mese. Peccato che non si rese conto che il 4 Agosto 2011 il differenziale tra i tassi di interesse sui titoli decennali italiani e tedeschi aveva raggiunto i 390 punti base (3,90%) e la BCE di Trichet e Draghi (subentrante) inviò Venerdì 5 Agosto una lettera di richiamo alla realtà al governo italiano avvisandolo che per calmierare la febbre sui nostri titoli era necessario che il governo effettuasse delle misure sia di contenimento della spesa pubblica che di efficientamento nel mercato del lavoro. In assenza di provvedimenti la BCE non sarebbe intervenuta acquistando sul mercato secondario i nostri titoli del debito.
Venerdì 12 Agosto 2011 Berlusconi e Tremonti si ripresentarono in conferenza stampa illustrando una manovra da ben 45 mld di euro (!), metà con efficacia nel 2012 e la restante nel 2013.


Questo non servì per far tornare la tranquillità in quanto per l'intero secondo semestre i mercati temettero per una rottura dell'eurozona e di conseguenza abbandonarono gli investimenti sui titoli sovrani dei Paesi in crisi (Italia, Grecia, Spagna e Portogallo in primis) per trasferirli sui titoli più sicuri ancorché con rendimenti inferiori, in particolare quelli tedeschi e francesi.

A Novembre il governo Berlusconi perse la maggioranza alla Camera e la conseguenza furono, data l'imminente richiesta di una mozione di sfiducia, le dimissioni dell'intero governo dopo aver ricevuto rassicurazioni da parte del Presidente Napolitano di non andare subito alle urne ma di verificare la possibilità di formare un governo dalle larghe intese composto da cosiddetti tecnici ma sostenuto comunque dalla politica. Ed ecco il governo Monti, il quale contrariamente a quanto si recita non fece altro che confermare la pesante manovra varata dal suo predecessore. Il governo Monti varò anch'esso interventi alla spesa ma la parte maggioritaria la si deve attribuire all'accoppiata Berlusconi-Tremonti i quali sono meno oggetto di critica per il semplice motivo che la loro manovra, varata nell'Agosto del 2011, era riversata sugli esercizi successivi (2012 e 2013) cioè quando loro non erano più al governo.
Chi lo desidera può riservarsi un quarto d'ora per ascoltare dalla viva voce di Berlusconi i contenuti di codesta manovra.


E' nato prima l'uovo o la gallina?

Il prof.Bagnai torna poi per l'ennesima volta a puntare il dito contro la Germania sostenendo che l'euro avrebbe favorito le loro esportazioni a discapito di tutti gli altri in quanto l'euro, non rivalutandosi come avrebbe fatto presumibilmente una moneta tutta tedesca come il vecchio Deutsche Mark, avrebbe reso i loro prodotti più competitivi in termini relativi rispetto a quelli realizzati negli altri Paesi dell'eurozona. Questo è vero, certo, ma solo in parte, in minima parte, e vediamo il perché.
Prima di avere una domanda crescente di moneta, o meglio di valuta a livello internazionale, occorre che i prodotti siano venduti e per essere venduti devono prima soddisfare i consumatori. Ad inizio millennio, ovvero ad inizio era euro, lo sanno oramai anche le capre che l'economia tedesca era affetta da carenza di competitività tanto che proprio gli economisti la definirono la "malata d'Europa".
In un contesto come quello l'euro non poteva fare nulla a favore dei prodotti tedeschi, occorreva prima far si che fossero più competitivi e solo dopo, a seguito di una crescita delle vendite a cui non sarebbe seguita quella dei rapporti di cambio dell'euro con le altre valute (quantomeno non proporzionalmente), i prodotti tedeschi avrebbero beneficiato di una specie di 'bonus'. Cioè se con il vecchio marco i prodotti tedeschi fossero risultati più cari (esempio rispetto al prezzo espresso in dollari) di una determinata percentuale, il fatto che l'euro non rivalutandosi allo stesso modo (ma meno) avrebbe rincarato in misura inferiore i prezzi valutati in altra valuta (dollaro) e quindi i prodotti risulterebbero per l'appunto favoriti. Ma nei fatti è stato davvero così?

Se osserviamo l'andamento del cambio euro/dollaro dal 1999 vediamo che dal 2002 al 2008 l'euro si è apprezzato progressivamente, tranne una interruzione nel 2005, da 0,88 USD per 1 euro a ben 1,56 USD sempre per 1 euro, un apprezzamento di circa il 77%!


Ora guardiamo l'andamento delle esportazioni della Germania nel medesimo periodo. Come si può verificare sono passate da 651 mld del 2002 a 786 mld di euro nel 2005 (+21%) ed a 984 mld nel 2008 a cui corrisponde un ulteriore +25% rispetto al 2008 e un +51% dal 2002. Insomma a fronte di un incremento del 51% delle esportazioni il cambio è cresciuto del 77%!


Sicuramente si obietterà che l'incremento dell'export ha riguardato prevalentemente lo scambio con i Paesi dell'eurozona, ma non è così! Se si scende nei dettagli i Paesi che acquistano di più il "made in Germany" sono dopo la Francia, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Cina. Ma per dare dati precisi le vendite tedesche verso l'eurozona sono state nel 2002 di 276 mld di euro e nel 2008 hanno raggiunto quota 418 mld, quindi con incremento del 51%. Per differenza, verso i Paesi sia europei non facenti parte dell'area euro che extra europei, l'export è passato da 374 mld a 566 mld, quindi con un incremento sempre del 51%. Insomma, sicuramente l'unione monetaria ha favorito in parte la competitività dei prodotti tedeschi in quanto è venuto a mancare l'effetto cambio ma sostenere che questo è stato l'elemento determinante per la crescita delle esportazioni tedesche è eccessivo visto che l'incremento dell'export tedesco ha riguardato in egual misura i Paesi che non hanno adottato l'euro.

La (favola della) 'politica mercantilista'

Nel j'accuse contro la Germania non poteva mancare la solita stupidaggine della 'politica mercantilista' che avrebbe perseguito il Paese della Merkel allo scopo di 'fregare il vicino', meglio conosciuto nella versione originale inglese 'beggar thy neighbour'.
Io di tesi assurde se ho sentite diverse ma questa le batte davvero tutte! Il mercantilismo in sostanza è un tipo di politica economica tesa a favorire le esportazioni creando allo stesso tempo barriere alle importazioni in maniera da raggiungere un surplus commerciale e quindi accrescere la posizione economica dello Stato rispetto agli altri. Questo tipo di politica ha caratterizzato alcune economie del XVI ed in particolare il XVII secolo, principalmente quelle di Francia e Gran Bretagna ma anche molti Comuni italiani. Non volendo entrare nei dettagli suggerisco a chi lo desiderasse di informarsi presso fonti autorevoli (esempio L'enciclopedia Treccani: il mercantilismo). Una volta chiara la definizione si può passare ad analizzare la politica economica della Germania da fine secolo scorso ad oggi e verificare se questa ha delle attinenze con la dottrina mercantilista per il semplice fatto che di recente ha raggiunto valori sempre crescenti di avanzo delle partite correnti, ottenuto grazie ad un incremento delle esportazioni in misura maggiore rispetto alle importazioni.

Che questo sia stato conseguito in virtù di una politica che avrebbe penalizzato le importazioni e al contrario favorito le esportazioni, politica che avrebbe avuto come nodo centrale la dinamica dei salari e nello specifico come la definisce qualcuno una 'deflazione salariale', è una fesseria che si può smentire facilmente ricostruendo gli avvenimenti dall'unione monetaria ad oggi.

Per cominciare si osservi l'andamento della produttività tedesca per ora lavorata (in tedesco: Arbeitsproduktivität je geleisteter Erwerbstätigenstunde) del settore industriale manifatturiero (in tedesco: Verarbeitendes Gewerbe) dal 1999 al 2014 nel seguente grafico da me costruito con dati dell'Ufficio Federale di Statistica di Wiesbaden:


La pubblicazione dalla quale sono stati presi i dati è questa:


Come si nota la produttività cresce sensibilmente a partire dal 2002 per poi decrescere con l'arrivo della crisi del 2008, andamento logico considerando che la produttività generalmente è direttamente legata alla produzione, ovvero cresce all'aumentare della produzione realizzata e viceversa.

Ora si guardi l'andamento dei salari e retribuzioni lorde nominali per ora lavorata (in tedesco: Bruttolöhne und -gehälter je geleisteter Arbeitnehmerstunde) nel settore manifatturiero sempre per lo stesso periodo:


L'incremento è stato sempre crescente sebbene contenuto, non si notano riduzioni o incrementi nulli come l'affermazione 'deflazione salariale' lascerebbe intendere. E' vero che i valori riguardano i compensi lordi nominali e quindi occorre tenete conto dell'aumento dei prezzi per verificare se il potere di acquisto sia cresciuto, calato o rimasto costante. Nel periodo 2002÷2008 (quello principalmente incriminato a detta del prof.Bagnai e di chi accusa la Germania di concorrenza sleale) i salari sono cresciuti mediamente del 2% all'anno, un po' di più di quello dei prezzi pertanto si può ragionevolmente affermare che nel settore manifatturiero i salari sono cresciuti, seppur di poco, in termini reali. In altri settori, come quello dei servizi, vi possono essere stati andamenti diversi ma in quello manifatturiero come si è visto non è stato così e quindi è del tutto privo di fondamento affermare che vi sia stato un comportamento in qualche modo lesivo della Germania nei confronti dei partner dell'area euro. Il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP), che è il parametro più significativo per determinare la competitività, ha registrato un andamento migliore più per l'aumento della produttività che per un contenimento dell'incremento del costo del lavoro, la cosiddetta moderazione salariale, che sicuramente c'è stata ma per ragioni non certo imputabili ad una politica complottista.


Il prof.Bagnai in un articolo del 2012 con conteggi fatti in proprio ha stimato un calo delle retribuzioni in termini reali di circa il 6% dal 2003 al 2009. In quella analisi lui però ha preso dati complessivi dei lavoratori occupati in tutti i settori come fa notare lui stesso ("...occupati dipendenti - in inglese Total employees") e non nel solo settore manifatturiero, quello cioè più significativo nel fare confronti internazionali sulla competitività delle merci scambiate (che influenza significativa ha un calo delle retribuzioni nel settore delle costruzioni?). In ogni caso va anche fatto presente all'esimio docente di Economia dell'Università di Chieti e Pescara che un calo del 6% (ammesso, ma per quanto prima dimostrato non concesso, che ci sia stato) del livello delle retribuzioni in termini reali, non determina un incremento sensibile della competitività in quanto il costo del lavoro nel settore manifatturiero rappresenta generalmente una quota tra il 15 ed il 20% del costo totale di prodotto. Questo significa che anche a fronte di un'incidenza del 20% del costo del lavoro su quello totale, con un calo del 6% il prodotto finale costerebbe circa l'1,2% in meno!
Credo che l'impresa otterrebbe ben maggiori vantaggi delocalizzando la produzione in un Paese dove il costo non sia il 6% inferiore ma molto meno, ad esempio un quarto (V.Repubblica Ceca e/o in Polonia):


Merita una osservazione anche l'analisi dei settori merceologici che caratterizzano il confronto tra Paesi a livello di commercio estero. Se ad esempio Italia e Germania si confrontassero con prodotti del tutto simili e comunque nel medesimo settore merceologico potrei concordare sul fatto che un calo del CLUP anche lieve potrebbe fare la differenza, ma se la quota prevalente delle esportazioni italiane e tedesche si riferiscono a differenti settori merceologici non vedo come il Paese che riduce lievemente la componente del lavoro, che come visto prima rappresenta una quota contenuta sul totale, possa conseguire un vantaggio rilevante.



Va poi precisato che la cosiddetta 'moderazione salariale', che c'è stata solo parzialmente, non deriva da una intenzione di compiere una concorrenza scorretta verso i partner dell'eurozona, ma per recuperare competitività che nei primi anni 2000 era affetta da crisi profonda. Le aziende necessitavano di abbattere i costi e molte di lavoro hanno delocalizzato la produzione all'estero, prevalentemente nei Paesi dell'est Europa, e per evitare una profonda emorragia imprese e sindacati si sono accordati di recuperare competitività sacrificando il legame tra l'aumento delle retribuzioni a quello della produttività, ma lasciando che quest'ultima crescesse a tassi maggiori onde, come poi è avvenuto e come sopra è riportato, ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto a fronte dei principali concorrenti internazionali della Germania: Stati Uniti e Cina. Se infatti verso i prodotti cinesi la concorrenza può avvenire solo sul fronte della qualità e del vantaggio tecnologico, verso quelli statunitensi il confronto riguarda anche il prezzo e dato che il costo del lavoro negli Stati Uniti è inferiore a quello delle economie più avanzate europee e della Germania stessa, ecco l'esigenza di trovare una soluzione per ridurlo.
Si noti ad esempio come la maggior parte delle esportazioni di Polonia e Repubblica Ceca sono verso la Germania, in larga parte però di aziende controllate da capitale tedesco.

Non va poi trascurato il fatto che nonostante una crescita più moderata nel tempo dei salari, ad oggi il costo del lavoro orario in Germania è maggiore che da noi, ciò significa che a parità di altri fattori produrre un bene da noi è più conveniente dello stesso realizzato in Germania.
Questo gli imprenditori italiani lo sanno ed è per questo che non aderiscono alla invocazione di economisti come Bagnai di uscire dall'euro per uscire dalla crisi, ma desiderano poter operare in un contesto simile a quello dei loro competitors tedeschi sul piano dell'efficienza dei servizi, delle vie di comunicazione, dell'apparato pubblico e del livello della pressione fiscale!

Tornando alla Germania si afferma poi che questa 'moderazione salariale' abbia compresso la domanda interna e quindi le importazioni e che anche la spesa pubblica si sia ridotta. Bene, mentre per questa seconda categoria si può concordare, la spesa pubblica privata è cresciuta costantemente, anche se in misura contenuta, anno dopo anno:



Sinceramente ritengo preferibile una crescita lenta ma costante nel tempo dei consumi privati come quella tedesca piuttosto che a 'scatti', alimentata come accaduto da bolle speculative che possono prima o poi determinare effetti negativi, specialmente se provocati da shock finanziari come quello del 2008.

Il prof.Bagnai dovrebbe mostrare un po' di umiltà e confrontarsi con gli imprenditori, soprattutto coloro che operano sui mercati internazionali, così saprebbe quali sono i veri ostacoli alla nostra competitività. Altro che euro(pa)!

Gli imprenditori italiani, e veneti in particolare, non sono quelli che lui descrive:



ma sono questi:




e qui il discorso di apertura del suo presidente in occasione della 70° Assemblea Generale tenutasi a Verona il 09 Novembre 2015:



Costoro ogni giorno lavorano dall'alba al tramonto con dedizione, spirito di sacrificio e ottimismo (l'essenza di ogni imprenditore) e non credono che la via per migliorare la competitività passi attraverso un ritorno al passato, non tanto ad una propria valuta ma ad una cultura che è invece alla base delle difficoltà che ci caratterizzano oggi.

mercoledì 12 agosto 2015

Cambiamo i parametri di bilancio europei

Si parla spesso di mettere in discussione i parametri di bilancio europei ma poco si dice su come li si vuole modificare.
Senza ribadire la storia da Maaastricht in poi fino al Trattato sulla Stabilità, Coordinamento e Governance nell'Unione Economica e Monetaria, meglio noto come Patto di Bilancio o Fiscal Compact (si clicchi sopra per scaricare copia del trattato in lingua italiana dal sito della Commissione Europea) e dando per scontato che si sia a conoscenza degli attuali vincoli in essere, desidero esprimere alcune riflessioni circa la mia personale valutazione su come questi dovrebbero essere modificati, in primo luogo perché non più coerenti con la situazione economica attuale che è diversa dalla realtà vissuta durante gli anni '70 e '80, cioè del periodo su cui i parametri fissati nel trattato di Maastricht hanno fatto riferimento.

Debito
Il rapporto tra il debito complessivo di un Paese ed il suo prodotto Interno Lordo a prezzi di mercato è attualmente fissato al 60% e nel Fiscal Compact è previsto che le nazioni che si trovano oggi ad avere un valore superiore giungano a rientrare entro tale limite nell'arco di un ventennio. Questo valore è stato scelto a suo tempo semplicemente perché rappresentava la media del debito in essere (rapportato al PIL) dei Paesi che per primi si apprestavano a formare l'Unione Europea e ad adottare l'euro quale moneta unica, tranne qualche eccezione come l'Italia che già nel 1992, anno del Trattato di Maastricht, aveva già un debito maggiore. L'obiettivo era semplicemente quello di consolidare quel livello e non aveva quindi alcuna motivazione economica che lo riconducesse al 60% sebbene sia provato che all'aumentare del peso del debito, e quindi del suo costo in termini di interessi, venga penalizzata la crescita di quella economia.

Riguardo a questa variabile la mia valutazione è che debba essere portata ad un livello maggiore: 80%.

Perché 80% e non di più? La mia stima prende in considerazione il costo del debito in termini di interessi passivi da pagare, escludendo quindi a priori l'ipotesi di finanziare il deficit attraverso l'emissione di moneta da parte della banca centrale.
Se prendiamo come riferimento i tassi di interesse reali, ovvero la differenza tra quelli nominali e l'aumento dei prezzi (inflazione), e ipotizziamo che il tasso medio ponderato sui titoli del debito emessi a diversa scadenza sia indicativamente (e possibilmente non oltre) il 3%, possiamo giungere alla conclusione che il costo a fronte di un debito pari all'80% del PIL sia quindi del 2,4% del PIL stesso, un valore sostenibile e non penalizzante per l'economia in questione.

Ad oggi il costo del debito ammonta a circa il 4,6% del PIL, ma a fronte di un debito che nel 2014 ha raggiunto il 132% del PIl stesso:


ne consegue quindi che il 'peso' degli interessi sia circa il 3,4% in termini nominali sul totale. Il PIL nel 2014 è stato di circa 1.600 miliardi di euro a prezzi correnti, quindi se il costo degli interessi è ammontato al 4,6%, in euro è di circa 74 miliardi che rapportato al debito complessivo di 2.135 miliardi circa, esso rappresenta quindi il 3,4% (sia in termini nominali che reali visto che i prezzi sono cresciuti mediamente dello 0,2%). Un valore che potrebbe scendere ulteriormente proprio se parimenti scendesse il livello del debito così da aumentare la fiducia degli investitori e soprattutto dei rating assegnati dalle agenzie a cui gli investitori stessi si affidano.
Ad essere precisi non tutto il debito pubblico è rappresentato da titoli di Stato emessi dal governo, infatti al 31/12/2014 l'ammontare dei titoli in circolazione era pari a 1.782 miliardi di euro (fonte Dipartimento del Tesoro), quindi il costo sarebbe del 4,2% se rapportato a questo dato, ma rimane valido quanto scritto in precedenza circa la possibilità di far scendere questo valore abbassando il debito.


Personalmente prevederei una fascia di possibile espansione del debito nel caso l'economia dovesse affrontare una situazione di recessione o di lunga stagnazione e necessitasse di stimoli attraverso investimenti in conto capitale. Questo punto è solo parzialmente considerato oggi con il conteggio del PIL potenziale mentre servirebbe una maggiore flessibilità per permettere ad un governo di adottare misure atte a stimolare l'economia. Dovendo servire inizialmente risorse finanziarie a fronte di un PIL in calo e che mostrerà i suoi effetti più tardi è quindi logico aspettarsi che il debito salga sensibilmente, per questo ritengo che si debba dare respiro all'economia in crisi e questo respiro si potrebbe concretizzare fino a raggiungere lo stesso ammontare del PIL, ovvero un rapporto debito/PIL del 100%.

Solo oltre quel livello il governo dovrebbe adottare misure orientate a contenere la spesa corrente senza però penalizzare gli investimenti strutturali.

Deficit
Per questa voce ritornerei al parametro fissato a suo tempo nel trattato di Maastricht e cioè al 3% sul PIL. Inutile precisare che sono completamente in disaccordo con il pareggio di bilancio.

Perché 3%? Se prendiamo la relazione tra deficit, variazione del PIL e debito raffigurata dalla formula seguente:


dove:
d = deficit
D = debito
delta-P = la variazione del PIL in percentuale

ne deriva che per mantenere inalterato il rapporto "debito/PIL" al 80% con un deficit al 3% occorre che il PIL cresca del 3,9% in termini nominali, quindi con l'inflazione inclusa. Se consideriamo che il tasso di crescita dei prezzi fissato come obiettivo dalla Banca Centrale Europea è prossimo al 2% ne consegue che il tasso di crescita reale deve essere intorno al 2%, valore che deve essere raggiunto affinché sia garantita una crescita adeguata e permettere una sufficiente creazione di posti di lavoro.

Nel caso l'economia dovesse affrontare un periodo di crisi dovrebbe essere permesso, come prima anticipato, di superare temporaneamente il limite a patto che la maggiore spesa sia effettuata a fronte di investimenti concreti che abbiano l'obiettivo di stimolare l'economia e migliorare la produttività, non per spese correnti ad eccezione degli interventi a sostegno della disoccupazione e del sociale in generale (welfare).

Quanto all'ammontare di un extra deficit per contrastare una situazione di crisi si dovrebbe considerare, come avviene oggi, il fattore output gap (*) ma anche consentire una quota ulteriore per gli investimenti citati poc'anzi e che potrebbe corrispondere ad un paio di punti percentuali di PIL per un primo biennio per poi essere eventualmente ridotto ad un 1% per gli anni successivi se l'andamento dell'economia non avesse ancora registrato cambiamenti in positivo. Questo fino a quando il debito del Paese in questione non giunga allo stesso valore del PIL, superato questo ammontare quanto appena stimato dovrebbe essere ridotto della metà, rispettivamente un extra 1% per un biennio e uno 0,5% a seguire.

(*) Per un'idea di come viene stimato il PIL potenziale ed il saldo di bilancio corretto per il ciclo cliccare sul seguente link che permette di scaricare un documento del 2013 direttamente dal sito del Dipartimento del Tesoro:

mercoledì 17 giugno 2015

Alcuni chiarimenti sui fondi salvastati EFSF e ESM

Mi è capitato di leggere un po' dappertutto e anche su testate nazionali affermazioni imprecise circa il funzionamento dei fondi salvastati EFSF e ESM riguardanti il loro funzionamento ed il modo in cui finanziano gli Stati a cui viene concesso loro l'aiuto, ma soprattutto le fonti di finanziamento. Facciamo allora un po' di chiarezza.

Premessa
I fondi salvastati sono stati creati a seguito della crisi finanziaria del 2008 che ha messo in difficoltà alcuni Paesi dell'area euro i quali si sono trovati nella condizione di non riuscire a collocare i titoli del debito emessi dal proprio governo a condizioni (leggi tassi di interesse) accettabili. Per questa ragione nel Giugno del 2010 è stato creato in via provvisoria il fondo European Financial Stability Facility (EFSF) con il compito di dare sostegno finanziario ai Paesi dell'area euro in difficoltà e i cui Paesi costituenti sono proprio i 17 (all'epoca) membri. In seguito, nell'Ottobre del 2012, ha preso il via un secondo fondo, questo permanente: lo European Stability Mechanism (ESM) e dal 1 Luglio 2013 il precedente EFSF ha terminato la sua operatività e rimane attivo solo per concludere l'impegno assunto nei confronti della Grecia e terminerà definitivamente di esistere una volta che riceverà il rimborso di tutti i prestiti assegnati.

EFSF
Questo fondo è stato funzionale ad aiutare finanziariamente Irlanda (17,7 mld €), Portogallo (26 mld €) e Grecia (143,6 mld €). La capacità complessiva di prestito era prevista in 440 miliardi di euro per un importo complessivo garantito da parte degli Stati membri di 780 miliardi di euro. Cioè i 17 Stati costituenti hanno sottoscritto una garanzia fino a 780 miliardi complessivi a fronte di una possibilità (o capacità) di prestito fino a 440 miliardi di euro.

Quello che leggo spesso in giro e che non corrisponde alla realtà è dove il fondo raccoglie il denaro che usa per darlo in prestito ed il ruolo assunto dai 17 Stati membri.

Il fondo EFSF, così come il successivo ESM, non usa alcun contributo dai Paesi sottoscrittori, ovvero raccoglie i fondi emettendo sul mercato obbligazioni garantite dagli Stati membri.

Per cui a fronte degli aiuti concessi a Irlanda, Portogallo e Grecia per complessivi 187,3 miliardi di euro sono state emesse obbligazioni collocate sul mercato, obbligazioni acquistate da investitori vari a tassi relativamente bassi e sicuramente inferiori a quelli che i singoli Paesi in difficoltà avrebbero potuto contrattare.
Gli Stati membri del fondo EFSF garantiscono la copertura di queste obbligazioni in misura pro-quota secondo la seguente tabella (fonte EFSF):


Come si può notare i tre paesi che hanno ricevuto aiuti più Cipro non hanno dovuto garantire nulla in quanto beneficiari.
Alcuni credono che gli importi concessi loro siano stati versati dai restanti partner, Italia compresa, ma non è così! Il denaro proviene da chi ha acquistato le obbligazioni mentre i partner devono solo garantire pro quota il loro ammontare. Un elemento che trae in inganno è un grafico pubblicato dalla Banca d'Italia che mostra l'impegno finanziario italiano a fronte dei fondi salvastati:


Osservandolo si potrebbe dedurre che l'Italia abbia versato circa 60 miliardi di euro quale sostegno finanziario ai paesi dell'Unione Europea e Monetaria (UEM), ma non è esattamente così. Questo grafico mostra in realtà il peso sul debito pubblico di tre voci: i prestiti erogati a seguito di accordi bilaterali (circa 10 mld); i quasi 36 miliardi quale garanzia dei prestiti effettuai dal fondo EFSF ed infine i 14,33 miliardi effettivamente versati al fondo ESM di cui rimando la spiegazione.
Veniamo alla seconda voce, i circa 36 miliardi abbinati al fondo EFSF. Questi non sono stati versati ad alcuno ma sono solo la quota di garanzia di nostra competenza derivante dal totale che il fondo ha concesso: 187,3 miliardi. Dalla tabella sopra si vede che la nostra quota di competenza è del 19,2233% da cui si ottengono appunto i quasi 36 miliardi.

Ma se questi soldi non sono stati versati perché rientrano nel debito pubblico?
Semplicemente perché stando ad una nota diffusa da Eurostat (l'ente di statistica europeo), il fondo EFSF, a differenza del fondo ESM, non è riconosciuto come organismo internazionale e quindi contabilmente la quota di garanzia anche se non versata, né al fondo né tantomeno ai Paesi beneficiari di aiuti, deve aggiungersi all'ammontare del debito pubblico già presente. Insomma è una semplice regola contabile.

Questo comporta che solo nel caso i Paesi beneficiari di aiuti non rimborsassero i rispettivi prestiti saremmo chiamati a farlo noi assieme agli altri partner versando tutto o parte di quell'ammontare, cioè per il fondo EFSF circa 36 miliardi. Se invece venisse rimborsato tutto, allora non saremmo chiamati a versare alcunché e alla fine l'ammontare verrebbe stornato dal totale del debito pubblico.
Questa precisazione è doverosa visto che in questo periodo si parla di un possibile default della Grecia e delle possibili conseguenze. Noi abbiamo prestato con accordi bilaterali alla Grecia 10 miliardi e 27 miliardi circa sono quelli impegnati quale garanzia a fronte dei 143,6 miliardi complessivi concessi dal fondo EFSF. Questo impegno quindi si trasformerà in esborso effettivo solo in caso di insolvenza da parte della Grecia ed il cui ammontare dipenderà dall'entità del mancato pagamento sulla base della quota di nostra competenza (19,2233%).

ESM
Il fondo ESM si comporta come il precedente solo che si differisce dal fatto che ha una personalità giuridica internazionale, cioè è un organismo di diritto internazionale e possiede un proprio capitale.
La sua capacità di prestito è di 500 miliardi di euro mentre il capitale sottoscritto è di 704,8 miliardi e le quote di competenza per nazione sono indicate nella seguente tabella (fonte ESM):


L'Italia ha una quota di competenza del 17,8643% a cui corrispondono 125,4 miliardi di euro. Del totale sottoscritto, una parte pari a 80,55 miliardi è stata versata quale capitale di funzionamento e garanzia (Paid-in Capital) e la quota di nostra competenza è stata pari a 14,33 miliardi, il cui versamento è stato interamente effettuato in 4 rate: Ottobre 2012 - Aprile 2013 - Ottobre 2013 - Aprile 2014.
L'ammontare restante per complessivi 624,3 miliardi sarà richiesto solo se necessario (Committed Callable Capital) in caso si dovessero concedere aiuti ingenti ma in particolare se qualche beneficiario non dovesse rimborsare quanto ricevuto.
Il fondo ESM infatti raccoglie il denaro emettendo obbligazioni ad alto rating, quindi a condizioni particolarmente favorevoli, e lo usa per il sostegno ai Paesi in difficoltà. Il capitale versato invece rimane investito in titoli ad alta affidabilità e non viene usato per prestiti.
Finora il fondo ESM ha concesso aiuti alla Spagna (ristrutturazione settore bancario) per 41,3 miliardi di euro di cui 3,1 già restituiti e a Cipro per 9 miliardi di cui 5,7 miliardi già consegnati.


Chi ritiene che i 14,33 miliardi di euro versati al fondo ESM siano da considerarsi a fondo perduto si sbaglia, questi sono da ritenere la parte di nostra competenza in conto capitale nel fondo, che in caso di scioglimento dello stesso o di nostra uscita ci verrebbero rimborsati. Si eviti quindi di generare allarmismi o inutili sentimenti ostili facendo intendere che i contributi ai fondi salvastati siano soldi persi quando non è così.

lunedì 15 giugno 2015

La Produttività, questa sconosciuta

Raccolgo l'invito, quasi una intimazione considerata la sollecitazione ripetutamente reiterata, del prof.Antonio M.Rinaldi di scrivere un articolo nel quale esprimere le mie considerazioni riguardanti l'euro, la crisi e le soluzioni per uscirne, in alternativa all'abbandono della moneta unica ed il conseguente ritorno alla lira, ipotesi da lui ampiamente condivisa ed auspicata.
Premetto che io rifiuto le categorizzazioni pro- o antieuro così come pro- o antilira, qui non è questione di essere pro o contro qualcosa, ma di comprendere se un eventuale cambiamento di moneta possa risolvere quantomeno in parte la situazione di crisi e di difficoltà economica nella quale si trova ad essere in maniera particolare il nostro Paese che da decenni registra una crescita inferiore rispetto alle nazioni più industrializzate.
La scelta poi non è tra euro e lira in quanto l'euro l'abbiamo già, non è quindi oggetto di scelta, ma di definire se la moneta unica sia la responsabile principale di questa situazione asfittica della economia italiana ed un ritorno alla lira, ovvero ad una moneta nazionale, sia la soluzione.

Personalmente credo di no e questo perché la causa principale della debole crescita dell'economia italiana ha motivazioni di carattere strutturale.
Innanzi tutto occorre vedere la provenienza della crisi, che sostanzialmente è una crisi da domanda. Una crisi dal mercato interno o da domanda estera? I dati sono inequivocabili e dicono che è la domanda aggregata interna la causa della nostra debole crescita. Questo grafico che è costruito prendendo una serie di dati ISTAT mostra chiaramente che l'adozione della moneta unica non ha ostacolato le nostre esportazioni che, periodo di recessione del 2009 escluso, sono sempre cresciute:


I dati si fermano al 2011 ed io ho scelto comunque questi perché mettono insieme i valori complessivi, quelli dell'eurozona a 15 e verso la sola Germania. Dal 1999 (anno di definizione dei cambi delle singole valute nazionali verso l'euro) e/o dal 2001 (anno di circolazione dell'euro) le nostre esportazioni sono costantemente salite in riferimento alle tre aree qui prese in considerazione. Ad oggi il dato complessivo sfiora i 400 miliardi di euro e questo nonostante il PIL sia diminuito, segno che non è il cliente straniero che latita, ma quello italiano.
Le ragioni della debole domanda interna sono molteplici e personalmente vorrei iniziare partendo da una variabile che a mio avviso non è considerata sufficientemente, ma che invece ne è la principale causa: la produttività!

La produttività in linea generale rappresenta la quantità di produzione (o di output) realizzata a fronte dei fattori della produzione (capitale e lavoro) utilizzati. In genere in macroeconomia è determinata dal rapporto tra valore aggiunto (o PIL) e il monte ore impiegato per ottenerlo. Il suo significato è fondamentale perché rappresenta l'ammontare di produzione, espresso in moneta locale o altra valuta, realizzata per una unità di tempo pari all'ora.
La tabella seguente è tratta dagli ultimi dati OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) disponibili e relativi all'anno 2012 di una serie di Paesi che io ho selezionato dall'elenco disponibile:


Nella prima colonna è riportato il PIL in dollari statunitensi (per un confronto omogeneo), nella seconda il numero medio di ore lavorate in un anno da un lavoratore a tempo pieno, nella terza il numero complessivo di occupati, e qui già sarebbe possibile notare una curiosità se si è in possesso del dato sulla popolazione: in Italia la percentuale degli occupati sul totale della popolazione in età lavorativa è più bassa che in altri Paesi e questo non riguarda solo l'ultimo periodo, caratterizzato da una riduzione degli occupati causa la crisi, ma anche gli anni in cui l'economia era in crescita. Inoltre si può notare come il numero di ore lavorate in Italia sia maggiore rispetto a quelle in Germania o in Francia.
Le ultime due colonne però ci offrono i dati più interessanti. Nella penultima è riportata la produttività in termini di PIL per ora lavorata calcolata a prezzi correnti in dollari statunitensi e nell'ultima colonna il raffronto della produttività Paese per Paese con il dato degli Stati Uniti, Paese che registra il dato più elevato dopo l'Irlanda.
Come si può vedere l'Italia non brilla per produttività registrando un valore decisamente più basso rispetto agli USA e anche rispetto a Germania e Francia. Si tenga presente il dato del Giappone, simile ed inferiore a quello italiano.

In definitiva cosa ci dice il dato della produttività in penultima colonna? Ci dice in pratica che per ogni ora lavorata in Italia si producono 46,7 USD di PIL (o di valore aggiunto) a fronte dei 58,3 della Germania, i 59,5 della Francia e i 64,1 degli Stati Uniti. Prendendo in considerazione anche la seconda colonna si può giungere alla conclusione che in Italia si lavora mediamente ad esempio di più che in Germania per produrre però meno in termini di ricchezza.

Cosa implica una bassa produttività? La principale conseguenza riguarda il fatto che a fronte di una minore ricchezza prodotta vi sia una minore ricchezza da distribuire traducibile in un basso livello di reddito per i lavoratori. Difatti prendendo a riferimento sempre dati OCSE relativi ai redditi medi dell'anno 2012, calcolati a prezzi costanti del 2013 (per un confronto omogeneo con la tabella della produttività che riporta dati del 2012) e a parità di potere di acquisto, possiamo notare come i livelli presenti nei Paesi in questione rispecchino sostanzialmente il livello di produttività o per dirla più chiaramente nei Paesi dove si registra una produttività maggiore sono presenti redditi più alti e viceversa:


Si noti il dato italiano e quello giapponese, di cui prima abbiamo osservato sia un basso livello di produttività che di elevato numero di ore medie complessive lavorate annualmente, entrambi i redditi medi rilevati risultano inferiori in relazione ai Paesi con maggiore produttività.
E' quindi evidente la correlazione produttività-reddito e d'altronde è intuitivo: ad una maggiore ricchezza prodotta è possibile un maggiore reddito da distribuire ai lavoratori. Questo significa che per aumentare il reddito occorre aumentare il valore aggiunto, ovvero la produzione realizzata per ogni ora lavorata. L'Italia soffre da molti anni una carenza di produttività e questo si ripercuote sui redditi che rimangono bassi in rapporto al potere di acquisto, il che comporta una debole domanda aggregata aggravata poi da una cattiva distribuzione dei redditi e da una tassazione che oltre ad essere elevata è anche iniqua perché colpisce maggiormente le fasce di reddito medio basse, dovuto questo anche alla elevata evasione fiscale.
Da dati ISTAT la spesa complessiva per i consumi finali per l'anno 2013 delle famiglie italiane si è attestata attorno ai 935 miliardi di euro mentre quella delle famiglie tedesche residenti in Germania è stata di 1.571 miliardi, ciò equivale ad una spesa media pro-capite rispettivamente di circa 15.700 euro in Italia e di poco più di 19.300 euro in Germania, il 23% circa in più, una percentuale del tutto simile al differenziale di produttività riportata nella tabella precedente.

Cosa fare per aumentare la produttività? La produttività è un fattore strutturale e solo da riforme strutturali questa può variare sensibilmente e poco o nulla può fare l'adozione di una valuta piuttosto che un'altra, ergo il ritorno alla lira non cambierebbe la situazione. Migliorerebbe probabilmente il fatturato con l'estero per alcune imprese una volta verificatisi un deprezzamento della lira rispetto alle altre principali valute ed a parità di vendite nel mercato interno la produttività aumenterebbe, ma solo di poco, non sufficientemente per creare le condizioni per un aumento dei redditi a livelli simili di quelli registrati ad esempio in Germania o in altri Paesi del nord Europa.
Servono interventi su più fronti a cominciare da una riduzione della pressione fiscale sulle imprese. A questo si deve aggiungere una riduzione della burocrazia che per molte imprese rappresenta un costo rilevante in quanto non si tratta semplicemente di mettere più firme al posto di una, ma ad esempio permessi da richiedere con conseguente attesa per una risposta da parte di organismi pubblici che per una azienda comporta costi da sostenere.

Anche le imprese devono fare la loro parte, l'economia italiana è caratterizzata al 99% da piccole e medie imprese, molte delle quali con insufficienti mezzi finanziari propri ed eccessivamente dipendenti dal settore creditizio. I due grafici seguenti sono tratti da una relazione del prof.Carlo Arlotta in occasione del 23° congresso AMA (Associazione Professioni Economico Contabili) tenutosi a Sanremo il 17 e 18 Ottobre 2014 e mostrano a sinistra le fonti di finanziamento delle imprese ed a destra il rapporto tra capitalizzazione delle aziende quotate in borsa rispetto al PIL nazionale:


Guardando attentamente il grafico di sinistra si nota come l'incidenza dei mezzi propri per le imprese italiane (15%) sia decisamente inferiore rispetto a quelle tedesche (28%) e inglesi (44%) mentre dal grafico a destra come il ricorso alla borsa da parte delle nostre imprese come fonte di finanziamento sia molto basso e questo in gran parte dipende proprio dalle dimensioni della maggior parte delle imprese.
Occorre quindi che le nostre aziende aumentino la propria dimensione onde ridurre i costi fissi sfruttando l'economia di scala e che riducano sensibilmente la dipendenza dal settore bancario aumentando i mezzi propri oltre ad un maggiore ricorso al mercato dei capitali come fonte di finanziamento.
Serve poi un maggiore indirizzo verso produzioni ad alto valore aggiunto da realizzare internamente visto che la delocalizzazione all'estero di quelle a bassa produttività ed alta incidenza di manodopera è un processo inevitabile, in caso contrario si rischia una forte deindustrializzazione del Paese che nessuna moneta o sovranità monetaria sarà in grado di contrastare.

domenica 12 aprile 2015

Correlazione tra PIL, deficit e debito pubblico

All'indomani della presentazione del Documento di Economia e Finanza (DEF) molti sono coloro (compreso il sottoscritto) che ne sono rimasti delusi. La maggior parte perché auspicava una riduzione della pressione fiscale, altri (tra cui il sottoscritto) una riduzione sia della pressione fiscale che della spesa pubblica. Questo perché il livello, o la qualità se si preferisce, dei servizi resi dalle amministrazioni pubbliche, ad iniziare dallo Stato, non valgono il loro costo, ovvero quanto si paga per ottenerli. Dal mio punto di vista occorre necessariamente riformare la spesa delle amministrazioni pubbliche a tutti i livelli riducendone il costo, in seguito si potrà decidere se introdurre nuovi servizi oggi assenti (ad esempio un sussidio per i disoccupati), migliorare quelli esistenti oppure ridurre la pressione fiscale, pressione che anch' essa dovrà essere rivista e redistribuita perché oggi è eccessivamente concentrata sulle fasce di reddito medio basse e che pesano in particolare verso coloro che le tasse le pagano interamente.

Tra coloro che invocano un abbassamento della pressione fiscale c'è chi afferma che la spesa dovrebbe rimanere comunque costante per non penalizzare il PIL. Essi sostengono che una riduzione della spesa pubblica penalizzerebbe sensibilmente la quota di Prodotto Interno Lordo da essa generata ed il cui ammontare è legato al moltiplicatore fiscale.
In linea di principio ciò è vero, però rimane il fatto che occorre trovare chi paga la differenza tra uscite ed entrate del bilancio pubblico. Normalmente sono gli investitori che acquistano i titoli del debito (o obbligazioni) ma lo fanno se sono sicuri che l'emittente sarà in grado di ripagare sia il capitale che gli interessi previsti dalle cedole. Se il debito complessivo di chi emette titoli aumenta di anno in anno si arriverà prima o poi ad un atteggiamento crescente di diffidenza e di sfiducia da parte degli investitori sulla capacità di ripagarlo.
E' quindi importante che l'ammontare del debito complessivo rimanga costante oppure oscilli di poco in proporzione alla ricchezza prodotta. Niente di diverso da quando si chiede un fido o un mutuo ad una banca oppure ad una finanziaria, queste acconsentiranno fintanto che il debito consolidato del richiedente non arrivi a superare una certa parte del reddito prodotto.

I limiti di bilancio fissati dai trattati dell'Unione Europea oramai li sappiamo:
  • Rapporto debito/PIL entro il 60%
  • Rapporto deficit/PIL entro il 3%
Vediamo ora di conoscere la correlazione che esiste tra queste tre variabili, correlazione che ci da anche modo di comprendere come ad esempio la regola del 3% del rapporto deficit/PIL, contrariamente ad alcuni luoghi comuni diffusi, ha una sua logica.

La correlazione esistente la si può rappresentare con una semplice equazione matematica:
dove:
d = deficit
D= debito


Quindi se supponiamo di avere un debito pari al 130% del PIL e una crescita di quest'ultimo del 2,5%, per mantenere costante il rapporto debito/PIL occorre che il deficit sia il risultato dell'equazione, ovvero 3,17%. Se quello reale conseguito sarà inferiore il debito si ridurrà rispetto al PIL, viceversa aumenterà.
Da tenere presente che i dati sono espressi tutti a prezzi correnti quindi l'inflazione in questo contesto faciliterà l'obiettivo di riduzione del debito.

In alternativa si può anche ricorrere ad un foglio elettronico per fare le simulazioni con varie combinazioni di variazione di PIL, deficit e debito:

1) Si impostano le formule

2) Si decide l'ampiezza del periodo da considerare e si fissano i parametri scelti. A questo punto si otterranno i risultati

3) Si può anche raffigurare il risultato inserendo un grafico

A questo punto se ci si esercita un po' si avrà la possibilità di osservare un fatto che nel risolvere matematicamente potrebbe sfuggire: per ciascuna combinazione con valori costanti di crescita del PIL e di deficit, il rapporto debito/PIL si andrà a stabilizzare ad un determinato valore:


Il rapporto crescerà o decrescerà spostandosi dal valore iniziale sempre meno fino a raggiungere un punto di equilibrio. Questo fatto è interessante perché ci permette di determinare quale crescita media del PIL di lungo periodo sarà necessaria per stabilizzare il rapporto debito/PIL a fronte di un determinato rapporto deficit/PIL. Oppure in alternativa quale deficit è ammesso a fronte di una crescita media di lungo periodo del PIL per mantenere costante il rapporto debito/PIL.
Ad esempio a fronte dei parametri previsti dal trattato di Maastricht (debito/PIL=60% e deficit/PIL=3%) il PIL nominale di lungo periodo dovrà essere almeno del 5,26%:


Questo risultato, considerando che l'inflazione prevista non dovrebbe superare il 2%, comporta che il PIL di lungo periodo in termini reali dovrebbe crescere mediamente del 3,26%, un valore che poteva essere possibile negli anni precedenti il trattato di Maastricht, ma oggi è decisamente anacronistico e pertanto i parametri andrebbero rivisti. E' mia opinione lasciare pure il rapporto deficit/PIL al 3% ma il debito rispetto al PIL andrebbe portato al 80 o anche al 90%. Questo comporterebbe una crescita media del PIL nominale del 3,4÷3,8% (rispettivamente 1,4 e 1,8% in termini reali con inflazione al 2%), valori oggigiorno raggiungibili (anche se non facilmente).

sabato 7 marzo 2015

€urexit - La Grande Illusione

E' trascorso quasi un anno dalle elezioni europee, in occasione delle quali si è dibattuto a lungo circa la possibilità di una uscita dall'euro ed un ritorno alla lira da parte dell'Italia individuando presunti vantaggi derivanti da questa soluzione. Nonostante la maggioranza degli elettori abbia mostrato scarso interesse verso questa tesi preferendo dare la fiducia a partiti che apertamente si sono schierati dalla parte del mantenimento della moneta unica europea, oppure, nel caso di quei partiti che come la Lega Nord al contrario hanno basato la propria campagna sull'uscita hanno preferito mandare a Bruxelles candidati di lunga militanza come Borghezio piuttosto che ad esempio Claudio Borghi, dicevo nonostante questo si discute ancora animatamente di questo argomento e l'andamento negativo della nostra economia durante il 2014 non ha fatto altro che mantenere alto l'interesse.

Ma quali sono le argomentazioni di chi invoca il ritorno ad una moneta tutta "made in Italy"? Sostanzialmente i vantaggi invocati sono due:

- La possibilità di finanziare i deficit pubblici da parte di una banca centrale alle dipendenze del governo e che funga in tal modo da suo 'bancomat'.
- Un recupero di competitività internazionale dei prodotti italiani dovuto al deprezzamento (o svalutazione) della nostra moneta verso quelle più forti: dollaro, sterlina ed euro (o nel caso di una sua completa dissoluzione rispetto al marco tedesco ed al franco francese - o comunque alle monete che questi due Paesi tornerebbero ad adottare).

Ma sono realistici questi presunti vantaggi? Se ne è discusso molto tra chi li ritiene fondati e chi, come il sottoscritto, assolutamente no. Se ne parla proprio in questi giorni di fronte alla situazione critica in Grecia anche se il governo Tsipras ha apertamente escluso la possibilità di una loro uscita dall'eurozona.
In ogni caso mi interessa spiegare perché non credo sostenibile la tesi che vuole una uscita dalla crisi ed una ripresa economica (solo) uscendo dall'euro.

Finanza pubblica
Analizziamo il primo argomento sostenuto da coloro favorevoli ad un ritorno alla lira: il finanziamento attraverso monetizzazione da parte della Banca d'Italia di tutto o di parte del deficit delle amministrazioni pubbliche.
Quando un governo spende più di quanto incassa dalle entrate fiscali, ha due possibilità per coprire il disavanzo: chiedere denaro in prestito emettendo obbligazioni oppure chiedere alla propria banca centrale di finanziare il corrispondente accreditando l'importo sul conto che il Tesoro detiene presso di essa.
Prima del divorzio tra la Banca d'Italia ed il Ministero del Tesoro del 1981 accadeva che quest'ultimo emetteva titoli del debito (perlopiù a breve o media scadenza) ad un determinato tasso di interesse e assegnava un prezzo minimo di collocamento al di sotto del quale non potevano essere venduti all'asta. I titoli che non venivano collocati li doveva acquistare obbligatoriamente la Banca d'Italia ad un prezzo prestabilito accreditando l'importo sul conto del Ministero del Tesoro. Insomma è come se noi potessimo pretendere dalla nostra banca la concessione di un prestito ad un tasso massimo da noi stabilito. All'apparenza sembra essere una soluzione alquanto valida e rispondente alle necessità di spesa pubblica, però occorre prendere in considerazione anche gli aspetti che stanno "dall'altro lato della medaglia", ovvero le conseguenze sui prezzi. Più moneta comporta una maggiore inflazione e anche se non c'è una formula matematica che possa stabilire l'esatta corrispondenza, il concetto rimane valido e dimostrato empiricamente. Se infatti guardiamo al caso italiano lo possiamo verificare chiaramente

La figura seguente, che spero sia chiaramente leggibile una volta che se ne seleziona la dimensione originale cliccandoci sopra, è tratta da una relazione del Direttore Generale del Ministero del Tesoro in occasione di una audizione parlamentare del 20/12/1999 e mostra il peso della spesa pubblica corrente, delle entrate fiscali ed i relativi saldi in rapporto al Prodotto Interno Lordo:



Come si può osservare, mentre negli anni '60 si registra un avanzo dovuto alla maggiore entità delle entrate rispetto alle uscite, a partire dal 1971 si registra un deficit che va via via aumentando fino ad arrivare al 7,1% del PIL nel 1975. In questo decennio (1971-1981) lo Stato quindi deve finanziare il deficit emettendo titoli del debito e obbligando la Banca d'Italia ad acquistare quelli invenduti. Le conseguenze sui prezzi si possono vedere chiaramente dal grafico seguente che riporta l'andamento in termini di variazione percentuale annua dei prezzi del paniere di prodotti per le famiglie di impiegati ed operai nel periodo 1962-1999:



Si noti come prima del 1971, anno in cui lo Stato registra una spesa pubblica corrente superiore alle entrate, l'inflazione sia sicuramente alta rispetto ai valori a cui siamo abituati oggi, ma che proprio a decorrere da quell'anno questa si incrementi notevolmente e raggiunga valori a due cifre fino al già menzionato divorzio tra la nostra banca centrale ed il Tesoro. Dal 1981 infatti la Banca d'Italia non è più costretta ad acquistare i titoli del debito invenduti emessi dal Ministero del Tesoro e quest'ultimo dovrà quindi affrontare le leggi di mercato variando i tassi di interesse per adeguarsi alla domanda. In pratica durante fasi di crisi o sfiducia dovrà offrire agli investitori un premio maggiore aumentando l'importo della cedola e viceversa ridurlo in fasi favorevoli.

Ad onor di verità va ricordato che a spingere i prezzi negli anni '70 ha contribuito anche lo shock petrolifero e la politica monetaria statunitense, che verso la fine del 1979 diventando restrittiva sulla base delle teorie monetariste ha fatto crescere i tassi di interesse coinvolgendo così anche gli altri Paesi. Ma qui non è il caso di approfondire ulteriormente le cause e si rimanda eventualmente ad analisi specifiche sull'argomento, rimane il fatto che 'stampare moneta' per far fronte a deficit sensibili (oltre il 2÷3%) comporta quasi sicuramente un aumento altrettanto sensibile dei prezzi con effetti negativi soprattutto per i redditi fissi e (relativamente) bassi.
Si pensi all'abbinamento prezzi-tassi di interesse e la loro influenza sui redditi da lavoro dipendente e quindi fissi o perlomeno relativamente rigidi. Una famiglia si troverebbe ad affrontare due problematiche: l'incremento dei prezzi e quello dei tassi di interesse sui prestiti e nella fattispecie in particolare dei mutui con conseguente incremento della rata dovuta per contratti a tasso variabile.

Recupero competitività
Il secondo argomento cardine portato avanti dai sostenitori del ritorno alla lira consiste nel presunto recupero di competitività internazionale dei nostri prodotti una volta che la nuova moneta (la lira) si svalutasse rispetto alle principali valute (dollaro, euro o singole valute nazionali se l'eurozona si dissolvesse completamente) rendendo così più appetibili le nostre merci e al contrario più onerose quelle straniere, migliorando così la bilancia commerciale.
Questo è un aspetto che va analizzato adeguatamente perché è alquanto importante. Secondo i fautori dell'euroexit il meccanismo benefico di trasmissione consisterebbe in questo:



Da un primo punto di vista logico non fa una piega. All'estero vedrebbero più convenienti i nostri prodotti che verrebbero così preferiti. All'aumento delle vendite all'estero corrisponde più produzione e quindi più occupazione. Chiaro, semplice, lineare. Ma è davvero così?
Vediamo cosa ci dicono i dati storici reali. Nella figura seguente sono riportati i cambi della lira rispetto al dollaro USA ed al marco tedesco nel periodo 1970÷1999:




Come si vede il cambio con il marco tedesco (DEM) vede una crescita di quest'ultimo in gran parte lineare fino al 1992 mentre il dollaro statunitense registra una crescita sostenuta nel periodo 1981÷1985 per poi tornare a scendere sensibilmente dal 1985 al 1992. Mentre gli effetti sulla bilancia commerciale sono stati quelli che i sostenitori dell'euroexit amano rappresentare, in particolare a seguito dell'uscita temporanea della lira dallo SME nel 1992, le conseguenze sull'occupazione sono state tutt'altro come si può vedere dalla figura seguente e che i sostenitori (del ritorno alla lira) evitano accuratamente di mostrare:



Come si vede chiaramente, nel periodo 1982÷1985, cioè quando la lira si è deprezzata molto rispetto al dollaro (84%) e sensibilmente rispetto al marco tedesco (27%), l'occupazione è cresciuta di poco e a tassi non particolarmente rilevanti. Nel periodo seguente, quando è stato il dollaro a deprezzarsi rispetto alla nostra lira (-35% nel quinquennio 1986÷1991) e il marco tedesco è cresciuto appena di un 11% nello stesso periodo, l'occupazione ha registrato incrementi maggiori.
La mancata correlazione è ancora più evidente dal 1992, quando la lira uscì dallo SME e si deprezzò rispetto a tutte le valute più importanti. L'occupazione, nonostante l'aumento delle esportazioni e la riduzione delle importazioni con conseguente miglioramento del saldo commerciale, ha registrato un calo rilevante pari a circa 750.000 posti dal 1992 al 1995.
Poi dal 1996, ovvero dall'anno in cui la lira rientrò nello SME, l'occupazione riprese a crescere recuperando l'emorragia del triennio prima menzionato e aggiungendo nuovi posti proprio quando il cambio della lira rimane rigido ed in seguito quando viene adottato l'euro.

Prima di spiegarne le ragioni desidero mostrare una 'chicca'. Si osservi il grafico seguente che rappresenta il peso in percentuale sul PIL di esportazioni ed importazioni e prima di proseguire a leggere si faccia caso se si rileva qualcosa di curioso:



Durante il periodo della lira e della sua possibilità di correggere la parità di cambio con le altre valute, il livello delle esportazioni si è mantenuto pressoché costante attorno al 20% del PIL, poi sale sensibilmente proprio all'approssimarsi dell'adozione dell'euro e cioè quando il cambio è per forza di cose fisso con chi ha adottato la stessa valuta, inoltre tali esportazioni crescono in seguito nel periodo in cui l'euro si apprezza nei confronti del dollaro USA.
Insomma fin qui i dati reali smentiscono del tutto le argomentazioni avanzate dai sostenitori del ritorno alla lira. La bilancia commerciale migliorerà pure, ma a che serve se allo stesso tempo non ho gli stessi risultati sull'occupazione e anzi al contrario si perdono posti di lavoro?

E veniamo al perché a fronte di una svalutazione non si conseguono sempre vantaggi. La ragione è semplice: perché non si vive di solo export. I conti, e questo le imprese lo sanno, si fanno considerando tutti i mercati, quello estero ma anche (e soprattutto) quello interno. Se immaginiamo l'Italia come una unica impresa che fattura il 70% internamente ed il restante 30% all'estero, cosa mi porta di vantaggioso vedere crescere ad esempio del 20% l'export se poi sul mercato interno perdo per uno stesso 20%, oppure di una percentuale che compensa il primo incremento?
La figura seguente riporta i dati relativi ai consumi nazionali e osservandola attentamente si può notare la corrispondenza con l'andamento dell'occupazione, segno che questa è maggiormente legata alla domanda interna piuttosto che alle esportazioni, che comunque rivestono anch'esse un peso rilevante:



Come si può facilmente osservare a seguito della svalutazione della lira nel 1992 la domanda interna è crollata ed ha avuto effetti negativi sull'occupazione nonostante l'aumento sensibile delle esportazioni.

Ma allora cosa servirebbe per far ripartire l'economia se la strada dell'uscita dall'euro non fosse quella giusta? Per rispondere è necessaria un'analisi specifica, intanto un anteprima di quella che dal mio punto di vista è la via da seguire è individuabile nella prima figura, quella tabella che mostra il peso sia della spesa pubblica che delle entrate sul PIL dal 1960 al 1987. Si confrontino i valori con quelli odierni o comunque quelli a partire dagli anni '80.