domenica 26 gennaio 2014

Quando il fisco si inceppa

Il 2 Luglio 2013 il deputato di Scelta Civica Enrico Zanetti presenta una interrogazione parlamentare alla Camera riguardo l'ammontare dei ruoli tributari non ancora riscossi con particolare riferimento alla quantificazione delle somme ancora esigibili.
La risposta in data 11/07/2013 per conto del governo è del viceministro Luigi Casero il quale si avvale di due tabelle che riepilogano la situazione al 30/04/2013 e i cui dati si riferiscono al periodo 2000÷2012.
 
Come si può notare dalla tabella N.1 il "Carico affidato totale", ovvero il contenzioso complessivamente messo a ruolo sia dall'Agenzia delle Entrate che da Equitalia, è stato pari a 807,7 miliardi di euro e nella tabella è ripartito per ente di competenza:



Del totale, 193,1 miliardi di euro sono stati derubricati o per usare il linguaggio tecnico oggetto di sgravio, cioè sono stati cancellati perchè ritenuta l'illegittimità della richiesta.

L'importo riscosso è stato pari ad appena 69,1 miliardi di euro pertanto il residuo ancora iscritto a ruolo risulta essere di 545,5 miliardi di euro e nella seconda tabella è riportato il dettaglio di questo ammontare diviso per anno:


 Di questi 545,5 miliardi, quelli difficilmente (o non più) recuperabili perchè a seguito di fallimenti sono pari a 107,2 miliardi mentre 18,6 miliardi sono l'ammontare a cui è stato concesso il pagamento rateale a fronte di soggetti in difficoltà finanziaria.
Rimangono quindi oltre 400 miliardi di euro iscritti a ruolo, pari al 24% circa del Pil, e la questione è se effettivamente questo importo è dovuto e in caso affermativo entro quanto tempo si prevede vengano recuperati tenuto conto che circa un quarto di questo ammontare è viceversa il debito delle amministrazioni pubbliche verso soggetti privati per lavori richiesti, effettuati, fatturati ma non ancora onorati.

E' interessante riportare un passaggio della risposta ufficiale del viceministro Casero riguardo la composizione dei soggetti iscritti a ruolo:

"In ogni caso, al 31 dicembre 2012, oltre l’80 per cento del carico residuo era riferibile a debitori iscritti a ruolo per importi complessivamente pari o superiori a 500.000 euro (121.409 soggetti per un carico netto residuo da riscuotere pari a 452 miliardi di euro)."

Così mettiamo in pace l'anima di coloro che potrebbero chiedersi se i debitori siano 'poveri' artigiani che per difficoltà economiche non abbiano pagato poche migliaia di euro di imposte e/o contributi.

Magari prima di parlare di austerity, di vincoli europei, di necessità di aumentare il deficit pubblico, sarebbe il caso di risolvere questa questione.

giovedì 23 gennaio 2014

La Gabbia delle vanità

Come ogni mercoledì sera sulla rete La7 è andata in onda la trasmissione La Gabbia condotta da Gianluigi Paragone e anche ieri mi sono messo davanti al televisore ad ascoltare gli interventi degli ospiti e vedere i servizi degli inviati. Si è parlato di politica evidenziando i mali in essa contenuti e le vicende spesso torbide che la caratterizzano. Le cattive abitudini di molti parlamentari che a differenza di quanto avviene all'estero snobbano le domande dei giornalisti arrivando talvolta a reagire seccatamente, in particolare quando le domande risultano poco gradite.
Questa è la parte che francamente trovo più interessante.

Poi si è passati all'economia e qui il programma dimostra la sua decisa posizione anti-euro, se non anti-UE. E fin qui non ci sarebbe nulla di male, per carità, ciascuno è libero di esprimere la propria posizione e avere programmi diversificati è sicuramente un aspetto positivo per l'informazione.
Dove però rimango perplesso è il modo in cui si confrontano gli ospiti, caratterizzato spesso da bagarre in cui talvolta viene coinvolto il pubblico e che poco ha di interessante e di utile per chi segue da casa in quanto non permette di capire bene chi dice cosa.
Per non parlare poi di ospiti fissi a cui viene riservato uno spazio proprio durante il quale illustrare teorie economiche bizzarre che, se proprio, andrebbero spiegate in altro contesto e soprattutto con un contraddittorio altrimenti è possibile far passare tutto per serio.

Nella puntata di ieri ho assistito anche agli scambi vivaci di opinioni tra il blogger Mario Adinolfi ed il prof. Antonio Maria Rinaldi, uno dei più ferventi sostenitori del ritorno alla lira e dichiaratamente anti-euro, anti-UE, anti-Merkel, anti-Germania, che con una bandiera tricolore in mano invitava tutti a non vergognarsi di essere italiani. Francamente non so a chi si riferisse.



Ha poi sfoderato dati buttati un po' a caso, come fossero dadi sul tappeto verde da gioco di un casinò, sull'indice della produzione industriale italiana che, a suo dire, sarebbe in calo da quando siamo entrati nella moneta unica mentre il corrispondente della Germania sarebbe cresciuto a decorrere dallo stesso momento a tal punto che il divario tra i due indici sarebbe oggi addirittura del 38%.

Ora io non so dove abbia ricavato questi dati il prof. Rinaldi perchè, se prendiamo quelli forniti dall'Istat, è vero che in alcuni settori l'indice della produtività è calato ma non a decorrere dal 1999 come ha affermato lui. Inoltre i dati non devono essere letti così superficialmente, ma analizzati approfondendo le eventuali cause che possono aver portato ad una riduzione (o crescita).


Come si può vedere nella tabella nel settore del tessile, abbigliamento e accessori, c'è stato effettivamente un calo della produzione ma non dipende certo dall'euro, piuttosto dalla delocalizzazione della produzione effettuata già a partire dalla seconda metà degli anni '90 per ridurre il costo di una produzione ad alta intensità di manodopera.
Per il settore dei computer e prodotti di elettronica sappiamo che la produzione di queste due categorie merceologiche si è sensibilmente ridotta per la crisi che ha coinvolto aziende come la Olivetti che alla fine ha lasciato il campo. O come la Mivar, la Sèleco ed altre che pian piano hanno dato forfait e se si analizza la loro storia si vedrà che l'euro c'entra poco con la loro fine, anzi nulla.

L'energico professore poi è passato alla Germania fornendo dati che solo lui conosce come ad esempio un presunto divario tra l'indice della produzione tedesca e quella italiana che avrebbe raggiunto il 38%.
Che ci sia un divario nessuno lo smentisce, ma che sia di quell'ordine sarebbe interessante scoprire dove l'ha ricavato.
Ha affermato che l'aumento della produzione la Germania lo deve all'euro, ma se andiamo a vedere i dati ufficiali si scopre che questa è cresciuta già anni prima dell'unione monetaria e che dal 1999 questa ha subito una impennata dopo un po' di tempo, più esattamente dal 2003, ovvero da quando le riforme attuate dal governo Schröder hanno iniziato a dare i propri frutti, frutti di cui ha poi beneficiato in gran parte l'attuale cancelliera Angela Merkel.


Questa crescita poi è dovuta in particolare all'enorme incremento dell'export che ha riguardato i Paesi della UE ma in misura maggiore le aree extra UE ed in particolare extra euro. Questo un professore che si dichiara economista dovrebbe saperlo e quindi imputare al cambio fisso la debolezza della nostra economia ed il successo di quella tedesca lo trovo alquanto azzardato.



 
Calo invece un velo pietoso sull'intervento del giornalista Paolo Barnard che ha raccontato una versione 'personalizzata' riguardo il contenuto di un report della Commissione Europea, report che in un passaggio mette in guardia da un possibile scenario negativo che se confermato comporterebbe un calo del tenore di vita nel prossimo decennio. Riporto il testo originale in inglese:

"If this was to materialise, euro area living standards (potential GDP per capita) would be at only around 60% of US levels in 2023, with close to 2/3 of the gap in living standards due to lower labour productivity levels, and with the remaining 1/3 due to differences in the utilisation of labour (i.e.matched US GDP per capita trend growth rates over the 1980's and early 1990's."

Come si può leggere si parla di ipotesi e questo ammonimento andrebbe contestualizzato all'interno di tutto il report e non estrapolandone una parte.
Affermazioni poi come questa sotto apparsa durante lo show del giornalista non sono contenute nel report e sono frutto solo della sua fantasia.
 
 
La sua performance poi è proseguita con una serie di affermazioni sparate a raffica e dai contenuti inesatti, come ad esempio il dato sulla presunta percentuale di lavoratori sottopagati in Germania da cui si evince che non conosce il significato del termine 'sottopagato' (sottopagare: pagare meno del dovuto o del giusto- Treccani) confondendolo con il termine low-wage che identifica (per Eurostat) un livello di salario inferiore ai 2/3 rispetto a quello medio.

E' andato avanti dicendo che sempre la Germania sarebbe in 'rosso' sulle esportazioni (?) e che non effettuerebbe investimenti in infrastrutture da almeno 10 anni. Ho l'impressione che confonda gli investimenti pubblici in infrastrutture con quelli del settore privato, che effettivamente sono tra i più bassi in Europa, ma se avesse davvero letto quanto il governo federale ha speso in infrastrutture (ammodernamento ferrovie, autostrade, edilizia), in particolare nei Länder dell'ex DDR, eviterebbe di raccontare sciocchezze.

martedì 21 gennaio 2014

Debito pubblico e lex monetae



Ieri pomeriggio, mentre ero in stazione a Mestre in attesa di prendere il treno per far ritorno a casa, decido di leggere i commenti o reazioni in merito all'accordo Renzi-Berlusconi e su Twitter scorro le TL di vari esponenti politici tra cui quella dell'on. Alessandra Moretti. Non riscontrando nulla di recente sto per lasciare quando capita di imbattermi in uno scambio di tweet in cui non si parla di temi politici, bensì di aspetti economico-finanziari legati ad una eventuale uscita italiana dall'euro-zona ed alle possibili conseguenze sul debito pubblico.

L'origine sembra essere stato questo tweet che provoca le ilarità e le accuse di 'analfatetismo economico' da parte di alcuni sostenitori del ritorno alla lira:


Alessandra Moretti sostiene che in caso di ritorno alla lira, o comunque ad una moneta nazionale, il nostro debito pubblico aumenterebbe del livello con cui essa si svaluterebbe nei confronti dell'euro (in questo caso del valore stimato del 30%) e questo perchè l'euro diventerebbe a quel punto a tutti gli effetti una valuta estera.
Le repliche più 'garbate' sono state queste:



Ebbene voglio spiegare perchè Alessandra Moretti non ha scritto una eresia.

Ogni Paese sovrano ha il diritto di scegliere quale moneta adottare e questo anche in caso scegliesse di abbandonarne una per sostituirla con un'altra. Questo diritto si trasferisce anche per le obbligazioni emesse nella vecchia valuta ma sotto legislazione nazionale per le quali è ammessa la ridenominazione nella nuova valuta con la quale poi liquidarle alla scadenza. Questo diritto si chiama lex monetae.
Magari non l'ho descritto in maniera giuridicamente esemplare ma in sintesi il concetto è quello, il che, applicato ai titoli del debito pubblico, significa che l'Italia nel caso dovesse prendere la decisione di lasciare l'euro per adottare una nuova valuta ha il diritto di ridenominare il debito in questa, almeno quello emesso sotto diritto italiano.

Se l'Italia dovesse compiere questa scelta il tweet dell'on. Moretti sarebbe impreciso o comunque discutibile in quanto il suo ammontare verrebbe ridenominato in lire e a seguito di una probabile svalutazione rispetto alle altre valute il nostro debito rimarrebbe tale e quale in termini di valore assoluto. Questo è vero forse al principio, ma come ha fatto poi notare la deputata del PD è probabile che a seguito di un incremento del costo del debito (interessi) il suo ammontare crescerebbe di molto in tempi brevi e potrebbe incrementarsi di una percentuale del simile a quella riportata.



Io però ritengo di dover confutare proprio la tesi in base alla quale in caso di uscita dall'euro le nostre autorità decidano di avvalersi della lex monetae ridenominando il debito nella nuova valuta.

Nel caso il governo, con l'approvazione del parlamento, dovesse prendere la decisione di lasciare l'eurozona e con essa la UE trascorrerebbe diverso tempo prima di poter mettere in circolazione la nuova valuta nazionale (lira) e non credo che questo tempo possa essere inferiore ad un anno perchè non si tratta di una operazione semplice come cambiare logo alla valuta del nostro conto corrente.
Durante questo periodo però noi dovremmo comunque collocare titoli del debito pubblico e lo si dovrebbe fare sempre in euro o altra valuta in vigore, non certo in quella che si andrebbe ad adottare. Ora, quale operatore finanziario sano di mente tra quelli che hanno il compito di investire miliardi di euro, dollari, yen, yuan o altro, acquisterebbe un titolo ad un prezzo per poi vederselo rimborsare decisamente 'scontato' senza conoscere esattamente l'entità di questo 'sconto' e soprattutto dulcis in fundo se sarà garantito proprio il rimborso? Affermare che il rimborso è garantito ed un default impossibile perchè poi si potrà 'stampare moneta' a piacimento significa avere le idee piuttosto confuse circa il funzionamento di un sistema monetario.

Se il governo non dovesse annunciare formalmente di non procedere alla ridenominazione del debito nella nuova valuta (neo lira) applicando la lex monetae non riusciremmo a collocare più nemmeno 1 solo euro e non potremmo invocare l'intervento della Banca Centrale Europea ne' tantomeno quello della Banca d'Italia. Le conseguenze credo sia superfluo descriverle se uno sa a cosa servono i circa 300 miliardi di euro che annualmente chiediamo in prestito.

Qualcuno potrà pensare che si stia facendo terrorismo psicologico, io invece dico che si sta facendo solo una valutazione concreta di una prospettiva basata su fatti ed esperienze passate oltre che a portare ragionamenti del tutto logici se si ragiona con la testa di un investitore e non di un fan pro o contro euro.

sabato 18 gennaio 2014

Christiane F. - La Mia Seconda Vita

Era il 1978 quando due giornalisti della rivista Stern si recarono in un carcere di Berlino Ovest per incontrare una giovane sedicenne sotto processo per possesso di droga. Desideravano intervistarla per realizzare un articolo sul fenomeno della tossicodipendenza a Berlino, ma domanda dopo domanda i due giornalisti si resero conto che dietro quella adolescente si celava una storia molto profonda e drammatica tanto che alla fine ne venne fuori materiale sufficiente per realizzare un libro, libro che fu infatti scritto e pubblicato con il titolo: "Wir Kinder vom Bahnhof Zoo". Il nome di quella ragazza era Christiane Vera Felscherinow. In Italia uscì nella versione tradotta in: Christiane F.- Noi i Ragazzi dello Zoo di Berlino.
 
Nel 1981 fu realizzato un film che io andai a vedere quando uscì in Italia e fui molto colpito dalla storia. Comprai poi il libro e lo lessi in pochi giorni, cosa per me inusuale in quanto non sono un grande divoratore di libri. Quello che mi coinvolse del racconto fu in primo luogo l'età dei protagonisti, tutti giovanissimi dai 13 ai 17 anni e miei quasi coetanei visto che tra me e la protagonista ci dividono 14 mesi. Il libro racconta in tutta la sua drammaticità la vicenda di Christiane, una adolescente molto intelligente ma fragile e della sua esperienza con la droga che la porterà in un tunnel fatto di dipendenza, morte e prostituzione.
Sono giovanissimi gli amici di Christiane che moriranno per droga, tra cui Babette, la vittima più giovane a Berlino, morta a 14 anni per overdose e la cui notizia comparve in prima pagina sul Berliner Zeitung.

Sono trascorsi alcuni decenni, Berlino ha subito numerosi cambiamenti a cominciare dall'unificazione con la parte orientale, ma la stazione Zoologischer Garten, luogo in cui si concentrano gran parte degli avvenimenti, non è poi cambiata così tanto. Il retro si presenta esattamente come si vede nel film, tetro e con le travi di sostegno metalliche.


La Kurfürstenstraße continua ad essere una via frequentata da prostitute così come la laterale Genthinerstraße, dove risiedeva la discoteca Sound frequentata da Christiane e che oggi non c'è più.


Nel libro Christiane racconta che spesso mentre si trovava in quel luogo in attesa di clienti guardava le vetrine dei negozi di mobili (presenti ancora oggi) e immaginava come poteva arredare la casa in cui lei ed il suo giovane fidanzato Detlef sarebbero andati ad abitare. Questo episodio descrive il conflitto tra il desiderio di una vita normale ed il malessere interiore che la tiene incatenata al mondo della tossicodipendenza.
Anche il luogo in cui abitava, Gropiusstadt, non è cambiato poi molto con i suoi palazzoni tetri ed austeri.

Il libro ha avuto un notevole successo internazionale e ancora oggi in molte scuole tedesche viene fatto leggere agli studenti.

Oggi Christiane è tornata a vivere nei pressi di Berlino e assieme ad una giovane giornalista ha pubblicato un secondo libro dal titolo "Mein Zweites Leben" (La Mia Seconda Vita) presentato alla fiera del libro di Francoforte lo scorso Ottobre. La versione in italiano dovrebbe uscire a breve. Racconta il seguito e le sue vicende in gran parte legate sempre alla tossicodipendenza. Racconta anche del figlio ora diciassettenne, sottrattole e affidato ad altra famiglia, che le ha dato la forza di lottare per uscire dalla schiavitù della droga.






Fiscal Compact, la bufala dei 50 miliardi all'anno da pagare o tagliare

Secondo una ricerca OCSE (ma in precedenza ve n'è stata un'altra con risultati analoghi) due terzi degli italiani ha difficoltà a comprendere un testo di media difficoltà. Non so se questo riguardi anche il famigerato Fiscal Compact di cui tanto si parla ma che spesso è citato in modo impreciso, in ogni caso molti italiani non lo hanno ancora compreso e non parlo tanto del cittadino medio, colui che non ha fatto scuole ad indirizzo economico o legale, ma ad alcuni 'economisti' (o che si fanno chiamare tali) e politici che la materia la dovrebbero conoscere bene dato che i secondi le leggi le propongono e le approvano, in particolare quando nell'estate del 2012 fu inserito in Costituzione l'articolo riguardante il pareggio di bilancio (provvedimento superfluo visto che il trattato non lo imponeva) e la ratifica del Fiscal Compact. Eppure ancora oggi alcuni tra economisti e politici fanno delle affermazioni del tutto infondate nonostante si sia fatto presente loro più volte l'errata interpretazione di alcune norme del trattato.

Ma andiamo al punto. Che cos'è questo 'benedetto' Fiscal Compact? Prima di tutto va detto chiaro e tondo che si tratta di un trattato e non di una direttiva europea, questo giusto per replicare a coloro che spesso amano ripetere: "Ce lo chiede l'Europa". L'Europa non chiede nulla di più che il rispetto delle norme contenute nei trattati che volontariamente abbiamo sottoscritto e poi ratificato in sede parlamentare.

Il Trattato sulla Stabilità, sul Coordinamento e sulla Governance nell'Unione Economica e Monetaria noto anche più brevemente come Patto di Bilancio Europeo e più comunemente come Fiscal Compact, è un trattato stilato bilateralmente da Francia e Germania e proposto in sede europea. Anche questo è bene ricordarlo visto che talvolta viene descritto come una imposizione da parte della sola Germania. E' stato approvato ed in seguito ratificato da 25 Paesi sui 27 che componevano nel 2012 l'Unione Europea, con l'esclusione della Repubblica Ceca e della Gran Bretagna.
Esso non è altro che la rigida applicazione dei parametri di bilancio contenuti nel precedente trattato di Maastricht, in base al quale si stabilisce che ciascun Paese non debba avere un deficit complessivo maggiore del 3% rispetto al Prodotto Interno Lordo (PIL) e che il rapporto debito pubblico complessivo e PIL non superi il 60%. Nel caso ci si trovi a non possedere uno o ambedue i parametri il Paese dovrà attuare misure per rientrare nei limiti. Va anche aggiunto che è ammesso un disavanzo strutturale dello 0,5% sul PIL, oppure del 1% per i Paesi il cui rapporto debito/PIL dovesse essere inferiore al 60% (questa è la parte che riguarda espressamente il pareggio di bilancio).
Fin qui possiamo dire che non ci sono divergenze di interpretazione. Dove invece c'è chi ancora fa difficoltà a comprendere il contenuto di alcune norme contenute nel trattato riguarda l'intervento richiesto ai Paesi che si trovino ad avere un rapporto debito/PIL superiore al 60%.
Riporto il testo originale dell'articolo 4 sottolineando la parte in discussione:

"Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore di riferimento del 60% di cui all'articolo 1 del protocollo (n. 12) sulla procedura per i disavanzi eccessivi, allegato ai trattati dell'Unione europea, tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno come parametro di riferimento secondo il disposto dell'articolo 2 del regolamento (CE) n. 1467/97 del Consiglio, del 7 luglio 1997, per l'accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi, come modificato dal regolamento (UE) n. 1177/2011 del Consiglio, dell'8 novembre 2011. L'esistenza di un disavanzo eccessivo dovuto all'inosservanza del criterio del debito sarà decisa in conformità della procedura di cui all'articolo 126 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea."




Bene, ecco che arriviamo alle divergenti interpretazioni di quanto dispone questo articolo. Alcuni sostengono che sia possibile quantificare il costo medio per il raggiungimento dell'obiettivo di rapporto debito/PIL al 60% e che nel nostro caso corrisponde a circa 50 miliardi di euro all'anno. Perchè viene fuori questa cifra? Semplice, loro prendono in considerazione l'ammontare del debito complessivo di circa 2 mila miliardi di euro e dato che al momento in cui venne calcolato l'importo di 50 miliardi il rapporto debito/PIL era del 120%, ne conseguiva che si doveva dimezzarlo (da 120 a 60%) e che in termini assoluti corrispondeva alla metà di 2.000 miliardi, ovvero 1.000 miliardi. Dato che il tempo a disposizione previsto nel trattato è di 20 anni dividendo 1.000 miliardi per 20 si ottiene 50 miliardi.

Ma è del tutto una interpretazione errata perchè in questo modo si suppone che il PIL non cresca ma rimanga costante nel tempo! La riduzione di cui si parla nel testo del trattato all'articolo 4 riguarda il rapporto tra due variabili che non sono costanti ed è il quoziente che deve ridursi di un ventesimo all'anno.


Chiariamolo con esempio: se si ha un PIL pari a 100 in termini assoluti e un debito pari a 120 sempre in termini assoluti, il rapporto debito/PIL sarà del 120%. Ora se l'obiettivo è di portarlo al 60% in 20 anni, significa che ogni anno il quoziente dovrà ridursi in proporzione, pertanto al primo anno la riduzione dovrà essere pari in percentuale a: (120-60)/20=3%, cioè dopo il primo anno il rapporto debito/PIL dovrà essere pari al 117% e così via fino al ventesimo anno in cui scenderà al 60%.
E' importante poi notare che il PIL di riferimento è calcolato a prezzi di mercato mentre il valore del debito non è influenzato dall'inflazione, quindi ad esempio è possibile che dopo un anno il PIL cresca a 103, per effetto supponiamo di inflazione (es.2%) e crescita reale (es.1%), mentre il valore del debito rimanga invariato a 120. Se calcoliamo il rapporto debito/PIL otteniamo 120/103=116,5% che è inferiore a 117% e quindi in linea con il tasso di riduzione annuale previsto dal trattato. In un caso come questo non si è operato alcun taglio o introdotto nuove tasse, semmai si è provveduto a contenere l'aumento del debito in termini assoluti, operazione che certamente richiede uno sforzo molto inferiore rispetto all'ipotesi (errata) di aggiustamenti di bilancio pari ad 1/20 del surplus di debito.

Quello che dobbiamo fare per raggiungere questo obiettivo è far ripartire la crescita e fare in modo che essa sia in termini nominali la più alta possibile e comunque tale da richiedere eventualmente solo piccoli aggiustamenti di bilancio.

mercoledì 15 gennaio 2014

Minijob, il contratto tedesco che spaventa gli italiani

A dire la verità inizialmente la mia intenzione era di scrivere un articolo riguardante le riforme Hartz introdotte in Germania tra il 2003 ed il 2005 sotto la cancelleria Schröder. Riforme che hanno avuto effetti decisamente positivi sull'occupazione, ma da qualche tempo su organi di stampa, blog e social network si è parlato spesso di una forma di contratto particolare presente in Germania e chiamata minijob le cui caratteristiche, spesso presentate erroneamente, possono creare una qualche preoccupazione. Inoltre vengono anche imputati (a torto) quale causa da parte di economisti 'poco attenti' di aver contribuito ad una riduzione selvaggia dei salari se non addirittura di un presunto dumping salariale da parte della Germania verso gli altri Paesi della UE. Ma è davvero così?
Iniziamo spiegando cosa sono in realtà i minijob.

I minijob assieme ai midijob (versione complementare dei primi) sono contratti atipici studiati per tipologie di lavoro marginali e occasionali, "geringfügige Beschäftigung" in tedesco. In tedesco inoltre la parola di origine inglese "job" assume già il significato di lavoro secondario e non utilizzata allo stesso modo di "Arbeit" o "Beruf". Difficile infatti che un tedesco usi la parola Job per descrivere la sua attività se si tratta di una occupazione tipica (impiegato, operaio), cosa che potrebbe invece fare un cittadino di madrelingua inglese.

I contratti atipici esistono dal 1977 e nel corso degli anni hanno subito diverse modificazioni fino al 2003 quando con il secondo pacchetto delle riforme Hartz (Hartz II) sono stati definiti i minijobs e i midijobs per renderli più efficaci.
In sostanza i minijob prevedono un compenso fino a 450 € mensili (dal 2013) per un lavoro occasionale e atipico e non prevedono un limite prefissato di orario (in precedenza era stabilito un massimo di 15 ore settimanali).
I midijobs invece prevedono un compenso tra 450,01 e 850,00 €.
Vi sono tre tipologie di minijobs e quindi di contribuzioni in base al settore di attività: commercio (Minijobs im gewerblichen Bereich) (1), presso abitazioni private (Minijobs in Privathaushalten) (2), breve termine (kurzfristige Minijobs) (3).

Per l'anno 2014 i contributi sono i seguenti:
                                                  (1)            (2)         (3)
- Assicurazione sanitaria         13%           5%        - -
- Contributo pensionistico       15%           5%        - -
- Tasse                                      2%           2%      25%
- Assicurazione malattia          0,7%        0,7%     0,7%
- Gravidanza/maternità            1,4%        1,4%     1,4%
- Assicurazione infortuni        contr.ind.   1,6%   contr.ind.
- Contributo vs.insolvenza      0,15%        - -       0,15%

- Contributo a carico del
  dipendente (pensionistico)     3,9%      13,9%      - -

Come si può vedere i contributi a carico del datore di lavoro sono bassi ed è per questo che risultano interessanti. Quello che potrebbe spaventare i lavoratori è la mancanza di un limite per legge alle ore lavorative e di un compenso minimo orario, ma dati statistici dimostrano che questo timore è infondato in quanto grazie anche alla buona offerta di lavoro nessuno è disposto ad accettare un compenso 'da fame' e la maggior parte di chi ha un contratto di questo tipo ottiene un compenso vicino all'importo massimo previsto (400÷450 €) a fronte di un numero di ore lavorative tra le 15 e le 20 settimanali. Ci sono stati casi estremi di proprio e vero sfruttamento ma questi oltre a rappresentare una eccezione sono anche stati condannati da tribunali presso i quali è stata presentata denuncia.

Quale tipo di lavori sono oggetto di contratti minijobs?
Vengono utilizzati maggiormente nel settore dei servizi: negli alberghi (addetti alle pulizie), nelle birrerie, bar, ristoranti. Ma anche ad esempio panifici (per rispondere alle ore di punta), nelle case private (per lavori domestici a domicilio). Insomma sono tutti quei lavori secondari per cui un rapporto di lavoro tipico sarebbe eccessivo per il loro costo.

Chi sono i lavoratori che accettano i minijobs?
Il totale dei minijobber è stato a fine 2013 di 7,4 milioni, per 2/3 sono donne e questo perchè è preferibile per loro avere un lavoro part-time con cui si possa conciliare famiglia e lavoro.
Poi ci sono studenti universitari per pagare gli studi e anche pensionati per integrare il reddito, dato che in Germania la pensione è da sempre calcolata in base al metodo contributivo e spesso è di basso livello tanto che viene talvolta integrata con contributi assistenziali. Poi vi sono immigrati senza un titolo di studio adeguato o una specializzazione oltre al fatto di non conoscere a sufficienza la lingua tedesca che in un primo momento trovano lavoro o presso le agenzie di lavoro interinale o appunto un lavoro saltuario. Ma ci sono anche lavoratori che posseggono un contratto tipico e che per integrare il reddito principale anzichè ricorrere eventualmente agli straordinari (oggetto di tassazione maggiore) preferiscono effettuare qualche ora in qualche locale o comunque un lavoro atipico con un minijob. Nel 2013 il totale di questi ultimi è stato di 2,5 milioni mentre il numero di coloro che possedevano nello stesso periodo solo uno o più contratti minijobs era di 4,9 milioni (fonte Bundesagentur für Arbeit).

Tutto positivo?
Certamente no. Ci sono sicuramente casi di utilizzo disprezzabile più o meno accentuato di questo tipo di contratto ma da qui a farne oggetto generalizzato di sfruttamento verso lavoratori sottopagati ce ne passa. Non dimentichiamo che da noi non ci sono contratti di questo tipo ma è diffuso il fenomento del compenso 'in nero' oppure di contratti a cui però non corrisponde l'effettivo rapporto in essere.

L'accusa (infondata) di alcuni economisti
Secondo alcuni economisti 'distratti' con l'introduzione dei minijobs si è avuto un drastico abbassamento del costo del lavoro tant'è che in Germania c'è oggi la più alta percentuale di lavoratori sottopagati.
Ebbene smentiamo questa accusa specifica rivolta ai contratti minijob andando a vedere la loro dinamica dal 2003 al 2012:



Come si può vedere il numero complessivo è salito da 5,5 milioni a 7,5 milioni, però andando nel dettaglio si osserva che la quota che è maggiormante aumentata è quella di chi ha abbinato un minijob ad un contratto tipico, quota che in numero è passata da 1,158 milioni a 2,658 milioni, mentre il numero di coloro che avevano solo minijobs è passato da 4,375 milioni nel 2003 a 4,854 milioni nel 2012. Insomma mentre il numero dei minijobber con solo quel tipo di contratto è aumentato di 500 mila unità, quello di chi ha affiancato un minijob al suo lavoro tipico è aumentato di 1,5 milioni.

Se poi andiamo a vedere la parte degli ultra sessantacinquenni che hanno un minijob per integrare una pensione bassam scopriamo che poco più di 200 mila, sui 500 mila circa del totale dei soli detentori di questa forma di contratto, sono loro e non si può certo affermare che è a causa degli anziani in pensione con minijob che si abbassa il costo del lavoro delle aziende manifatturiere.





Ma possiamo anche fare una controprova analizzando i dati della disoccupazione nel medesimo periodo. Come si può vedere dal grafico seguente nel 2003 erano 4,4 milioni e nel 2012 sono calati a 2,9 milioni, quindi 1,5 milioni in meno. Se i minijob 'puri' sono aumentati in questi 9 anni di 500 mila unità, di cui 200 mila sono pensionati (e quindi non rientranti tra i lavoratori potenziali), ne risulta che non possiamo imputare nel bene o nel male la riduzione del numero dei disoccupati, se non marginalmente, ai minijob.




In conclusione cari lettori, non vi spaventate quando sentite parlare di minijob. E cari economisti, se cercate la causa del successo tedesco smettetela di girare attorno a questa forma di contratto, perderete solo tempo disinformando chi vi legge.

lunedì 13 gennaio 2014

L'ordoliberalismo, ovvero le radici della moderna politica economica tedesca

Meglio nota come Economia Sociale di Mercato o anche come neoliberalismo tedesco è una dottrina nata negli anni '30 in Germania da un gruppo di economisti sotto il nome di Scuola di Friburgo. Il principale artefice di questa dottrina fu il professor Walter Eucken, il quale fondò la rivista "Ordo" nel 1948, ma ancora più importante fu la pubblicazione del suo lavoro "Grundlagen der Nationalökonomie" (I fondamenti dell’economia), una pietra miliare nella storia del pensiero economico tedesco. Tra gli studiosi che contribuirono all'elaborazione e alla diffusione dell'ordoliberalismo vi furono economisti come Alexander Rüstov e Wilhelm Röpke e giuristi come Hans Grossman-Dörth e Franz Böhm; questi ultimi condirettori insieme ad Eucken della rivista "Ordo". L'ordoliberalismo ebbe una notevole influenza nella Germania del dopoguerra tant'è che l'art.20 della Grundgesetz (la Legge Fondamentale) recita che la Repubblica federale di Germania è uno Stato democratico e sociale.
Fu poi alla base del miracolo economico (Wirtschaftswunder) negli anni della ricostruzione grazie alla figura di Ludwig Erhard che fu ministro dell'Economia dal 1949 al 1963 quando fu nominato cancelliere, incarico che ricoprì fino al 1966.
 
L’ordoliberalismo non vede il mercato esclusivamente come uno strumento utilitaristico orientato all’efficienza o come un fine in sé; lo vede piuttosto come un mezzo per garantire effetti liberali, favorendo la decentralizzazione negli ambiti sociali, politici ed economici della vita.
Secondo questa scuola di pensiero il mercato deve essere regolamentato da leggi che impediscano il formarsi di monopoli o oligopoli ma che comunque consentano il libero cambio senza l'ingerenza dello Stato. Era ed è quindi una terza via tra la politica del laissez-faire ed il totalitarismo. In altre parole, lo Stato deve creare e tenere in efficienza la cornice istituzionale del libero ordine economico, ma senza intervenire nei meccanismi di segnalazione del prezzo e allocazione delle risorse che caratterizzano il processo economico competitivo.
Questa è l’essenza della "Ordnungspolitik" (politica dell'ordine).
 
Eucken fissa otto principi costitutivi e quattro principi regolatori per questa “politica dell’ordine”. La costituzione dell’ordine presuppone l’attuazione del principio-base, ovvero la messa in opera di un sistema efficace di formazione dei prezzi. Tutto ciò che ostacola il funzionamento di questo primo principio costitutivo, come una politica anticiclica, la formazione dei monopoli e i controlli sui cambi, non dovrebbe figurare nella politica economica.
 
Il secondo principio concerne il “primato della politica monetaria” come mezzo per salvaguardare la stabilità di valore del denaro. L’inflazione e la deflazione “aperte” generano disallineamenti tra le relazioni di prezzo di beni diversi e distorcono i calcoli di costo dei singoli operatori. L’inflazione “repressa”, ossia il blocco dei prezzi e l’introduzione del razionamento dopo l’espansione forzata della massa monetaria, secondo lo schema perverso adottato da Hitler nel 1936, distrugge il meccanismo di formazione del prezzo. Puntando prioritariamente alla stabilità dei prezzi, Eucken propugna un meccanismo automatico di stabilizzazione, tramite uno standard fisso legato a un bene di riferimento. Nel contempo è molto critico sugli accordi di Bretton Woods, con il loro compromesso tra diversi ordini monetari nazionali ma senza l’automaticità normativa e la stabilità dei prezzi e delle valute rispetto a uno standard fisso, come la parità con l’oro che vigeva nel XIX secolo.
Il primato della stabilità dei prezzi nello schema di Eucken ha avuto un grosso peso nella politica monetaria postbellica della Germania Occidentale, gestita da una Bundesbank indipendente. Poiché i Paesi della comunità internazionale non intendevano sottomettersi alla disciplina di uno standard collettivo legato a un bene di riferimento, le speranze che riponeva Eucken in uno stabilizzatore automatico andarono ovviamente in fumo.


Il terzo principio è quello dei mercati aperti, che esclude l’intervento discriminatorio dello Stato e garantisce la libertà di commercio. La politica economica dovrebbe proibire la chiusura dei mercati da parte di soggetti privati: la cosiddetta "Behinderungswettbewerb". Eucken afferma che la normativa sui brevetti ha favorito il processo di concentrazione e la formazione dei monopoli, tagliando fuori la concorrenza.
Preferirebbe sostituire i diritti esclusivi di brevettazione con un sistema di licenze obbligatorie che consentisse ai licenziatari di sfruttare economicamente le innovazioni, lasciando così aperti i mercati dal lato dell’offerta.
 
Il quarto principio costitutivo è quello della proprietà privata, una precondizione indispensabile per tutelare la sfera privata degli individui, in cui possono agire liberamente senza coercizioni da parte altrui.
 
Poi viene il principio della libertà di contrattazione, che non si dovrebbe estendere tuttavia alla libertà di impedire agli altri di esercitare la propria libertà di contrattazione.
 
Segue il principio della responsabilità. Anche la limitazione della responsabilità, specie attraverso le società a responsabilità limitata e le società quotate in Borsa, ha contribuito al processo di concentrazione. Per Eucken, il consiglio di amministrazione o l’azionista di maggioranza dovrebbero rispondere in toto delle obbligazioni sociali per coniugare nel modo più efficace rischio e responsabilità.
 
Il penultimo principio costitutivo è la “costanza della politica economica”, onde evitare esperimenti che tendano ad alterare abitualmente i dati economici e a creare un clima di insicurezza che potrebbe indurre gli operatori privati a non assumersi rischi e non effettuare investimenti.

L’ultimo principio concerne l’interdipendenza di tutti gli altri principi costitutivi, che si dovrebbero applicare in ugual misura.

I principi regolatori che assicurano il buon funzionamento dell’ordine economico dovrebbero integrare i principi costitutivi testé elencati. Il più importante è la politica della concorrenza. Occorre sottolineare a questo punto che il modello economico di Eucken si impernia sulla concorrenza “perfetta” o assoluta – quella che chiama  "vollständige Konkurrenz" – in cui l’offerta e la domanda si incontrano a prezzi di equilibrio che eguagliano a loro volta il costo marginale. Qualunque deviazione dal predetto equilibrio, che si determina quando il prezzo è superiore al costo marginale, rappresenta una situazione di monopolio in cui il mercato è controllato da uno o più attori. L’azione del governo dovrebbe correggere lo squilibrio e riportare il mercato ai prezzi di equilibrio.

Quasi tutte le forme di monopolio verrebbero ostacolate da un’applicazione efficace dei principi costitutivi della politica economica. Ma per quei monopoli che in un modo o nell’altro si infilano tra le maglie della rete e rimangono ancora in vita, entra in gioco la politica antitrust. Un’autorità antitrust indipendente dovrebbe spezzare ove possibile i monopoli e vigilare sui monopoli naturali (come le utility) che continuano a sopravvivere. Oltre a vietare pratiche ostative della concorrenza come il boicottaggio, la discriminazione sul prezzo e i cartelli, la legge dovrebbe anche consentire all’autorità antitrust di fissare prezzi per i monopoli residui e farli agire come se operassero in regime di piena concorrenza.

Va però detto che questo è probabilmente l’aspetto più irrealistico e fallace dell’opera di Eucken e della prima scuola di Friburgo. Almeno sotto questo aspetto, l’una e l’altra si affidano a modelli neoclassici iper-astratti, anziché al concetto più realistico e immediatamente applicabile dell’ordine di mercato, immanente
classica.

Come affermava Hayek, il presupposto della concorrenza perfetta –quindi che tutte le informazioni siano disponibili, i costi siano immediatamente calcolabili e i risultati della concorrenza si possano prevedere adeguatamente – sono irrealistici per la concorrenza che sperimentiamo nella vita reale. È dunque illusorio ipotizzare che i monopolisti agiscano come se si trovassero a operare in un regime di concorrenza perfetta. Il monopolio è destinato ad avere una presenza rilevante nel mondo reale, specie nelle situazioni di breve periodo.
 
I sostenitori della "Soziale Marktwirtschaft" (Economia sociale di mercato) tedesca impararono presto l'amara lezione impartita dalla veloce salita al potere di Hitler e fecero propri un principio fondamentale dell'allora dottrina sociale della Chiesa, più precisamente la nozione di giustizia sociale: prevenire il formarsi di monopoli e garantire l'esigenza di un ampio numero di aziende di medie dimensioni. Ben prima che la seconda guerra mondiale finisse, un gruppo di economisti, giuristi, sociologi e filosofi tedeschi cominciarono a pensare concretamente ad un possibile novus ordo; un ordine che avrebbe dovuto rimpiazzare il nazismo. Compresero con lucidità teorica che per ricostruire una società umana avrebbero dovuto pensare alla ragioni di un nuovo ordine politico, un nuovo ordine economico e un nuovo ordine morale-culturale.
 
(Testo in parte tratto da una pubblicazione del prof.Razeen Sally, presidente e fondatore della ECIPE - European Centre for International Political Economy)

domenica 12 gennaio 2014

Euro - un parto ancora semi sconosciuto

Ancora oggi capita spesso di leggere, ascoltare o discutere personalmente con chi afferma che uno dei problemi dell'ingresso nell'euro sia stato il cattivo rapporto di cambio che, ricordiamolo, è stato di 1936,27 lire per 1 euro. Addirittura si accusa l'ex presidente del Consiglio Romano Prodi di averci 'svenduto' fissando per l'appunto un rapporto per noi assolutamente sfavorevole, mentre dall'altra parte la conversione abbia invece favorito i Paesi del nord Europa, Germania in primis.
Ripercorriamo quindi gli eventi che hanno portato l'Italia e altri 11 nazioni ad adottare la moneta unica europea.

Partiamo dal 11 Dicembre 1991, giorno in cui a Maastricht venne firmato l'accordo che impegnava 12 Paesi ad adottare un'unica moneta chiamata provvisoriamente ECU. Tra questi c'era la Gran Bretagna che poi si chiamerà fuori.
L'ECU fu quindi una moneta virtuale, un paniere delle 12 valute nazionali degli Stati aderenti.
A febbraio del 1992 venne firmato l'accordo di Maastricht che definì tra l'altro anche i parametri per l'ingresso e le regole di permanenza nell'eurozona inclusi i famosi parametri macroeconomici.

Il 2 Giugno del 1992 i cittadini della Danimarca votarono il referendum sull'integrazione europea e seppur di poco vinsero i contrari. Questo portò un clima di sfiducia da parte dei mercati che iniziarono a scommettere su un suo fallimento e a concentrare la loro attenzione su Italia e Gran Bretagna, considerati gli anelli deboli della annunciata UE.
A seguito di tensioni sui mercati finanziari vi furono incontri tra i Paesi aderenti al fine di trovare delle soluzioni tra cui un eventuale riallineamento delle parità tra le diverse valute, ma questi non produssero nulla di concreto non facendo altro che aumentare la speculazione.
Il 16 Settembre dello stesso anno George Soros scommettendo contro la sterlina, forte del fatto che la Bank of England si rifiutava di aumentare i tassi di interesse, vendette allo scoperto 10 miliardi di dollari in sterline e questo provocò una tempesta che constrinse le autorità monetarie inglesi ad annunciare l'uscita della sterlina dallo SME.
Subito dopo seguì la stessa sorte la lira, mentre la peseta spagnola svalutò del 5% e così fu per l'escudo portoghese e la sterlina irlandese.

Queste premesse avrebbero dovuto suggerire i governi di concordare una maggiore integrazione politica, di definire insomma delle politiche comuni e per alcuni di riformare la propria struttura per aumentare la propria competitività.
Ma questo in gran parte non avvenne e ciascuno proseguì per la propria strada.

Nel 1996 la lira rientrò nello SME ed è opportuno rievocare i fatti perchè è qui che si concentra una delle accuse più infondate rivolte in particolare all'ex presidente del Consiglio Prodi.
La delegazione che andò a definire il rientro era rappresentata dal ministro Carlo Azeglio Ciampi che si trovò ad affrontare una trattativa alquanto difficile perchè in particolare i tedeschi spingevano per un cambio a 925 lire per 1 marco mentre la nostra delegazione desiderava un cambio per noi più conveniente e vicino alle 1.000 lire, in linea con le quotazioni di quei giorni. Da annotare che Confindustria auspicava addirittura un cambio poco probabile sopra le 1.000 lire, sulle 1.030÷1.040 lire.


Dopo estenuanti trattative ed un ottimo discorso tenuto da Carlo Azeglio Ciampi venne trovato l'accordo per 990 lire contro marco.
Fu quindi un successo della nostra delegazione che fu accolta con applausi al rientro, ma come spesso capita trascorso un po' di tempo i ricordi si fanno annebbiati e i fatti vengono rievocati in maniera alquanto diversa.

Veniamo ora al rapporto lira/euro. Secondo gli accordi i rapporti di cambio tra le singole valute e quella unica sarebbero stati definiti il 31.12.1998 in base ai tassi di cambio di mercato a quella data.
Nella figura sotto sono riportati i rapporti lira/ECU:

Come si può osservare nel 1998 il cambio è stato intorno alle 1940 lire per 1 ECU e questo è stato anche il giorno in cui si è provveduto a definire il rapporto ufficiale, corretto per la decisione del governo inglese di non aderire ed escludendo quindi la sterlina dal paniere. Insomma il cambio di 1936,27 non fu deciso a tavolino e da Romano Prodi ma fu un valore di mercato.
Il primo Gennaio del 1999 prese vita la nuova valuta chiamata euro.

I rapporti di cambio ad oggi:



I Re Magi


Con l'approssimarsi delle prossime elezioni europee si fanno sempre più numerose le voci di coloro che vorrebbero l'Italia fuori dall'euro ed eventualmente anche dalla UE, affermando che l'ingresso sia stata la causa principale della crisi che ci caratterizza oramai da qualche anno.
Dall'altra parte c'è invece chi, come il sottoscritto, sostiene che il nostro sistema si sia deteriorato già da prima dell'ingresso nella moneta unica ed individua il motivo in altri fattori in gran parte endogeni e che l'ingresso nell'euro non abbia fatto altro che metterli in evidenza in quanto prima, con le svalutazioni della nostra valuta rispetto alle altre, le nostre aziende potevano prendere una boccata di ossigeno e compensare una già presente inadeguadezza del sistema Italia rispetto ai nostri principali competitors.

Tra coloro che maggiormente sostengono in questo periodo la tesi dell'uscita dall'eurozona quale intervento e soluzione principale per permettere al Paese di tornare competitivo sono il prof.Alberto Bagnai, il prof.Claudio Borghi Aquilini ed il prof.Antonio Maria Rinaldi. I tre sono spesso invitati a trasmissioni televisive, dibattiti pubblici e anche istituzionali in quanto sono stati a Bruxelles, ospiti di un incontro organizzato da un gruppo parlamentare europeo, e a Roma ad una audizione parlamentare, oltre ad esporre le loro argomentazioni attraverso propri blog e commentarli via social network.
Con costoro ho provato ad interagire esponendo alcuni commenti in cui obiettavo alcune loro affermazioni, ma tutti e tre nel giro di poco tempo, anzi di pochi tweet, hanno preferito escludermi una volta accertato che non appartenevo alla loro 'linea di pensiero'. Evidentemente pur conoscendo bene la lingua inglese a loro sfugge il significato di "social networking" confondendolo, o preferendogli, quello di "reserved networking". Per quanto mi riguarda me ne sono fatto una ragione ma questo non mi ferma certamente dal commentare le loro tesi, così come quelle di altri, che spesso mi lasciano a dir poco perplesso per l'inconsistenza delle loro argomentazioni in favore di un addio all'eurozona.
E' proprio per la superficialità o meglio per la semplicità con cui espongono tale uscita quale strumento per ritrovare la prosperità perduta ed il fatto che le loro voci si siano innalzate all'approssimarsi dello scorso Natale che mi porta a definirli I tre Re Magi dell'economia italiana portando, a differenza di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, solamente un unico omaggio: la cara e vecchia Lira. E' vero che tutti e tre aggiungono che sia necessario procedere comunque a riforme del sistema per uscire dalla crisi, però sostengono che abbandonare l'euro per tornare ad una valuta nazionale e più precisamente ad una sovranità monetaria sia il passo più importante e che da solo farebbe più di metà del lavoro.
Inutile dire che questa scelta per me è assolutamente errata e che un ritorno al passato non porterebbe alcun beneficio, anzi sarebbe per noi una misura che ci porterebbe a serie conseguenze e che i tre 'Re Magi' sottovalutano. Cercherò naturalmente di argomentare le mie posizioni esponendo il mio parere e invitando chi mi legge a non credermi sulla parola, ma di documentarsi onde verificare di persona se quanto da me scritto corriponderà meglio della controparte alla realtà o se riterrà più convincenti le mie osservazioni.
Invito anche chi legge, oltre naturalmente ai tre professori qui menzionati, a replicare se lo riterranno opportuno, ad una condizione però: oltre agli ovvi inviti ad una esposizione non offensiva, la condizione che pongo è quella di argomentare con intelletto proprio il commento, non accetterò semplici link a questo o a quell'articolo, a dati di questo o a quell'altro ente di statistica, che potranno essere eventualmente citati quale fonte delle informazioni che si desidera illustrare. Insomma il semplice "leggiti questo articolo" o "vatti a vedere i dati del xxx" non li prenderò nemmeno in considerazione. Qui desidero confrontarmi con soggetti pensanti e non con adepti di una setta politico-economica.