mercoledì 22 marzo 2017

La Nuova Zelanda del 'turista'...

Ogni tanto leggo i commenti dei lettori agli articoli di economisti critici verso l'euro e UE, come ad esempio il Prof.Alberto Bagnai, per capire da una parte la loro competenza in materie economiche e dall'altra le ragioni di una posizione diversa dalla mia. Mi capita così di leggere a volte dei commenti alquanto esilaranti quanto questo a seguito dell'articolo di Bagnai del 21 Marzo:


Lungi da me canzonare il Sig.Marco Alberti per quanto ha scritto, però ritengo utile analizzarne i contenuti che sollevano in me alcune obiezioni.

Il Sig.Alberti afferma inizialmente che è tornato dalla Nuova Zelanda in Italia dopo aver trascorso una lunga permanenza, quindi ha avuto modo di osservare la realtà locale, sia a livello sociale e demografico che economico.
La Nuova Zelanda ha una superficie territoriale poco inferiore (12% circa) all'Italia, come scrive il Sig.Alberti, però quando fa seguito sottolineando che attua un controllo preciso dei confini, a me sinceramente è venuto da pensare: "Bella forza!" dato che geograficamente la nazione più prossima (l'Australia) dista alcune migliaia di chilometri, anzi più precisamente miglia marine:


E' insomma una situazione un po' diversa da quella nostra, primo per la distanza dalla terraferma prossima e secondo per le condizioni economiche e/o di sicurezza (v.guerre) dei cittadini che abitano per l'appunto nelle rispettive terre più vicine.
Egli poi cita correttamente il numero di abitanti: 4,6 milioni. E' anche qui grossolano paragonare la complessità di governare 4,6 milioni di cittadini e 60!

Passando ora ai dati economici che lui cita, la crescita del PIL della Nuova Zelanda è indubbiamente apprezzabile sebbene inferiore a quanto il Sig.Alberti scrive (probabilmente non possiede i dati aggiornati all'ultimo trimestre 2016) in quanto l'ultimo dato vede un +2,7% (e inferiore alle attese) contro il precedente (III trimestre 2016) +3,3%.

La disoccupazione è un punto superiore a quello che egli scrive: 5,2%. Sicuramente un dato comunque invidiabile!

Poi conclude con questa affermazione:"...ricchezza diffusa e percepibile, sistema Paese ai primi posti del Fondo Monetario e della Banca Mondiale."
Qui però mi vedo costretto più che a sollevare delle obiezioni, a fare delle precisazioni. Io non so dove egli abbia tratto dei dati che lo portino a credere quanto ha scritto, perché se andiamo a leggere i dati sulla ricchezza (PIL) pro capite a parità di potere di acquisto della Nuova Zelanda dalla pagina Wikipedia, che raccoglie le rilevazioni statistiche FMI, Banca Mondiale e CIA (si, proprio l'intelligence USA), vediamo che la posizione in classifica non è poi tanto distante dall'Italia. Non quanto la distanza geografica!
Se guardiamo poi alla distribuzione del reddito prodotto riferendoci al generico ma comunque indicativo indice Gini, si può osservare come questa, da dati OCSE del 2012, sia pressoché simile tra loro e noi:


Avranno anche una cosiddetta moneta sovrana (?) però al Sig.Alberti è forse sfuggito il fatto che il rapporto Debito/PIL della Nuova Zelanda sia stato nel 2016 del 24,6%, addirittura in calo rispetto all'anno precedente che era del 25,1%.
Il deficit del governo, pardon il surplus, è stato dello 0,7% l'anno scorso e dello 0,2% (sempre surplus) nel 2015. Dati un po' diversi da quelli nostri e soprattutto ben diversi da quelli invocati da coloro che rimproverano alla UE di perseguire una politica di eccessiva austerità!

Non lasciamoci quindi prendere dalla foga di vedere l'erba del vicino che spesso sembra essere più verde della nostra, cerchiamo di osservare la realtà con maggiore attenzione.

martedì 21 marzo 2017

Le dimensioni contano...in economia

Già durante il periodo dei miei studi universitari (fine anni '80), contrariamente a quanto si andava affermando per la maggiore, io ero perplesso se non proprio scettico sul cosiddetto "modello Nord-Est", ovvero quella particolare struttura di buona parte della nostra economia basata su piccole e medie aziende capaci proprio grazie alle loro ridotte dimensioni di risultare più flessibili e di adeguarsi più velocemente alle mutate situazioni di mercato. Questo è sicuramente vero, rispetto ad una grande industria con una struttura rigida ed allargata quanto a management, una piccola realtà con al vertice l'imprenditore che decide su tutto risulta più reattiva nel prendere decisioni a fronte di particolari condizioni del mercato.

Ma è un vantaggio che non compensa gli aspetti che invece sono peggiorativi rispetto alle imprese di più grandi dimensioni, cioè per alcuni aspetti di breve termine quella piccola è in vantaggio ma nel medio-lungo periodo essa si trova inadeguata a competere con le maggiori. Intanto per una questione tipicamente strutturale: una azienda con pochi addetti, per quanto abbia un prodotto valido, non può essere presente però in tutti i mercati, in tutti i continenti. Si prenda ad esempio una realtà produttiva con 10, 20 o anche 30 dipendenti, farà fatica ad avere un organico che possa presenziare adeguatamente il territorio nazionale, quello continentale e quello extra continentale, cosa che può fare invece meglio quella con 100, 200 o 300 dipendenti.

Si obietterà (comprensibilmente) che questa è una osservazione banale e che anche le grandi aziende sono nate come piccole attività, che poi nel tempo sono cresciute e che lo stesso può avvenire per quelle che sono appunto piccole oggi. Si, vero, ma è questo il punto che voglio sottolineare: è proprio il modello Nord-Est che per sua logica si autolimita, cioè è caratterizzato da una cultura che pone dei limiti propri alla sua crescita. Questa tipologia di impresa ruota attorno alla figura del suo o dei suoi (solitamente pochi) fondatori ed a costui/costoro è legato lo sviluppo, sviluppo che difficilmente potrà risultare alla lunga vincente. Ricordo che già all'epoca (anni '80) era diffusa la questione ad esempio del passaggio generazionale, i cui dati statistici evidenziavano come se tra la prima e la seconda generazione l'azienda poteva non risentire del passaggio, già dalla seconda alla terza potevano verificarsi invece dei sensibili contraccolpi. Abbiamo avuto diversi esempi di aziende che fin quando il suo fondatore aveva le redini in mano della sua attività, questa risultava competitiva e poteva confrontarsi anche con realtà decisamente più grandi nello scenario internazionale. Si pensi ad esempio a ditte come la Zanussi (oggi gruppo Electrolux) e la sua controllata Selèco; la Mivar per il settore delle radio prima e dei televisori poi: buona qualità di prodotti ma non capace di stare al passo con l'evoluzione tecnologica. Anche questa è una caratteristica che vede penalizzata la piccola azienda: poca capacità di investimento in Ricerca & Sviluppo ed in una fase storica contrassegnata dalla tecnologia questo diventa un handicap non da poco. Se ne possono fare molti di riferimenti e tutti caratterizzati più o meno dallo stesso destino legato, come visto, da quello del suo fondatore ed eventualmente dalle prime generazioni successive.

La differenza con l'estero è che altrove i fondatori spesso si sono affidati prima o poi a manager ai quali hanno lasciato la direzione. Per citare casi noti, le tedesche Bosch e Siemens diventate entrambe multinazionali, con la prima che è diretta da manager ma il cui azionariato rimane comunque nelle mani della famiglia Bosch principalmente attraverso la loro fondazione e una parte di quote possedute direttamente.
La seconda invece ha una storia ancora più vecchia della Germania stessa (1871 l'anno dell'unificazione), fondata dall'ingegner Ernst Werner von Siemens e dai suoi fratelli nel 1847 a Berlino (allora capitale della Prussia) e oggi la più grande multinazionale d'Europa per fatturato e dipendenti e la cui famiglia Siemens detiene oggi circa il 6% dell'azionariato, del quale il 28% è nelle mani di residenti tedeschi ed il resto a stranieri con complessivamente un 64% circa rappresentato da investitori istituzionali, un 20% da privati a cui sommare il 6% della famiglia Siemens ed un rimanente 10% non definito (dati finanziari aggiornati all'agosto 2016).

La citazione di realtà tedesche è fatta a proposito perché anche in Germania vi è una notevole presenza di piccole e medie imprese ma con la differenza che per il mercato internazionale si distingue nettamente la tipologia di aziende coinvolte.


Come si vede dalla tabella tratta dall'Ufficio Federale di Statistica (ripartizione in percentuale del fatturato 2014 per dimensione delle aziende: KMU = piccole e medie; Großunternehmen = grandi aziende), in Germania vi è da una parte un elevato numero di piccole e medie imprese (KMU - kleine und mittlere Unternehmen), ma dall'altra se si guardano i diversi settori si nota come la presenza sia marcata in quello delle costruzioni (Baugewerbe), turistico (Gastgewerbe) e dei servizi (Dienstleistungen) mentre in quelli restanti prevalgono quelle di maggiori dimensioni.
Mentre quindi per la Germania il commercio estero coinvolge poco più del 80% aziende di grandi dimensioni e solo il rimanente piccole e medie imprese, per il caso italiano abbiamo una situazione ben diversa, citando i dati ISTAT 2014 all'interno del Rapporto sulla Competitività 2017:

"Se la partecipazione delle imprese italiane agli scambi internazionali è estesa in termini di attori, è molto più limitata in termini di concentrazione: nel 2014 in Italia i primi venti esportatori rappresentavano il 13 per cento delle esportazioni dell'industria, meno dei primi 5 esportatori di Francia o Germania. Inoltre, coerentemente con le caratteristiche di elevata frammentazione del sistema industriale italiano, le imprese esportatrici si caratterizzano per una dimensione relativamente ridotta: le micro (da 1 a 9 addetti) e le piccole (da 10 e 49 addetti) imprese rappresentavano rispettivamente circa il 65 e il 29 per cento del totale delle imprese esportatrici."

Chiaro? Le piccole e medie imprese italiane rappresentavano insieme nel 2014 ben l'84% delle imprese esportatrici, praticamente quasi l'esatto opposto della realtà tedesca! E la differenza si vede dai dati dell'export, con la Germania che nel 2016 ha toccato i 1.200 mld di euro mentre l'Italia registra poco più di un terzo.


I vantaggi competitivi di una grande azienda rispetto ad una media o addirittura ad una piccola sono molteplici, dalla capacità di raggiungere livelli di produttività maggiori grazie ad economie di scala, a quello di procurarsi finanziamenti a migliori condizioni, la possibilità di essere presenti prontamente e capillarmente in ogni mercato favorevole. Si pensi ad esempio ad una piccola realtà con le sue limitate capacità di poter passare da un continente all'altro rispetto a quella grande per cogliere così le opportunità di Paesi caratterizzati da fasi di elevato sviluppo economico.
Va comunque detto che le imprese italiane nonostante tutto si difendono comunque bene sullo scenario internazionale, infatti se si prendono in considerazione le quote di export per continente la differenza tra Germania e Italia non è rilevante. Ad esempio i tedeschi esportano in UE poco meno del 60% del totale contro il nostro 56% (dati 2016 per entrambi - Fonte Statistisches Bundesamt e Istat). La differenza quindi la fanno i numeri assoluti, più che le percentuali.

Oggi più che 30 anni fa è necessario che il nostro sistema produttivo sia caratterizzato da imprese dalle dimensioni decisamente più grandi, in grado quindi di potersi confrontare in ogni area geografica ed in ogni settore che con la globalizzazione diventa sempre più competitivo. E' ora insomma di incorniciare e di appendere alla parete dei ricordi la 'fabrichetta del sciur Brambilla'.

giovedì 2 marzo 2017

Quelle 'lievi' imprecisioni del Prof.A.Bagnai


"Parli del diavolo..." (cit.)
Nell'articolo di ieri ho citato il Prof.Alberto Bagnai e coincidenza vuole che mi sia stata segnalata la sua partecipazione alla trasmissione televisiva "Coffee Break" (cliccare sul nome per vedere un estratto su Youtube) andata in onda sulla rete televisiva La7 nella mattina di ieri 01 Marzo 2017. Io ho seguito il suo intervento e mentre non mi hanno sorpreso le sue usuali critiche all'euro ed alla politica economica della Germania (un suo Leitmotiv), ho però rilevato delle imprecisioni in merito ad alcune affermazioni da lui espresse. Non mi ha altresì sorpreso che abbia subito dopo scritto un articolo nel suo blog nel quale muove delle aspre critiche nei riguardi di uno dei suoi interlocutori in studio, Marco Furfaro, un esponente politico di SEL che (se non erro) si era candidato per la lista Tsipras alle europee del 2014, non riuscendo però ad essere eletto. Furfaro è laureato in economia, quindi si presume che questo tema non gli sia del tutto estraneo, eppure il prof.Bagnai, mostrando scarso rispetto come di suo solito per chi non la pensa allo stesso modo, lo tratta come uno scolaretto tant'è che il titolo dell'articolo in tedesco (a proposito, perché in tedesco?) si può tradurre con "Gli smarrimenti (o gli sconcerti, le confusioni) dell'allievo Furfaro".

A me del loro scontro interessa poco, interessa invece sottolineare queste imprecisioni che ho rilevato in alcuni interventi di Bagnai. Senza procedere in maniera cronologica rilevo come prima imprecisione l'affermazione fatta subito dopo il diciottesimo minuto in cui Bagnai afferma che Peter Hartz, il quale diede il nome al pacchetto di riforme del mercato del lavoro tra il 2003 ed il 2005, fosse all'epoca ministro del Lavoro del governo Schröder II. In realtà all'epoca il ministro dell'Economia e del Lavoro fu Wolfgang Clement del SPD, Peter Hartz fu chiamato dal cancelliere Schröder per costituire e coordinare una commissione con lo scopo di presentare un pacchetto di riforme del lavoro, questa commissione fu chiamata appunto Hartz Kommission e fu composta, oltre che naturalmente dallo stesso dott.Peter Hartz, da esponenti in rappresentanza di varie categorie del mondo del lavoro, della ricerca, dell'istruzione e della politica:

- Norbert Bensel, membro del Consiglio Direttivo di DaimlerChrysler Services AG e Deutschen Bahn AG 
- Dr. Jobst Fiedler Roland Berger, consulenti di strategia aziendale 
- Peter Gasse, responsabile regionale del sindacato IG Metall del Land Nordrhein-Westfalen 
- Dr. Peter Kraljic, Direttore della società McKinsey & Company di Düsseldorf 
- Klaus Luft, Direttore Commerciale della società Market Access for Technology Services GmbH 
- Wilhelm Schickler, Presidente dell'Ufficio del Lavoro del Land Hessen (Assia)
- Prof. Dr. Günther Schmid, del Centro Studi di Ricerca sul Sociale 
- Wolfgang Tiefensee, Sindaco della Città di Leipzig (Lipsia)
- Eggert Voscherau, membro del Consiglio Direttivo di BASF AG 
- Heinz Fischer, Direttore del Personale di Deutsche Bank AG 
- Prof. Dr. Werner Jann, docente dell'Università di Potsdam 
- Harald Schartau, ministro per il Lavoro ed il Sociale del Land Nordrhein-Westfalen 
- Hanns-Eberhard Schleyer, Segretario generale dell'Associazione Centrale delle imprese artigiane tedesche (Generalsekretär des Zentralverbandes des Deutschen Handwerks
- Isolde Kunkel-Weber, membro del sindacato ver.di (Die Vereinte Dienstleistungsgewerkschaft), il secondo grande sindacato dopo la IG Metall per numero di iscritti.

La gaffe quindi è doppia, non solo dopo tanti anni dalla introduzione delle riforme Hartz (nonché da lui citata spesso) Bagnai ancora confonde il ruolo svolto dal dott.Peter Hartz, ma poi fa credere che egli abbia avuto carta bianca dal cancelliere Schröder per riformare il mercato del lavoro in Germania con lo scopo di avvantaggiare le imprese a scapito dei lavoratori, mentre invece queste riforme furono discusse e approvate dalla sopracitata commissione nella quale facevano parte anche esponenti in rappresentanza dei lavoratori.

Ma la imprecisione più rilevante che gli contesto, a lui in veste di economista, è quella legata alla caduta della produttività in Italia a partire dal 1996, che a suo modo di vedere è dovuta alla partecipazione allo SME prima e all'euro dopo nella parte iniziale del suo intervento. Da economista dovrebbe avere la correttezza professionale di menzionare non solo l'indice generale della produttività, che in effetti è rimasto pressoché invariato dalla metà degli anni '90 ad oggi, ma citare l'andamento della produttività stessa dei tre settori fondamentali dell'economia: agricoltura, manifatturiero, servizi.
Prendendo i dati ufficiali ISTAT rileviamo l'andamento nel tempo dell'indice della produttività complessiva e dei tre settori:


Il settore da considerare per il commercio estero di beni è quello manifatturiero e questo come si può osservare non ha registrato un andamento piatto nel tempo della produttività, ma è invece crescente proprio durante il periodo della moneta unica. Anche il settore agricolo e della pesca vede una crescita della produttività, allora come è possibile che l'indice generale sia invece piatto? Semplice, è dovuto all'andamento di quello dei servizi, settore che incide per oltre due terzi nell'economia italiana!

E in Germania? L'Istituto Federale di Statistica fornisce i dati separati della produttività del lavoro e del capitale dal 2000 al 2015, io ho preso il primo per il settore manifatturiero:


Come si vede l'andamento è più pronunciato rispetto al dato italiano (anche la produttività del capitale, che qui non pubblico, ha un andamento sostenuto: da un indice pari a 88,63 del 2000 a 108,56 del 2013, ultimo dato rilevato sempre per il settore manifatturiero).
La fonte dati è questa:


Quindi è vero che la produttività nel settore manifatturiero è aumentata più in Germania che in Italia ma da noi non è rimasta ferma come si afferma riferendosi al dato complessivo. Tra l'altro anche la stessa produttività dell'intera economia in Germania non è cresciuta come quella nel settore manifatturiero, infatti l'indice generale della produttività del lavoro per occupato è passato da 93,95 del 2000 a 102,75 del 2015 mentre quello per ora lavorata da 89,93 del 2000 a 104,15 del 2015.
Un economista dovrebbe precisarlo.

mercoledì 1 marzo 2017

Breve analisi dell'export tedesco dal 1990 al 2016

L'euro ha davvero facilitato l'export della Germania? La politica di contenimento dei salari ha generato una concorrenza sleale da parte della Germania nei confronti dei partner dell'eurozona?
Queste più che essere semplici domande sono diventate oramai delle affermazioni, talvolta presentate come veri atti di accusa verso la maggiore economia europea.
Ma è davvero così? O più semplicemente, quanto c'è di vero in queste affermazioni?
Ho preso i dati relativi al commercio estero della Germania dal 1990 al 2016 tratti dall'Ufficio Federale di Statistica (Statistisches Bundesamt), i risultati dell'analisi che ho condotto portano a pensare che non sia pienamente sostenibile la tesi che l'adesione alla moneta unica abbia favorito in misura particolare (o solo) il commercio estero della Germania, non come vorrebbero alcuni economisti come il Prof.Alberto Bagnai, che ne ha fatto una 'quasi' vocazione quella di puntare il dito accusatorio nei confronti dell'euro (a suo modo di vedere German-oriented) e della politica economica attuata in particolare dal governo Schröder durante il suo secondo mandato (2002÷2005) con la serie di riforme contenute nel pacchetto Agenda 2010. (Qui l'ultimo suo articolo in ordine di tempo).

In questa mia analisi ho preso in considerazione gli 11 principali partner commerciali della Germania del 2016 dal punto di vista delle esportazioni, nell'ordine (in blu Paesi dell'eurozona, in rosso gli altri):

  1. Stati Uniti (€ 107 mld)
  2. Francia (€ 101 mld)
  3. Regno Unito (€ 86 mld)
  4. Paesi Bassi (€ 79 mld)
  5. Cina (€ 76 mld)
  6. Italia (€ 61 mld)
  7. Austria (€ 60 mld)
  8. Polonia (€ 55 mld)
  9. Svizzera € 50 mld)
  10. Belgio (€ 42 mld)*
  11. Spagna (€ 41 mld)
*Dal 1990 al 1998 include il Lussemburgo, dal 1999 solo Belgio)

Complessivamente rappresentano 758 mld sui circa 1.207 che la Germania ha realizzato nel 2016. In generale dal 1990 al 2016 essi hanno rappresentato circa 2/3 dell'export tedesco, nello specifico essi in questo periodo hanno pesato rispetto al valore complessivo:
  • Minimo 62%
  • Massimo 69%
  • Mediana 66%
Direi che questo ci da la possibilità di procedere ad una analisi dell'andamento nel tempo dell'export tedesco anche non considerando i dati relativi alla moltitudine di Paesi che insieme costituirebbero 'solo' poco più del 30%. Insomma, ci focalizzeremo sulla prima (o quasi) fascia dell'analisi paretiana.

I dati di ciascun Paese in valore assoluto nel periodo considerato sono rappresentati in questo grafico:


Non è proprio di facile lettura, o meglio di facile analisi. Per approfondire l'andamento mi sono affidato quindi agli indici, o meglio ad un indice pari a 100 per quanto riguarda il dato iniziale, ovvero quello del valore dell'export nell'anno 1990. Per semplificare la presentazione dei risultati ho considerato intervalli di 3 anni anziché di uno:


Osservando attentamente quest'ultima tabella si possono verificare dati interessanti come ad esempio i notevoli incrementi delle esportazioni verso la Cina e la Polonia, ma anche il raffronto tra Paesi dell'area euro e gli altri. Le performances migliori sono infatti risultate quelle verso i secondi, dove oltre al dato notevole ottenuto con la Cina, passato dai 2,15 mld del 1990 ai 76,11 mld del 2016, e con la Polonia, da 3,90 mld del 1990 a 54,80 mld del 2016, si registra quello con gli Stati Uniti, passato da 24 mld del 1990 ai 107 mld del 2016. In ambito eurozona invece il risultato migliore in termini di incremento percentuale lo si registra con la Spagna ed a seguire con l'Austria con un dato 2016 di oltre 3 volte quello del 1990 ma sempre inferiore a quelli visti precedentemente.
Tra queste nazioni il dato peggiore, sempre in termini percentuali, dopo il Belgio (che assieme ai Paesi Bassi merita una particolare considerazione) lo registra proprio l'Italia. Il dato relativo alle nostre esportazioni verso la Germania (o viceversa le importazioni tedesche dall'Italia) vede che dal 1990 il nostro Paese ha esportato in Germania beni per 26.674 milioni di euro e nel 2016 ben 51.774 milioni di euro, pari ad un incremento del 94%.
A onor del vero va comunque riconosciuto che durante il periodo che va dal rientro nello SME (1996) ed in particolare dall'adozione della moneta unica (1999) ad oggi la bilancia commerciale tra Italia e Germania è a loro favore ma questo dipende in buona parte anche dalla tipologia di prodotti scambiato:


Ho scritto che per Belgio e Paesi Bassi c'è una particolare considerazione da fare, infatti entrambi sono oggetto di dati alterati per il cosiddetto Rotterdam Effect:


In pratica una merce che è destinata in un Paese dell'Unione Europea (es.Germania) oppure in partenza da questi verso nazione extra UE ma che transita dal porto di un Paese terzo (appunto Paesi Bassi o Belgio), secondo le normative doganali nel primo caso la merce viene registrata come importata dal Paese che la riceve per primo presso il porto di sbarco anche se non il destinatario finale e viene registrata come esportazione dal medesimo verso il Paese effettivamente destinatario. Viceversa se dalla Germania ad esempio viene spedita una merce verso gli USA via porto di Rotterdam, i Paesi Bassi registreranno tale merce come importata dalla Germania ed esportata verso gli USA, non è quindi registrata come esportata direttamente dalla Germania verso gli USA. Per questa ragione i dati di commercio estero di questi Paesi intermediari vedono valori decisamente elevati rispetto alle dimensioni della propria economia.

Anche la Polonia merita una specifica osservazione. Le ragioni che risiedono nel notevole trend di crescita degli scambi con la Germania sono relativi alla consistente delocalizzazione di attività produttive di aziende tedesche in Polonia per beneficiare delle condizioni favorevoli che questo Paese ha offerto all'indomani del crollo della Cortina di Ferro. Infatti si noti l'incremento che vi è stato dal 1993 al 1996 e a seguire. Ad oggi la Polonia assieme alla Repubblica Ceca hanno nella Germania il partner principale, con i primi che con i tedeschi scambiano il 27% circa dell'ammontare complessivo di commercio estero ed i secondi il 32%.

Per il resto, se prendiamo l'andamento del cambio dollaro USA contro euro:


e lo usiamo per analizzare l'andamento dell'export con gli Stati Uniti, si può osservare che nel periodo 2001÷2008, ovvero quando il cambio è passato da 0,85 a 1,57 USD per 1 euro, le esportazioni tedesche verso oltreoceano sono cresciute del 5% appena, ma le importazione sono cresciute anche meno, solo 1%!
Insomma, il notevole apprezzamento della moneta unica europea (85%) ha sicuramente frenato l'incremento dell'export verso gli USA ma al tempo stesso non ha incrementato le importazioni. Meriterebbe quindi una analisi più approfondita visto che in questo caso il cambio non ha dato i risultati che molti economisti si sarebbero aspettati.

Se facciamo la stessa analisi con la Cina prendendo il cambio Yuan (o Renminbi) con l'euro (si noti l'andamento del tutto simile con quello precedente del dollaro):


possiamo notare come nel periodo 2001÷2004, quando l'euro si è apprezzato di oltre il 50%, le esportazioni tedesche verso la Cina sono comunque passate da 12.118 milioni di euro del 2001 a 20.992 milioni del 2004, ovvero un incremento del 73% mentre le importazioni sono cresciute del 64%: da 19.942 milioni a 32.791 milioni.

Il caso svizzero poi pone ulteriori dubbi circa l'effettiva influenza del cambio sul commercio estero, o comunque sulla sua entità:


Dal 1999 al 2007, quando il cambio dell'euro con il franco svizzero non ha visto variazioni di rilievo, le esportazioni tedesche verso la Svizzera hanno visto un incremento del 83% mentre le importazioni del 142%, poi dal 2008, quando la moneta svizzera si è deprezzata continuamente, l'export è cresciuto del 39% e l'import del 47%. Insomma il calo del 60% circa del franco svizzero ha visto da una parte un calo delle esportazioni tedesche ma dall'altra ha dato una spinta meno che proporzionale alle importazioni.

Terminando con la sterlina britannica:


vediamo che dal 2000 al 2009, a fronte di un apprezzamento dell'euro sulla sterlina di oltre il 50%, le esportazioni tedesche in UK sono comunque cresciute del 30% e le importazioni di appena il 13%.

In definitiva è certamente vero che il cambio svolga una certa influenza negli scambi commerciali ma questa è alla luce di analisi empiriche come queste meno di quanto molti economisti ritengono.

Per quanto riguarda la tanto citata moderazione salariale, è vero che nei primi anni 2000 vi è stato un accordo tra imprese e sindacati con lo scopo di ridurre l'incidenza del costo del lavoro attraverso un aumento dei salari in misura inferiore alla produttività, ma questa misura non ha influito sensibilmente sulla dinamica dei prezzi dei prodotti esportati, infatti se prendiamo sempre i dati dell'Ufficio Federale di Statistica ed in particolare l'indice dei prezzi dei prodotti esportati (Ausfuhrpreise) delle principali categorie merceologiche, si vede come l'andamento non registra una sensibile variazione sia durante l'attuazione delle riforme Hartz (2003÷2005) che in seguito:


L'unica categoria che segna un calo è quella dei prodotti di ingegneria meccanica, elettrotecnica e autoveicoli (Machinenbauerzeugnisse, elektrotechnische Erzeugnisse und Fahrzeuge), sicuramente una delle principali se non la principale, ma dal 2007 il trend è comunque tornato a crescere, seppur lentamente.
In ogni caso non è che negli anni che vanno dal 1989 al 1999 (gli anni ancora del Deutsche Mark) l'andamento fosse molto diverso. La cosiddetta moderazione salariale del 2003 ha quindi sì ridotto il costo del lavoro ma a beneficio più dei margini di profitto aziendali che sui prezzi finali dei prodotti, se non parzialmente evitandone un aumento maggiore. L'analisi storica dell'economia tedesca insegna che è un loro dogma il contenimento dei prezzi, non è una novità introdotta con la partecipazione alla moneta unica.
In ogni caso le ragioni del successo dell'export tedesco non possono essere licenziate con la sola motivazione dell'euro e della moderazione salariale, moderazione che recentemente non è più in corso dati i crescenti aumenti salariali conseguenti anche all'introduzione del salario minimo a € 8,50 dal 2015 e da quest'anno a € 8,84, che hanno avuto come conseguenza un sensibile aumento del costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP, in tedesco Lohnstückkosten).