giovedì 19 maggio 2016

"Made in Germany" - Perché la Germania esporta...molto!

La Germania è da molti anni uno dei maggiori esportatori al mondo. Si può dire che lo è da sempre o quantomeno da inizio secolo scorso. Dai primi anni del 1900 fino allo scoppio della I Guerra Mondiale la Germania aveva una quota del 11% circa sul totale del commercio mondiale e del 20% per i prodotti manifatturieri (fonte United Nations Statistics Division - Divisione Statistica delle Nazioni Unite). I maggiori esportatori erano all'epoca Regno Unito con rispettivamente (e mediamente) il 13% e 28%; gli Stati Uniti, rispettivamente con il 13% e 11% circa (una quota quindi inferiore alla Germania per i prodotti manifatturieri) e la Francia con il 7% e 11%. Avevano una quota di tutto rispetto i Paesi Bassi (considerate le dimensioni del Paese) con il 6% e il 5% rispettivamente, ma mancava allora rispetto ad oggi il Giappone nel ruolo di protagonista avendo meno del 2% sia per il totale che per i prodotti manifatturieri. L'Italia anch'essa non aveva una quota rilevante: mediamente il 2,5% del totale e poco meno del 3% per i prodotti manifatturieri.
Da notare infine la quota dell'Austria, all'epoca Impero Austro-Ungarico, con il 3,5% in entrambe le categorie.

Tra le due Guerre Mondiali la Germania si risollevò dall'esito del precedente conflitto, con le conseguenti pesanti sanzioni che le furono imposte, ed alla vigilia di quello successivo deteneva il 9% del totale del commercio mondiale ed il 18% sui prodotti manifatturieri. L'Italia deteneva praticamente le stesse quote del periodo precedente. I leader erano sempre Stati Uniti (rispettivamente 13% e 15%) e Regno Unito (11% e 18%).

Dopo il disastroso secondo conflitto mondiale la Germania ripartì letteralmente da zero, ma già negli anni '60 l'export tedesco valeva tre volte quello italiano e tale proporzione è rimasta sino ad oggi. Nel 2015 infatti la Germania ha raggiunto 1.196 miliardi di euro di beni e servizi esportati contro i circa 414 dell'Italia. Ad oggi i maggiori esportatori, stando ai dati del 2014 del W.T.O., sono: Cina (12,3%), Stati Uniti (8,5%), Germania (7,9%) e Giappone (3,6%). L'Italia è ottava con una quota del 2,8% ma dai primi dati disponibili nel 2015 sarebbe stata superata sia dal Regno Unito che da Hong Kong.

Questo per fornire un quadro generale nonché una panoramica storica nel quale collocare le performances dell'economia tedesca nel commercio internazionale. Ma ad oggi cosa esporta maggiormente la Germania? I settori principali sono:


  • Veicoli...........................................226 mld
  • Macchinari ed attrezzature n.d.c.....170 mld
  • Prodotti chimici..............................108 mld
  • Computer, beni elettronici ed ottici..  97 mld
  • Apparecchiature elettriche............... 72 mld
  • Prodotti farmaceutici....................... 70 mld
L'export rappresenta una quota elevata del Prodotto Interno Lordo, pari al 39,5% (1.196 mld su 3.026), e le aree di destinazione per gli anni 2005, 2008 e 2014 sono (fonte Ufficio Federale di Statistica di Wiesbaden):

                                        2014                2008                2005
  • Eurozona................ 37%                41%                 41%
  • UE (non euro).........  20%                21%                 21%
  • Europa (non UE)..... 12%                 12%                 12%
  • Asia........................16%                 13%                 14%
  • America..................12%                 10%                   9%
  • Africa......................  2%                   2%                   2%
  • Australia/Oceania....  1%                    1%                   1%
Da questi dati si evince come l'incremento di questo ultimo decennio riguarda i Paesi non facenti parte della zona euro, smentendo così in parte la teoria che vuole l'unione monetaria quale fattore che avrebbe favorito il notevole aumento delle esportazioni tedesche nel suo complesso, passate dai 510 mld di euro del 1999 (anno in cui sono state fissate le parità tra le prime 11 valute che sono state sostituite dall'euro nel 2002) ai 1.196 mld del 2015.
Nello stesso periodo le esportazioni italiane sono passate da 221 mld del 1999 ai 414 mld del 2015.

Insomma la Germania è da sempre protagonista del commercio mondiale, sia prima con una sua valuta che poi con quella dell'Unione Europea, i suoi prodotti trovano successo dappertutto infatti l'incremento interessa 'a ventaglio' tutti i continenti, in particolare di recente le nazioni emergenti (esempio i Paesi BRICS).
Un dato che dimostra come i prodotti tedeschi siano apprezzati per la loro qualità è quello riferito all'andamento delle vendite in Cina, dove l'export della Germania è passato dai 15 mld del 2002 ai 71 mld dell'anno scorso. L'Italia nel 2015 ha esportato circa 11 mld in Cina.

Una parte della competitività deriva anche dal fatto che i prezzi alla produzione siano cresciuti recentemente in Germania meno che nei maggiori Paesi suoi concorrenti come si può osservare da questo grafico che prende in considerazione una selezione di questi:


Questo basso incremento è stato in parte legato ad una politica di moderazione salariale attuata nei primi anni 2000 a seguito di accordi tra le parti sociali con lo scopo di frenare la delocalizzazione delle attività di produzione all'estero che molte imprese tedesche avevano avviato per ridurre i costi, soprattutto quello del lavoro che in Germania è sempre stato tra i più alti. Questa moderazione salariale ha legato gli aumenti a quello dei prezzi e non più alla produttività che incrementando più delle retribuzioni ha permesso al costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) di scendere sensibilmente. In questo grafico è riportato l'andamento dell'indice delle retribuzioni in termini reali, ovvero al netto dell'inflazione:


Va comunque precisato che i bassi aumenti salariali erano legati anche, se non soprattutto, all'elevato tasso di disoccupazione presente in quel periodo:


Come si osserva confrontando i due grafici, durante il periodo di aumento o comunque di alto livello di disoccupazione l'indice delle retribuzioni rimane costante (aumento delle retribuzioni in termini nominali alla pari di quello generale dei prezzi) oppure scende e viceversa negli ultimi anni in cui la disoccupazione è progressivamente calata.

E' però un errore pensare che la competitività dei prodotti made in Germany sia legata al basso incremento delle retribuzioni, considerando anche che i salari nel manifatturiero hanno un 'peso' del 15% in media sul costo totale di prodotto, quindi un aumento (o una diminuzione) del 10% di queste comporta un aumento del costo del 1,5% appena (o una diminuzione di pari valore) del costo complessivo di prodotto. La loro competitività va ricercata in altri fattori quali la qualità, il contenuto tecnologico, l'organizzazione commerciale aziendale e per quanto riguarda i costi su fattori che permettono alle imprese di avere un elevato valore aggiunto, ad esempio la dimensione delle imprese, l'affidamento alla tecnologia incluse quelle informatiche e includerei anche l'adozione di economie di scopo (in tedesco Verbundeffekte ed in inglese economie of scope) da parte di molte imprese. Sul tema è possibile leggere (in tedesco) una breve analisi effettuata dall'Istituto di Economia Tedesca di Colonia dal titolo Industrielle Arbeitskosten im internationalen Vergleich dal quale è tratto questo grafico che mostra come in Germania le imprese che hanno adottato efficacemente i principi dell'economia di scopo abbiano un minore costo del lavoro:


Vediamo ora di fare qualche esempio che analizzi le performance di un paio di categorie merceologiche.
Uno dei settori di punta della produzione tedesca nonché delle loro esportazioni (108 mld di euro nel 2015) è quello della chimica, la cui categoria è contraddistinta statisticamente con la sigla GP09-20. Come si può osservare da questa tabella pubblicata da Eurostat a proposito di questa categoria, la Germania è il principale produttore, seguita da Francia e Italia:


I dati al momento si riferiscono al 2010 (tranne che per la Turchia che risalgono al 2009) ma si può osservare comunque un aspetto importante, ovvero il valore aggiunto (value added) conseguito quell'anno dall'intera produzione tedesca è stato di 36,65 miliardi di euro contro i 9,19 circa dell'Italia. Se rapportiamo questo valore al numero di occupati indicato nella seconda colonna (rispettivamente 324.400 e 113.500) otteniamo che il valore aggiunto per occupato è per la Germania di quasi 113.000 euro e per l'Italia di quasi 81.000 euro, il 40% in più a favore dei tedeschi!
Anche la Francia non fa molto meglio, con un valore aggiunto di 15,2 miliardi di euro e 157.500 occupati ne deriva un valore aggiunto per occupato di 96.500 euro, praticamente si colloca a metà tra Germania e Italia.
I Paesi Bassi raggiungono risultati elevati con 182 mila euro circa di valore aggiunto per occupato.
Tutto dipende da fattori diversi tra cui la tipologia di produzione, per gli olandesi molta parte riguarda la raffinazione di prodotti petroliferi, processo che è contraddistinto da una elevata produttività.

Possiamo fare una analisi del genere prendendo un altro settore in cui i tedeschi sono forti, quello dei macchinari ed attrezzature n.c.a. (non classificati altrove) in cui l'export nel 2015 è stato di quasi 170 mld di euro:


Il valore aggiunto per occupato della Germania in questo settore, del quale è leader, è stato nel 2010 di 67.800 euro, poco superiore all'Italia (10%) che occupa il secondo posto per fatturato con poco più di 61.000 di valore aggiunto per occupato. Da notare comunque il fatturato della Germania, di poco più del doppio di quello italiano.

(*)Va ricordato che il valore aggiunto comprende le retribuzioni quindi non viene influenzato dal livello delle stesse. Ad ogni modo occorre tenere presente che ad un maggiore valore aggiunto possono corrispondere retribuzioni anch'esse superiori.

In pratica queste analisi suggeriscono che per fattori diversi la competitività della produzione tedesca è molto alta e questo consente anche salari e costo del lavoro altrettanto alti. Nella seguente tabella sono riportati i costi orari nei vari settori, sia nella produzione di beni che in quello dei servizi, per l'anno 2015:


Valori che se confrontati con quelli degli altri Paesi risultano tra i più elevati:


Insomma produrre in Germania comporta un onere per la manodopera maggiore rispetto alla maggior parte dei Paesi esportatori, sicuramente più che in Cina e negli Stati Uniti, che rappresentano i maggiori concorrenti del made in Germany, e poi anche più che in Italia nonostante l'aumento dei salari in Germania sia stato inferiore in questi ultimi anni come può essere verificato prendendo i dati Istat.

Un altro fattore che contribuisce alla competitività del sistema economico di un Paese è sicuramente il livello di pressione fiscale sugli utili, il cosiddetto Total Tax Rate. La Banca Mondiale (World Bank) ha calcolato e riporta i seguenti valori per il periodo 2011-2014 di questi Paesi (valori in percentuale sui profitti):

  • Germania...........48,8%
  • Italia..................64,8%
  • Francia..............62,7%
  • Regno Unito......32,0%
  • Stati Uniti..........43,9%
  • Giappone..........51,3%
  • Spagna..............50,0%
E' evidente come noi italiani siamo penalizzati (e molto!) da questo fattore.

Si potrebbe procedere ancora analizzando ulteriormente i vari settori ma credo che si possa giungere già ad una conclusione in base alla quale si può affermare che la Germania esporta molto in quanto ha da sempre una elevata vocazione e basa buona parte della produzione su prodotti a maggiore valore aggiunto e dall'alto contenuto tecnologico grazie alla ricerca testimoniata dal numero di brevetti registrati. Nella seguente tabella è riportata la classifica dei 10 Paesi che maggiormente ha fatto uso di applicazioni che derivano dai brevetti registrati:


ed in questa tabella è riportata la selezione dei Paesi che hanno registrato il maggior numero di brevetti negli Stati Uniti nel corso degli anni:


Significativa la posizione della Germania e, ahimè, dell'Italia (alquanto inferiore rispetto ai primi).
A tutto questo vanno aggiunti altri fattori quali la capacità di partecipare e di organizzare fiere di primario livello mondiale e quelle peculiarità che contraddistinguono la singola azienda quale ad esempio l'attenzione al cliente. Ritenere che la competitività della Germania derivi dal fatto che per qualche anno i salari sono cresciuti meno che altrove, come sta facendo recentemente qualche economista, è riduttivo e superficiale.

martedì 3 maggio 2016

L'illusione della svalutazione monetaria

Supponete di avere una azienda con 50 dipendenti. Ipotizzate che il costo del lavoro annuo medio di ciascuno di essi sia di 40 mila euro (un po' basso ma per questo esempio può andare bene) quindi annualmente la vostra azienda sosterrà un costo complessivo di 2 milioni di euro per il fattore lavoro.

Nel settore manifatturiero l'incidenza del costo del lavoro sul fatturato varia da settore a settore e da azienda a azienda, ma mediamente questo oscilla tra il 12 ed il 18%, per il nostro esempio prendiamo il dato medio secondo le statistiche, ovvero il 15%. Questo significa che nel caso della azienda in questione il fatturato annuo per dipendente sarà di circa 267 mila euro e quello complessivo di poco più di 13 milioni di euro.

Si ipotizzi ora che io vi venga a trovare e vi suggerisca di delocalizzare la vostra attività in un Paese dove:

costo del lavoro + tassazione + livello dei prezzi in generale

siano tutti favorevoli. Un Paese a caso:


ad esempio in Polonia, o ancora meglio in Romania o anche in Bulgaria dove il costo medio orario del lavoro è rispettivamente di 5 e 4 euro (8,60 in Polonia) contro i 28 in Italia (fonte Eurostat).
Se sceglieste la Bulgaria il costo annuo per il personale passerebbe dagli attuali 2 milioni a circa 286 mila euro con un risparmio quindi di poco più di 1,7 milioni di euro!
Con questo importo risparmiato è possibile poi pagarsi il capannone (sia esso da costruire o già pronto da acquistare) considerando che il livello dei prezzi è proporzionalmente inferiore, magari non 1/7 come il costo del lavoro ma comunque non molto diverso. Di conseguenza se in Italia la realizzazione di un fabbricato costerebbe 1 milione, in Bulgaria potreste cavarvela con 150 mila o 200 mila euro. E ogni anno successivo conseguireste maggiori profitti per 1,7 milioni di euro grazie al risparmio sul costo del lavoro, pari al 13% del fatturato.

Se poi aggiungiamo che la tassazione sugli utili in Bulgaria è decisamente inferiore, credo che la cosa si faccia davvero interessante (tratto da una recente pubblicazione Eurostat):


Insomma, risparmiereste 1,7 milioni di euro all'anno (13% del fatturato), paghereste complessivamente molte meno tasse e ogni spesa effettuata in quel Paese (vedi fabbricato) costerebbe molto meno che qui in Italia. Siete convinti?

Probabilmente chi avrà letto qualche libro (o blog) di economisti che propongono soluzioni avventate come quella "dell'uscita dall'euro e conseguente svalutazione" vi lascerà perplessi sull'accettare la mia proposta. In tal caso queste che seguono sarebbero le considerazioni che vi formulerei.

Ritornare ad una valuta nazionale che subisca un deprezzamento iniziale (o chiamiamola anche svalutazione) consistente, diciamo un 30% rispetto a quelle di riferimento (in primis dollaro USA), vi consentirebbe di aumentare la competitività sui mercati internazionali. Un generico prodotto che vendete a 100 euro, all'indomani di questa svalutazione per un cliente straniero è come se costasse 70 euro (o neo-lire supponendo che il cambio sia alla pari tra la nuova lira e l'euro) o comunque il 30% in meno rispetto a prima. Sicuramente avrete un incremento nelle vendite all'estero, magari non del 30% ma comunque si può ipotizzare un incremento apprezzabile.
Ma allora perché le imprese italiane guardano con scarso interesse a questa soluzione?
Intanto per quanto esposto prima è facile intuire quanto sia conveniente delocalizzare rispetto a questa soluzione che consentirebbe sì, di divenire più competitivi sul mercato internazionale aumentando le vendite, ma pur sempre in una realtà dove i profitti sarebbero tassati sempre in egual misura. Si è visto nell'esempio iniziale che solo grazie al differenziale sul costo del lavoro i profitti potrebbero aumentare del 13%, cosa che non sarebbe raggiungibile nella seconda situazione: aumenterebbe il fatturato (estero!) ma i margini crescerebbero di poco.

In secondo luogo c'è da considerare il fatto che ad ogni impresa interessa relativamente poco il fatturato in una zona specifica (in questo caso all'estero), specialmente se la quota di questo sul totale è meno della metà.
Per un imprenditore è determinante stabilire le ripercussioni sull'intero mercato di vendita (nazionale ed estero)!
Chi vi ha mostrato centinaia di volte i grafici del saldo commerciale italiano a seguito dell'ultima svalutazione della lira nel 1992, non vi ha però mostrato quello sull'andamento dell'occupazione in Italia nel triennio successivo, dove si sono persi circa 850 mila posti di lavoro sebbene le vendite all'estero si siano incrementate.

Ma un altro aspetto che lascia perplessi gli imprenditori sulla soluzione uscire dall'euro è che i vantaggi di questa sarebbero temporanei, dopo qualche anno verrebbero meno.
Io ho cercato di rappresentare la dinamica degli eventi post-svalutazione con questo esempio che ho chiamato "La settimana della svalutazione". Supponete di essere l'amministratore delegato di una azienda:

Domenica: Governo e Banca Centrale annunciano l'uscita dall'euro.

Lunedì: la neo-lira viene scambiata subito al 30% meno della parità nominale iniziale con le altre maggiori valute ed il vostro direttore commerciale vi comunica esultando che le vendite sul mercato estero sono cresciute sensibilmente.

Martedì: il vostro buyer vi comunica che i vostri fornitori di beni e servizi hanno aumentato i listini. Questo perché i prodotti di importazione sono aumentati così come il costo dell'energia.

Mercoledì: il vostro direttore finanziario vi comunica che le banche hanno aumentato i tassi di interesse debitore con conseguente aggravio degli oneri finanziari.

Giovedì: i sindacati chiedono un aumento delle retribuzioni per compensare quello dei prezzi in generale causato dalla svalutazione, aumento (si legga inflazione) che non sarà del 30% ma in ogni caso tale da far perdere sensibilmente il potere di acquisto.

Venerdì: vostro malgrado vi troverete costretti ad aumentare i listini di vendita (nazionale ed estero) dei vostri prodotti iniziando così ad annullare parte del vantaggio competitivo conseguito, processo questo che proseguirà per qualche tempo fino a ritrovarvi nella medesima situazione di partenza.

Questo molto schematicamente e senza considerare quale effetto avrà la svalutazione sulle vendite interne, che solitamente portano ad un crollo e quindi complessivamente a conseguenze più negative che positive essendo il mercato interno quello prevalente. Come avvenuto nel 1992.