giovedì 11 settembre 2014

Perchè sarebbe utile introdurre i minijob in Italia

In questo periodo si sente spesso parlare di modificare l'attuale normativa sul lavoro, magari copiando modelli in vigore presso altre nazioni quali Spagna e Germania. Non voglio per il momento entrare nel merito se sia meglio il modello spagnolo, tedesco o altro, oppure se non sia il caso di individuarne uno nuovo, ovvero un cosiddetto modello 'italiano'.

Voglio dedicare questo articolo nuovamente agli ancora famigerati (perchè incompresi) contratti minijob che spesso vengono indicati come mezzo per sfruttare la manodopera a basso prezzo. Anche se ho già parlato in precedenza di questo tipo di contratti, credo sia il caso di fare un riassunto per smentire molti luoghi comuni ancora diffusi, per spiegare perchè furono introdotti nel 2003 (anche se sarebbe più preciso dire modificati) e perchè dal mio punto di vista sarebbero utili anche da noi.

Se si domanda cosa sono i minijob facilmente l'interlocutore risponderà che sono contratti che prevedono compensi da 400 o 450 euro mensili (a seconda se fa riferimento al tetto previsto nel 2003 o al suo aumento dal 2013), defiscalizzati, decontribuzionalizzati e che non prevedono per il percettore alcuna copertura assicurativa.
In realtà non è così.

I minijob sono contratti atipici che riguardano lavori marginali (o secondari), occasionali e spesso a tempo determinato. Sono atipici perchè prevedono un monte ore inferiore anche rispetto ai lavori part-time e che godono di particolari agevolazioni fiscali e contributive a patto che l'importo corrisposto non superi i 450 € mensili o i 5.400 € annuali. Quindi un minijob può avere come compenso 450 € al mese oppure meno: 400, 370, 230, etc...
In numero di ore massimo non è stabilito per legge (a differenza di quanto era previsto prima della riforma del 2003), è oggetto di accordo tra le parti, ma normalmente non supera le 15÷20 ore settimanali per compensi al limite dell'importo massimo (450 €) o di poco inferiori.

Sono poi atipici perchè non riguardano i lavori ordinari (impiegato, operaio) per i quali sono previste le tipologie regolari di contratto in vigore praticamente dappertutto (anche da noi) come i contratti a tempo determinato (Befristetes Arbeitsverhältnis) o indeterminato (Unbefristetes Arbeitsverhältnis); a tempo pieno (Vollzeit) o part-time (Teilzeit); con compenso fisso mensile (lordo - In Germania non si fa mai riferimento al compenso netto) o a tariffa oraria (Tarifvertrag), che viene utilizzato quando è previsto un monte ore flessibile.
Si può essere assunti direttamente dalla azienda o tramite una agenzia di lavoro interinale.

Per quei 'lavoretti' che prevedono un numero basso di ore e/o di durata e che non è il caso di farle rientrare in una delle tipologie sopra menzionate, ecco allora che può far comodo il minijob.
Esempio, se un panificio ha necessità di avere un aiuto per l'orario di punta e se questo dovesse essere di 3 ore giornaliere per 6 giorni settimanali, si può pensare di offrire 450 euro a fronte delle 72 ore mensili di lavoro prestato.
Oppure un aiuto presso un ristorante solo per il weekend considerando che in Germania il periodo di punta è inferiore rispetto all'Italia in quanto i tedeschi cenano perlopiù tra le 18:30 e le 20:30. Quindi se l'aiuto servisse per due o tre giorni alla settimana e per 2÷3 ore per ciascuna sera, il totale delle ore mensili non sarebbe sufficiente a giustificare un contratto ordinario part-time.
Ma poi ci sono moltissimi altri casi in cui vengono impiegati i minijob, anche presso abitazioni private.

Altro luogo comune da sfatare è che non prevedano contributi nè imposte da pagare. In realtà prevedono sia una imposta fiscale che contributi previdenziali, così come una copertura assicurativa, solo che sono aliquote molto basse.

Perchè furono introdotti?
Intanto va precisato che i contratti atipici per lavori marginali (Geringfügige Beschäftigung) sono presenti dal 1977 ma non erano molto utilizzati per via del maggiore cuneo fiscale previsto in precedenza.
Per capire il motivo della modifica voluta dal governo Schröder con il secondo pacchetto delle riforme Hartz occorre considerare il welfare tedesco che prevede un sostegno economico a tutti i disoccupati e a tempo indeterminato. Dato che un sistema del genere comporta costi elevati e rilevato a suo tempo che non pochi disoccupati in realtà svolgevano saltuariamente 'lavoretti' non dichiarati e quindi pagati 'in nero', cosa che per l'ufficialmente disoccupato risultava conveniente perchè sommava all'indennità percepita un ulteriore compenso ma per il sistema assistenziale un costo che poteva essere ridimensionato, il governo Schröder pensò bene di ridurre il carico fiscale e contributivo previsto per questa tipologia di contratti favorendone così la loro diffusione e contestualmente prevedendo sanzioni pesanti per chi pagasse irregolarmente un lavoratore. In questo modo il datore di lavoro non ha più convenienza a pagare 'in nero' e il percettore di questo compenso non ha più possibilità di sottrarlo agli uffici competenti che possono così fornirgli un sussidio scontando la somma percepita con il minijob.
Questo ha così comportato un risparmio per il sistema assistenziale.

Concludo il riepilogo rammentando che seppur in numero apparentemente elevato (circa 7 milioni e mezzo), i percettori di minijob sono perlopiù lavoratori che hanno già un contratto (e un lavoro) ordinario a cui fa comodo lavorare qualche ora in più e ricevere un compenso extra, donne a cui fa comodo lavorare part-time per conciliare famiglia e lavoro, studenti per pagarsi gli studi e pensionati per arrotondare la pensione. Coloro che sono disoccupati e che ricorrono a questi lavori marginali rappresentano una parte ridotta del totale.

Perchè sarebbe utile introdurli in Italia?
A questo punto dopo quanto scritto la risposta può risultare intuitiva.
Noi non abbiamo un sistema di sostegno economico per tutti coloro che hanno perso il lavoro e prevedere una sua introduzione è assolutamente necessario. Dal dipendente che è stato licenziato, al lavoratore autonomo e anche all'imprenditore che hanno dovuto chiudere l'attività.
Se ne è parlato spesso negli anni e quello che ferma la sua introduzione è la stima piuttosto elevata di quanto potrebbe costare allo Stato. Ebbene, dato per scontato che anche da noi esistono numerosi 'lavoretti' e che questi normalmente vengono retribuiti irregolarmente (in nero) se si copiasse la ricetta Schröder potremmo spingere chi offre un lavoro marginale a dichiararlo e il compenso scalarlo dall'assegno di disoccupazione. In questo modo il costo complessivo del sistema che si andrebbe a scegliere risulterebbe sensibilmente inferiore e si potrebbe attuarlo con maggiore facilità, ovvero con un minore impegno finanziario.


Occorre rendersi conto che i lavori marginali sono presenti ovunque perchè necessari, da noi come in Germania o altrove, la differenza è che con i minijob i tedeschi li hanno fatti emergere alla luce del sole mentre qui sono nella maggior parte nascosti.

mercoledì 21 maggio 2014

I 'Cantastorie'

La campagna elettorale di queste elezioni europee sta giungendo al termine e gli argomenti discussi maggiormente sono sempre gli stessi: euro SI - euro NO e questioni di politica nazionale (scordando che non sono elezioni politiche). Di temi davvero europei c'è poco o nulla. E' insomma più un referendum pro o contro l'euro che un dibattito su cosa serve a questa Europa travolta da una crisi senza precedenti e che a fatica sta cercando di uscirne.

Gli economisti che dovrebbero analizzare il contesto economico individuando le ragioni della crisi e le vie di uscita si sono concentrati quasi unicamente sulla moneta unica servendo così ai politici su un piatto d'argento la scusa per scaricare le proprie negligenze e responsabilità per come è finito il nostro Paese.



Ve lo ricordate? Era il 10 Novembre 2011 quando uscì questo titolo sulla prima pagina de Il Sole 24 Ore, il quotidiano di Confindustria, titolo che vinse anche il premio "Ferrari" come titolo dell'anno.
Al governo c'era Berlusconi che darà le dimissioni due giorni più tardi lasciando il posto al prof.Mario Monti. Cosa è cambiato da allora? Quali riforme strutturali sono state messe in atto?
La risposta la sappiamo: molto poco. La politica non ha abbandonato quella tendenza ad occuparsi più dei propri interessi che di quelli del Paese. Ogni partito bada più a raccogliere consensi che a cercare di risollevare la situazione disastrosa nella quale ci troviamo. Se servono soldi si aumentano le tasse e la giustificazione è: "Ce lo chiede l'Europa!". Ma l'Europa non chiede nulla, semmai lo chiedono i trattati che abbiamo volontariamente sottoscritto, trattati che non dicono che dobbiamo aumentare le tasse o porre un limite alla spesa pubblica, ma che dobbiamo pareggiare le uscite con le entrate. Quindi se vogliamo aumentare la spesa pubblica occorre trovare le risorse oppure dobbiamo ridurla se si intende diminuire la pressione fiscale e spazio per farlo ce n'è, ci sono libri e libri e fiumi di inchiostro (si fa per dire) consumati in centinaia e centinaia di articoli dove vengono elencati esempi di spreco di denaro pubblico. Abbiamo pure una trasmissione satirica quotidiana (credo essere unica al mondo) che ci fornisce prove di tanti sprechi, sprechi che magari non risolveranno il problema del debito pubblico ma intanto sono indice della nostra scarsa considerazione del bene pubblico.

Alla fine problema e soluzione sembra essere al tempo stesso una sola: l'euro! La moneta che maneggiamo dal 2002 viene indicata come la causa nei nostri problemi ed il ritorno ad una propria valuta, alla vecchia lira o comunque ad una moneta tutta italiana, viene prospettata da alcuni economisti, a cui si associano molti politici, come la principale soluzione.
Ma chi sono questi economisti che tanto puntano il dito contro l'euro e quali sono le loro argomentazioni?

Claudio Borghi Aquilini 

La presentazione, per non sbagliare, la copio dal suo sito personale: "Milanese, economista ed editorialista è Professore incaricato presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano - dove insegna Economia degli Intermediari Finanziari, Economia delle Aziende di Credito ed Economia e Mercato dell'Arte."

E' oggi candidato indipendente nella lista della Lega Nord nella circoscrizione 1. Italia Nord-Occidentale.

E' anche editorialista per il quotidiano Il Giornale sul quale ha pubblicato diversi articoli critici sia verso l'euro che verso la UE ed in particolare contro la Germania, accusata di condurre una politica egemonica ai danni dei partner dell'eurozona, soprattutto dei Paesi mediterranei sostenendo una politica che li metterebbe in difficoltà.
Borghi sostiene che l'euro ha fatto bene alla sola Germania perchè avrebbe impedito che il cambio riportasse in parità la competitività della nostra economia, cioè con un cambio forzatamente fisso dovuto all'adozione della stessa moneta e un differenziale di inflazione a favore dei tedeschi, i nostri prodotti sono risultati via via sempre meno competitivi sul mercato internazionale mentre i loro al contrario hanno visto crescere la domanda incessantemente.
Sarebbe lungo da spiegare nei dettagli la inconsistenza di questa affermazione e quindi mi limito a mostrare i dati che evidenziano come le esportazioni italiane siano comunque cresciute e abbiano raggiunto livelli mai toccati prima:



Il grafico mostra i dati fino al 2005, per il 2013 l'Istat ha registrato un totale esportazioni per circa 390 miliardi, 359 miliardi sono state le importazioni a cui corrisponde quindi un saldo positivo per 30,4 miliardi di euro. Insomma l'export italiano non ha conosciuto crisi nonostante l'euro sia una moneta che nel tempo si è apprezzata rispetto alle altre valute rendendo meno convenienti le nostre merci. Sicuramente sarebbe preferibile un calo del suo valore al fine di dare una spinta ulteriore alle vendite fuori dell'eurozona ed in particolare per quei prodotti che risentono maggiormente del prezzo o anche per permettere un maggiore margine visto che in molti casi le aziende sono costrette a ridurli per tenere competitivi i propri prodotti, ma in ogni caso l'euro non ha provocato un rallentamento delle esportazioni come alcuni economisti e politici vanno sostenendo.

Quali sono allora le principali cause che hanno provocato la crisi profonda della nostra economia?
Innanzi tutto va detto che la nostra economia soffre da tempo di una bassa produttività le cui cause riguardano le imprese stesse ed in particolare:

  • Produzioni dal basso contenuto di valore aggiunto.
  • Dimensioni troppo piccole (più da microimprese) con conseguente peso eccessivo dei costi fissi e maggiore difficoltà di accesso al credito e con costi maggiori.
Poi vi sono le cause esogene e che riguardano prevalentemente:
  • L'elevata pressione fiscale.
  • Burocrazia (che comporta sia costi maggiori che ostacoli in alcune fasi dell'attività di impresa - avviamento ed espansione).
  • La difficoltà di accesso al credito e a condizioni svantaggiose rispetto a molti competitors stranieri
Pressione fiscale
Contrariamenmte a quello che afferma il prof.Borghi la pressione fiscale in Italia è aumentata a seguito dell'aumento della spesa pubblica. Lui infatti mostra spesso il grafico che indica il rapporto debito/Pil e da quello asserisce che la spesa pubblica in Italia sia diminuita mentre al contrario è aumentata in Germania, ma se guardiamo direttamente al dato riscontriamo che non è così:


Questi grafici sono tratti da uno studio pubblicato dall'Istituto Bruno Leoni e redatto dal dott.Pietro Monsurrò. Naturalmente essendo dati il prof.Borghi o altri possono sempre contestarli.
Come si può vedere la spesa pubblica in Italia, nonostante il calo del costo per gli interessi sul debito pubblico, è comunque aumentata dal 2004 al 2006 e la pressione fiscale ha seguito lo stesso andamento a partire dal 2005.
In Germania invece, contrariamente a quello che asseriscono il prof.Borghi e alcuni altri economisti, la spesa pubblica è diminuita proprio a partire dal completamento delle riforme contenute nel famoso pacchetto Hartz-Konzept, la cui attuazione è avvenuta nel triennio 2003÷2005. Per quanto riguarda invece la pressione fiscale si può vedere come in Germania sia rimasta sostanzialmente costante in rapporto al PIL. C'è però da notare che a fronte di un livello di pressione fiscale inferiore i servizi pubblici di cui godono i cittadini tedeschi sono di gran lunga maggiori di quelli che le amministrazioni pubbliche italiane offrono ai loro cittadini, basti pensare al welfare ad esempio.

Ma il prof.Borghi afferma anche una ulteriore intesattezza nei confronti della Germania sostenendo che ha disatteso i parametri di Maastricht, in particolare quello che riguarda il rapporto deficit/Pil fissato al 3%, a seguito delle riforme Hartz, ma non è così. La Germania infatti ha superato tale limite nel quadriennio 2002÷2005, quindi prima e durante l'attuazione di tali riforme, non dopo!
Tra l'altro questo e altri parametri sono stati disattesi da quasi tutti gli Stati dell'eurozona, motivo per il quale non è stata avviata alcuna sanzione nei confronti sia della Germania che degli altri.

Riprendendo la questione della spesa pubblica si può osservare dai dati presi dalla ricerca del dott.Monsurrò e riportati nella seguente figura come la spesa primaria sia aumentata a fronte di un calo della spesa per interessi sul debito pubblico, segno che non abbiamo sfruttato questo beneficio per ridurre la pressione fiscale:


Va anche menzionata l'evasione fiscale che comporta uno squilibrio nella tassazione, colpendo chi non ha la possibilità di evadere e gli onesti (cittadini e imprese).

Altro fenomeno che incide negativamente nella nostra economia è quello della corruzione che comporta disfunzioni nel regolare mercato concorrenziale avvantaggiando quelle attività che in maniera disonesta vincono gli appalti. Senza considerare che i costi ricadono poi sui cittadini, costretti a pagare più del dovuto per le opere pubbliche assegnate illegittimamente.

Il prof.Borghi più volte ha sminuito queste piaghe affermando che in fondo sia l'evasione fiscale che la corruzione erano presenti anche nei decenni passati quando l'economia era in condizioni diverse da quella di oggi. A me personalmente non pare una affermazione degna di un 'economista' che dovrebbe biasimare a gran voce ogni fenomeno distorsivo del mercato e della libera concorrenza.


Alberto Bagnai
"Professore associato di Politica economica presso il Dipartimento di Economia dell'Università Gabriele d'Annunzio di Chieti-Pescara"

Anche il prof.Bagnai è un fervente sostenitore dell'abbandono dell'euro e di un ritorno ad una propria moneta nazionale.
Molte sue argomentazioni sono simili a quelle del prof.Borghi e in particolare la sua attenzione si è spesso rivolta al ruolo della Germania e alle presunte politiche del lavoro che avrebbero, a suo dire, danneggiato i partner europei e in primis dell'eurozona.
Imputato principale a suo avviso (come del prof.Borghi) sarebbe il pacchetto Hartz-Konzept, colpevole di aver deflazionato il costo del lavoro e reso così più vantaggiosi i prodotti tedeschi.
Ma la responsabilità delle riforme Hartz è del tutto infondata in quanto riguardano quasi esclusivamente le forme contrattuali, gli uffici del lavoro (diventate agenzie), il sostentamento al reddito e infine, e forse è qui probabilmente dove lui e Borghi puntano il dito, ai contratti atipici in vigore dal 1977: i minijob e midijob. Ma se è così allora o non li ha capiti oppure dovrebbe dimostare come questa forma particolare di contratti influenzerebbe il costo dei prodotti esportati.

I minijob infatti sono contratti che trovano applicazione in attività saltuarie oppure continuative ma marginali, non si applicano infatti al personale di produzione (operai), di ufficio (impiegati) o addirittura a quadri e dirigenti. In un bene, che sia prodotto o commercializzato, non c'è quasi nulla di minijob nella componente 'costo del lavoro'. Non si capisce quindi come la cameriera al ristorante piuttosto che al Biergarten che svolge qualche ora alla settimana con un contratto minijob possa influire sul costo di produzione di una autovettura. Se Bagnai, Borghi e altri volessero maggiori conferme in merito a quali tipologie di lavoro viene proposto un contratto minijob possono andare al sito dell'agenzia federale per il lavoro:
Bundesagentur für Arbeit
intanto io posso dar loro qualche dato statistico riguardante la media delle ore settimanali svolte da coloro che hanno contratti minijob:


Come si può osservare la maggior parte effettua molto meno delle consuete 40 ore settimanali.
Nelle regolari mansioni (operaio/impiegato) le aziende assumono nè più nè meno con contratti simili a quelli in uso da noi, quindi direttamente con contratti a tempo determinato o indeterminato, a tempo pieno o part-time, con compenso mensile o a ore, oppure indirettamente attaverso le agenzie di lavoro interinale.
Mediamente le retribuzioni, nonchè il costo del lavoro, sono maggiori che nella maggior parte dei Paesi dell'eurozona (Italia inclusa):


Se poi il costo del lavoro unitario di prodotto alla fine risulta essere inferiore, questo deriva dalla maggiore produttività conseguita ed una maggiore efficienza del 'Sistema Paese'.

Se si dovesse sostenere una politica europea che tenda a convergere e quindi a ridurre le differenze tra i Paesi allora mi trova d'accordo perchè è questa la strada a mio avviso da perseguire, non quella di separarsi illudendo i cittadini che tornando alla lira (o comunque ad una propria moneta) la situazione cambi come per miracolo.

L'Europa deve proseguire il processo iniziato molti anni fa e interrotto, o comunque portato avanti con lentezza, da quando è stato introdotto l'euro arrivando ad una omogeneità delle politiche fiscali onde permettere alle imprese di un Paese di competere a pari condizioni con le altre all'interno della UE e dell'eurozona in particolare. La teoria delle aree valutarie ottimali ha senso e può essere menzionata solo finchè esistono queste differenze.
Dobbiamo andare avanti e non tornare indietro!

Le aziende italiane con molti anni di attività alle spalle ed in particolare quelle con uno spiccato orientamento all'export che conoscono quindi benefici e svantaggi delle svalutazioni questo lo hanno capito ed infatti non condividono le soluzioni prospettate da Borghi e Bagnai. Puntano invece il dito contro quelle cause che ho elencato precedentemente: pressione fiscale (da ridurre); burocrazia (da ridurre); accesso al credito (da semplificare) e alcune altre.
Se si desidera avere qualche ulteriore informazione circa la posizione degli industriali segnalo un breve documento redatto dal Centro Studi di Confindustria e che si può trovare su internet in formato Pdf:


Una uscita dall'euro non solo comporta rischi notevoli ma i vantaggi prospettati da alcuni economisti tra cui appunto i qui citati Borghi e Bagnai sono tutti da dimostrare. I presunti benefici a seguito dell'ultima svalutazione subito dopo l'uscita della lira dallo SME nel 1992 sono parziali. E' vero che per alcuni anni la bilancia dei pagamenti è andata in attivo, ma Borghi e Bagnai non citano anche altre conseguenze, ad esempio che per cause non dipendenti dalla svalutazione ma che la stessa non ha evitato si sono persi 650.000 posti di lavoro dal 1993 al 1995:


Il debito pubblico è poi passato dal 104% del PIL nel 1992 al 120% nel 1996 con conseguente aumento della spesa per gli interessi, costo che si paga 8e si è pagato!) attraverso le imposte:


Come si nota l'importo per gli interessi è diminuito fortemente in termini assoluti beneficiando proprio dell'adozione della moneta unica, uscendone siamo destinati a pagare di più visto che i mercati avranno meno fiducia nell'investire in una economia italiana separata dalle altre per moneta.

La ricetta per uscire dalla crisi e riprendere a crescere, è di ridurre e ottimizzare la spesa pubblica; ridurre la pressione fiscale ed effettuare una seria lotta alla evasione fiscale aumentando così la base imponibile; investire in ricerca, in cultura e in istruzione; semplificare (e ridurre) la burocrazia; migliorare i servizi e incentivare la concorrenza. Insomma tutte quelle riforme che l'Europa, tanto denigrata ultimamente, va ripetendo e che la nostra classe politica rimanda continuamente da oramai troppo tempo.

Borghi e Bagnai si rendano conto che l'Europa non è nostra nemica, non lo è la Germania che può essere considerata una nostra concorrente ma anche un nostro cliente, anzi, il nostro miglior cliente! Ma soprattutto non è la Germania l'unica che ha beneficiato dell'euro e peggio ancora la causa della nostra crisi. Fino al 2008 le opinioni erano ben diverse e ben pochi criticavano la moneta unica. A quel che mi risulta nemmeno Borghi e Bagnai, folgorati sulla via di Damasco solo dopo l'arrivo della crisi del 2008:


Borghi e Bagnai smentiscono che un ritorno alla lira (o comunque ad una valuta nazionale) possa generare inflazione o semmai non quel livello di iperinflazione che alcuni prospettano.
Io non so dare una risposta al riguardo perchè molto dipende dal tipo di politica monetaria che verrà attuata, però mi sembra difficile credere che in un Paese che non ha mai avuto molto a cuore il problema dell'inflazione, e difatti si è quasi sempre trovato tra quelli che hanno registrato valori tra i più alti, possa, in caso di ritorno a moneta propria, non vedere crescere i prezzi in misura rilevante.
E' mia opinione che Borghi e Bagnai non abbiano fatto delle stime circa l'aumento di base monetaria necessaria se, per contrastare il prevedibile aumento dei tassi di interesse sul debito, anzichè imporre ulteriori tasse (oramai al limite di sopportazione) si decida di 'stampare moneta'. Io qualche ricerca sul tasso di crescita negli anni della lira e dell'inflazione a due cifre l'ho fatta e credo che nell'evventualità appunto di ritorno ad una moneta nazionale quei livelli saranno sicuramente superati, almeno per i primi anni e questo ammontare di denaro non potrà non causare una salita dei prezzi.

Se nel 1992 non c'è stato aumento dell'inflazione (a seguito dell'uscita della lira dallo SME e seguente svalutazione) è perchè l'economia è entrata in recessione, la disoccupazione è aumentata dal 7 al 9%  mentre l'occupazione come visto precedentemente ha visto perdere 650.000 posti di lavoro in tre anni e il prezzo delle materie prime (petrolio in testa) si è ridotto notevolmente:


Nel 2013 abbiamo acquistato 32 miliardi di euro di petrolio e circa altrettanti di gas, se passassimo ad una moneta che si svalutasse rispetto al dollaro per ogni 10 punti percentuali di svalutazione ne deriverebbe un maggiore costo per circa 6,5÷7 miliardi di euro (o equivalenti nella futura moneta) che dovremmo pagare attraverso maggiore costo dei carburanti, bollette, tariffe per il trasporto e di molti prodotti che acquisteremo. L'Istat potrà anche rilevare un aumento contenuto del tasso di inflazione, ma in ogni caso quei miliardi li dovremo tirare fuori perchè non credo proprio che per la prima volta nella storia il governo si faccia carico di tale costo stampando moneta.

Nei molti articoli pubblicati da Borghi e Bagnai non ne ho visto uno che fornisca una qualche traccia attendibile circa le modalità di uscita dall'euro in maniera da ridurre i rischi (leggere: i costi) al minimo. A volte sembra descritta come una semplice operazione da effettuarsi in un fine settimana. Può essere che molti, io per primo, si abbia un unico neurone (come ripete spesso il prof.Bagnai indicando chi, come i sostenitori del Partito Democratico, non condividono le sue teorie) e si faccia quindi difficoltà a capire le facili soluzioni da loro prospettate, però una cosa è certa: da un economista ci si aspetta molto di più di semplici articoli nei quali sono presenti numerose imprecisioni e per un docente universitario ci si aspetta anche una disponibilità al dialogo ed al confronto, che da parte di entrambi è mancata sin da subito verso chi non ha condiviso il loro punto di vista e posto logiche e opportune obiezioni.

lunedì 19 maggio 2014

Vademecum elezioni europee

Domenica 25 Maggio 2014, dalle 07:00 alle 23:00, si vota per eleggere 73 deputati in rappresentanza dell'Italia al Parlamento Europeo, su un totale di 751 eurodeputati.

Il sistema di voto è quello proporzionale con soglia di sbarramento al 4%. Ogni lista presenta un elenco di candidati tra i quali possono essere scelti fino ad un numero di tre candidati, oppure si può mettere una croce sul simbolo della lista e lasciare che sia l'ordine di lista a definire coloro che prima degli altri saranno eletti.

Circoscrizioni
L'Italia è divisa in 5 circoscrizioni:

  1. Italia Nord-Occidentale (scheda grigia)
  2. Italia Nord-Orientale (scheda marrone)
  3. Italia Centrale (scheda rossa)
  4. Italia Meridionale (scheda arancione)
  5. Italia Insulare (scheda rosa)

Ogni scheda riporterà a sinistra il simbolo di lista e a destra lo spazio per scrivere fino a 3 preferenze.



Modalità di voto
Per votare occorre mettere una croce sul simbolo della lista prescelta e, se si desidera, si può scrivere da una a tre preferenze scrivendo nello spazio a destra della lista prescelta il cognome (o nome e cognome) oppure in caso vi siano più candidati con lo stesso cognome anche indicare anche il nome di battesimo.

Nel caso si desideri scrivere tutte e tre le preferenze a disposizione è assolutamente necessario dare la preferenza ai due generi (uomo e donna), cioè due uomini e una donna oppure due donne e un uomo. In caso si dia il voto a tre donne o tre uomini la terza scelta verrà annullata!
Nel caso si dia il voto a due candidati è invece possibile che siano dello stesso genere (due donne o due uomini).

Se non si scrive alcun nome e ci si limita a dare il voto alla lista i candidati che beneficeranno del voto saranno quelli in testa (capolista e i due seguenti).

Perchè è importante votare
  • Perchè a prescindere che si voti o meno ci saranno in ogni caso 73 candidati che saranno eletti e che andranno a Bruxelles a rappresentare gli interessi degli italiani: di coloro che voteranno e di coloro che non lo faranno.
  • Chi non vota lascerà che il proprio destino venga deciso da quelli che invece si recheranno alle urne.
  • Perchè almeno in queste elezioni il cittadino ha la possibilità di scegliere il, o i candidati, a cui dare la propria preferenza.

La Germania 'alla sbarra'

Con l'avvicinarsi delle elezioni europee si intensificano le accuse rivolte alla Germania per essere poco disponibile ad aiutare i Paesi colpiti più duramente dalla crisi, se non addirittura di essere la principale responsabile della condizione sociale drammatica attualmente presente in Grecia. Di essere l'unica ad aver tratto vantaggio dalla moneta unica e di condurre una politica egemonica utile solo a se stessa. Cerchiamo di verificare l'attendibilità di queste accuse. Per prima cosa occorre tornare indietro negli anni per fare una analisi temporale degli avvenimenti e per la precisione al 1989 quando crollò il Muro di Berlino e con esso pian piano si dissolse tutto l'impero del blocco politico facente capo all'Unione Sovietica.
E' un breve riassunto che è necessario al fine di questa analisi.

L'anno successivo, il 18 Marzo 1990, si tennero nella allora Repubblica Democratica Tedesca (DDR) le elezioni e queste portarono alla vittoria e al governo Lothar de Maizière il quale iniziò le trattative con USA, Gran Bretagna, Francia, URSS e naturalmente con la Repubblica Federale Tedesca per la riunificazione delle due Germanie. Sostanzialmente non ci furono obiezioni, se non una condizione posta dall'allora presidente francese Mitterand al benestare legata alla partecipazione tedesca al processo che avrebbe portato alla moneta unica, processo già iniziato e che in quel periodo era in atto con l'unità di conto denominata ECU.
La Francia di Mitterand temeva infatti che la Germania riunificata diventasse economicamente troppo forte e potesse minare gli equilibri esistenti. Non fu quindi, come qualcuno sostiene, la Germania il maggiore sostenitore della moneta unica per poter così imbrigliare i Paesi come l'Italia che facendo uso di svalutazioni continue mettevano in difficoltà le esportazioni tedesche. Fu insomma la Francia a porre questa condizione e l'allora cancelliere Helmut Kohl uso tutto il suo prestigio per convincere i propri connazionali ed in particolare l'establishment ad abbandonare l'amato Deutsche Mark.


Il 14 Luglio del 1990 l'URSS diede il proprio benestare e il successivo 2 Ottobre la Germania tornò ad essere un unico Stato.
Dal clima di comprensibile gioia per questo evento epocale la Germania si trovò subito a fare i conti con la realtà di una economia dei 5 Länder della ex DDR che, seppur più competitiva tra i Paesi dell'ex blocco sovietico, lo era comunque molto meno di quella della parte occidentale tant'è che in breve tempo tutti i settori subirono un crollo notevole nella produzione dando poi luogo ad un profondo processo di ristrutturazione. Nella figura seguente è riportata la percentuale di produzione in alcuni settori dal 1990 al 1993 con indice 1989 = 100, e come si può notare il calo è molto evidente:



I costi del processo di riunificazione furono ingenti e alcune stime ritengono che siano arrivati a ben 1.500 miliardi di euro (fonte: Freie Universität Berlin). Ancora oggi vi sono trasferimenti dai  Länder occidentali a quelli orientali attraverso una tassa del 5,5% versata dai contribuenti e dalle aziende (Solidaritätszuschlag).
La disoccupazione nella ex DDR salì a circa il 20% e molti cittadini si dovettero trasferire nei Länder occidentali.
Per raccogliere fondi la Germania dovette alzare i tassi di interesse dei titoli emessi sul mercato e questo provocò un innalzamento generale, quindi anche di quelli di altre nazioni:



Da qui l'errata affermazione che la riunificazione tedesca è stata pagata dalle altre nazioni europee. E' più preciso dire che il costo della riunificazione pagato dai tedeschi si è ripercosso sugli altri, tra cui l'Italia.

Quando si arrivò alla nascita dell'euro (1999) la Germania ancora era alle prese con problemi economici, il tasso di disoccupazione era alto e come si può vedere nella seguente figura lo rimarrà fino al 2005 quando le riforme del governo Schröder cominciarono a produrre i loro effetti:


La competitività dell'industria tedesca era bassa e la Germania era unanimemente considerata la 'malata d'Europa'.

Alla fine del 1998 le elezioni in Germania furono vinte dalla coalizione SPD e Verdi e alla cancelleria andò Gerhard Schröder al quale toccò il compito di guidare il Paese fuori dalla crisi. Iniziò riducendo la pressione fiscale abbassando la prima aliquota sui redditi personali (Eingangssteuersatz): dal 25,9% al 23,9 nel 1999; al 22,9% nel 2000; al 19,9% nel 2001; al 16% nel 2004 (al suo secondo mandato) e infine al 15% nel 2005. Ridusse anche l'aliquota massima che durante il suo mandato passò dal 53% al 42%:



All'inizio del 2002 istituì una commissione composta da membri delle maggiori aziende tedesche oltre che da esponenti del mondo accademico e politico con il compito di riformare il mondo del lavoro e dello stato sociale e nominò a capo di essa l'allora responsabile del personale della Volkswagen Peter Hartz. La commissione stilò 4 pacchetti di riforme che prese il nome di Hartz-Konzept che riguardarono il collocamento, i contratti atipici e il sostentamento sociale per i redditi più bassi. L'obiettivo fu quello di rendere più efficiente il mercato del lavoro e di ridurre le cospicue spese sociali derivanti dall'alto numero di disoccupati. Le riforme Hartz ebbero inizio nel 2003 con il primo pacchetto e terminarono con il quarto nel 2005.
I risultati iniziali furono deludenti rispetto agli obiettivi prefissati, sia sotto il profilo della riduzione dei costi sociali che furono inferiori alle aspettative e sia dal punto di vista della riduzione del tasso di disoccupazione.



Fu così che nel 2005 a seguito di una crisi di governo vennero indette elezioni anticipate che portarono alla vittoria la CDU di Angela Merkel e la Germania fu guidata da una Grande Coalizione insieme alla SPD con l'attuale cancelliera alla sua prima esperienza alla guida del Paese.

Dal 2006 le sorti dell'economia tedesca cambiarono, già quell'anno vennero creati circa 1 milioni di posti di lavoro:



Come si può vedere dal confronto delle due tabelle l'inflazione salì dallo 0,6% circa del biennio 1998÷1999 al 2% circa dal 2005, segno della ripresa dell'attività economica.

Sindacati e associazioni industriali stipularono accordi che prevedevano aumenti salariali più legati al tasso reale di inflazione che alla produttività, in questo modo crescendo quest'ultima più dei salari stessi ne derivava un abbassamento del costo unitario di prodotto rendendoli così più competitivi. Il costo del lavoro infatti fu molto alto all'inizio dell'era euro e questa era una delle cause della scarsa competitività. I lavoratori quindi accettarono il sacrificio di vedersi aumentare meno i compensi rispetto alla produttività, ma mantenendo comunque inalterato il potere di acquisto, in cambio del mantenimento del posto di lavoro visto che in alternativa molte aziende minacciavano di delocalizzare all'estero, delocalizzazione che ha poi riguardato solo quelle attività dal basso contenuto di valore aggiunto.

La Germania è anche accusata di aver operato una sorta di dumping salariale ai danni degli altri Paesi ma è una accusa infondata. I salari in Germania sono oggi tra i più alti al mondo, il costo del lavoro è anch'esso maggiore che nella maggior parte degli altri Paesi e il fatto che i loro prodotti siano competitivi dipende più dalla scelta di puntare sull'innovazione, sulla qualità e l'affidabilità, sul servizio al cliente e sulla produttività.
Le riforme attuate non sono state indolori tant'è che è costata come si è visto la cancelleria a colui che personalmente ritengo l'arteficie del successo tedesco, ovvero l'ex cancelliere Gerhard  Schröder. L'attuale cancelliera Angela Merkel non ha fatto altro che godere dei benefici conseguiti a distanza di tempo, difatti dal 2005 le riforme in Germania si sono sostanzialmente fermate, riforme che si renderebbero utili per far salire la domanda interna tedesca e di conseguenza le importazioni aiutando così i partner europei ad uscire dalla crisi.

Anche l'accusa di essere l'unica ad aver beneficiato dell'euro è priva di fondamento, intanto perchè altri Paesi hanno registrato performance positive dalla sua introduzione e poi perchè il successo nell'export la Germania lo deve al fatto che i suoi prodotti sono molto richiesti e non per il prezzo, dato che notoriamente il "made in Germany" è tra i più cari. Si può fare l'esempio delle vendite di autovetture nel principale mercato mondiale, quello cinese, dove i marchi tedeschi hanno ottenuto un consistente successo:



I marchi tedeschi si sono imposti in segmenti dove trovano una scarsa concorrenza. Infatti se si osserva la tabella, che riporta i dati sulle vendite in Cina per l'anno 2013, si nota come i segmenti di fascia medio bassa, ovvero quella dove si collocano Fiat e altre case automobilistiche europee come Citroen, Renault e Peugeot, sono occupati da marchi locali realizzati con costi decisamente inferiori e quindi molto più competitivi.


Per ciò che riguarda la politica monetaria della Banca Centrale Europea, le accuse di essere influenzata dalla Germania sono anch'esse inconsistenti visto che molte scelte operate dal suo Board Esecutivo sono state oggetto di contrasto con la posizione delle autorità monetarie tedesche (Bundesbank) e del loro rappresentante nel Comitato Esecutivo. Nel Settembre del 2011 il tedesco Jürgen Stark, allora capoeconomista della BCE, si dimise in dissenso con le decisioni prese dall'allora presidente della BCE Trichet e dell'entrante Mario Draghi. Ma la cronaca è ricca di episodi che dimostrano come la BCE abbia sempre perseguito scelte in piena autonomia e talvolta divergenti dalla posizione di Berlino.
L'unica pretesa che i tedeschi fecero a suo tempo e che ottennero, in cambio della loro partecipazione alla moneta unica, fu che la Banca Centrale Europea avesse come mandato il solo controllo dei prezzi e che fosse completamente indipendente dal potere politico.
Risulta comunque corretta l'affermazione che la Banca Centrale Europea è impostata sul modello Bundesbank con cui condivide la dottrina monetarista.

Le accuse rivolte alla Germania insomma sono volte più a solleticare l'istinto naturale di antipatia, di invidia o comunque negativo nei confronti di chi consegue risultati migliori, ma in definitiva sono del tutto basate su argomentazioni inconsistenti e che non riguardano i veri motivi per i quali alcuni Paesi tra cui l'Italia sono in crisi.
Dovremmo essere più aperti e cercare di copiare se non tutte almeno gran parte delle loro ricette, perchè se sono state positive per loro non vedo perchè non lo debbano essere anche per noi.

giovedì 15 maggio 2014

Le accuse infondate del prof.Bagnai alla Germania

Uno degli argomenti di coloro che sostengono l'uscita dell'Italia dall'euro, perchè la indica come la causa principale della crisi sia nostra che della maggior parte dei Paesi stessi dell'eurozona, è quello di indicare in alcune nazioni e nella Germania in primis come coloro che hanno beneficiato da questa unione a scapito dei 'poveri' Paesi, soprattutto mediterranei, che ingenuamente si sarebbero fatti trasportare (e ingannare) dal miraggio di una prospettiva di benessere economico.

Secono alcuni la Germania avrebbe beneficiato del legame imposto da un'unica moneta, che non consente svalutazioni e quindi adeguamenti valutari per compensare i differenziali di competitività tra le diverse economie, facendo poi leva sulla propria influenza nell'imporre all'intera UE (ad oggi 27 nazioni più la Germania stessa!) politiche restrittive che poi lei stessa avrebbe impunemente disatteso applicando in patria politiche, definite dal prof.Alberto Bagnai, 'sleali' perchè avrebbero fatto uso di aiuti e sussidi statali vari alle imprese e introdotto con le riforme Hartz delle forme contrattuali che avrebbero permesso alle imprese un taglio drastico del costo del lavoro, una riduzione dei compensi ai lavoratori con salari da 450 euro mensili massimo e dove lo Stato interverrebbe integrando i bassi redditi con misure di sostegno economiche.

Queste integrazioni al reddito e questi aiuti alle imprese, secondo il prof.Bagnai, avrebbero causato una esplosione della spesa pubblica e conseguente sforamento del rapporto deficit/Pil, fissato al 3% dal Trattato di Maastricht, oltre che un aumento del debito pubblico (sempre in rapporto al Pil).
Ma è così? Non esattamente. Se prendiamo i dati ufficiali possiamo vedere come il rapporto deficit/Pil sia cresciuto nel periodo 2001÷2003, anno in cui ha raggiunto il massimo livello pari al 4,15%, per poi iniziare a decrescere per tornare nei limiti previsti nel 2006:


Se quindi il rapporto deficit/Pil ha iniziato a decrescere dal 2003, la tesi del prof.Bagnai che vuole le misure prese dal governo Schröder ed in particolare le riforme previste dal Hartz-Konzept, introdotte nel periodo 2003÷2005, come interventi 'sleali' e responsabili di una esplosione della spesa pubblica non regge e possiamo verificarlo anche prendendo i dati ufficiali (in tedesco) delle uscite e delle entrate del bilancio federale, raggruppate nelle principali voci, forniti dall'Ufficio di Statistica di Wiesbaden:


Come il prof.Bagnai può notare (e dato che conosce il tedesco non ha difficoltà a farlo) la spesa complessiva è passata da 1.003 miliardi di euro del 2003 a 1.016 miliardi nel 2007, corrispondente ad un +1,3% in 4 anni. Nel dettaglio può anche verificare che la voce pensioni e assistenza (Renten und Unterstützungen) è passata da 365 milioni di euro del 2003 a 356 miliardi nel 2007. Insomma le riforme dello stato sociale operate dall'ex cancelliere Gerhard  Schröder hanno ridotto la spesa per questa voce e non aumentata come sostiene il prof.Bagnai.

Allora qual'è la causa dell'aumento del deficit nel triennio 2001÷2003? Basta vedere la parte di destra che mostra le entrate (Einnahmen), da dove si può vedere come nel 2001 vi sia stato un calo rispetto all'anno precedente (pari a poco più di 50 miliardi di euro) e il livello è rimasto pressochè costante fino al 2005 quando le entrate sono cresciute nuovamente.

Non è la prima volta che il prof.Bagnai rivolge critiche inconsistenti alla Germania, quindi o lui raccoglie informazioni da fonti poco attendibili oppure è in malafede. Ad esempio anche con gli oramai famosi, e famigerati perchè citati a vanvera, minijob dovrebbe sapere da economista qual'è che questa forma di contratti atipici non riguardano coloro che assolvono mansioni di produzione o di concetto nelle aziende e quindi l'accusa di un presunto dumping salariale della Germania è priva di ogni fondamento. Basterebbe guardare al livello medio dei salari e al costo medio orario del lavoro che riportano valori tra i più elevati in Europa e nel mondo.
Nella seguente tabella sono riportati gli andamenti dei salari nominali e reali e quello dei prezzi al consumo dal 1991 al 2012 (fonte Ufficio di Statistica di Wiesbaden):


Si può vedere come i salari siano cresciuti di pari passo con quello dei prezzi e questo per un preciso obiettivo di rendere l'economia tedesca sempre più competitiva visto che il costo del lavoro era negli anni a cavallo del 2000 troppo alto e la Germania, come il prof.Bagnai sa, era considerata la 'malata d'Europa'. E' 'sleale' aver perseguito questa politica?

Concludo scrivendo il link all'articolo del prof.Bagnai che ha ispirato questa replica: Cosa sapete della slealtà?

venerdì 4 aprile 2014

L'uscita dall'euro dal punto di vista giuridico

Ora che la discussione tra rimanere nell'euro o uscirne per tornare ad una moneta propria si fa sempre più accesa, poco se non nulla si parla della questione dal punto di vista giuridico. Anzi, a leggere o ascoltare alcuni interventi di economisti ed esponenti della politica pare che una scelta del genere possa essere presa nel giro di pochi giorni e realizzata poi in breve tempo. Ma è così? Assolutamente NO! Temo che questi non abbiano bene in mente la questione sotto il profilo giuridico, delle norme contenute nei trattati.

Intanto per rimanere in ambito italiano la decisione dovrà essere presa dal Governo e poi approvata dal Parlamento. Quindi chi pensa che questa potrà avvenire in tempi brevi si sbaglia (e di tanto). Il Governo insomma passerebbe la proposta al vaglio delle Camere le quali dopo lettura, consultazioni, dichiarazioni di voto eccetera eccetera procederanno alla votazione e solo ad approvazione avvenuta si può intendersi conclusa solo la prima fase.


La seconda fase riguarda la comunicazione al Consiglio Europeo (composto dai capi di Stato e di Governo della UE) così come previsto dall'art.50(*) del Trattato sull'Unione Europea. E qui potrebbe nascere il primo ostacolo, perchè tale articolo prevede la richiesta da parte di uno Stato membro di non far più parte dell'Unione Europea, non dell'eurozona. Infatti non c'è alcun articolo nei trattati che contempli la sola uscita dall'eurozona e la contestuale permanenza nella UE.
Con ogni probabilità quindi, il Consiglio Europeo rimanderà tale questione alla Corte di Giustizia Europea per chiederne il parere circa la legittimità di questa richiesta.


Personalmente ho avuto modo di leggere articoli e ascoltare dibattiti sull'argomento e nessun esperto giurista è in grado di dare una risposta certa sulla questione. Ciascuno ha una propria opinione ma la garanzia che l'alta Corte europea possa dare parere favorevole a questa ipotesi non c'è. Potrebbe infatti respingere la richiesta perchè non contemplata esplicitamente nei trattati, sulla base quindi di una stretta interpretazione della norma e a questo punto all'Italia non rimarrebbero che due possibilità: presentare formale richiesta di uscita dalla UE (ripetendo però l'iter parlamentare) o un escamotage che prevede la contestuale richiesta di uscita dalla UE e quella di nuova adesione escludendo quella all'eurozona. In questo caso però è possibile che l'Italia venga temporaneamente esclusa dalla UE in attesa che venga approvato il suo rientro.


Qualsiasi soluzione venga presa di sicuro prevederà tempi non brevi visto che l'art.50(*) citato prevede, nei casi di richiesta di uscita dalla UE, che la risposta avvenga entro 2 anni e dopo le consultazioni avviate dalla Commissione Europea così come contemplato dal Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea.


(*)Articolo 50
1.
Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione.

2.
Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l'Unione negozia e conclude con tale Stato un
accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione. L'accordo è negoziato conformemente all'articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Esso è concluso a nome dell'Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.


3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al
paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro interessato, decida all'unanimità di prorogare tale termine.

4.
Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano.
Per maggioranza qualificata s'intende quella definita conformemente all'articolo 238, paragrafo 3, lettera b) del trattato sul funzionamento dell'Unione europea.

5.
Se lo Stato che ha receduto dall'Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto
della procedura di cui all'articolo 49.


Pensare quindi che uscire dalla moneta unica, dal momento in cui il governo nazionale prenda questa decisione a quando si avrà il responso dalla UE (sempre che per quanto detto venga accolto) dando così il via alla procedura vera e propria di cambio valuta, possa comportare tempi brevi è del tutto privo di fondamento così come priva di fondamento è l'idea di poter cambiare banconote e monete metalliche ad una intera nazione nel giro di pochi giorni o mesi.


E intanto come reagirebbero i mercati ad un iter che come si è visto è destinato a prolungarsi nel tempo? Nel caso la UE (come possibile) dovesse respingere la richiesta di sola uscita dall'euro, saremmo disposti a chiedere quindi quella dalla UE? Non credo, perchè se l'uscita dalla moneta unica comporta scenari quantomeno incerti, quella dalla UE avrebbe sicuramente prospettive negative sulla nostra economia.

lunedì 31 marzo 2014

Perchè non usciremo mai dall'euro...unilateralmente

Se scrivo qualche semplice articolo sul tema dell'euro e di una sua (im)possibile uscita è solo per discutere la questione a livello 'accademico', pour parler, come si fa di argomenti più o meno seri al bar con amici, perchè seriamente parlando quantomeno l'Italia non uscirà mai di propria iniziativa dalla moneta unica e questo per molti motivi. Vediamo i principali.

Supponiamo che alle prossime elezioni europee vi sia una netta affermazione di quei partiti che propongono un ritorno ad una moneta nazionale e che a seguito di questo esito e di eventuali crisi politiche l'attuale governo cada e si vada alle urne facendo vincere ancora chi desidera abbandonare l'euro.
Il Presidente della Repubblica incaricherà quindi una persona di formare il nuovo governo che, non appena insediato, proverà a mettere in atto la promessa elettorale, ma non prima di aver sentito i pareri delle varie rappresentanze del mondo economico e sociale, cioè le rappresentanze sindacali dei lavoratori, quelle imprenditoriali, l'ABI, tecnici dei ministeri, la Banca d'Italia etc...

A quel punto mi sarà difficile credere che queste possano trovarsi favorevoli con questa scelta visto che oggi lo dicono più o meno chiaramente che una eventuale uscita avrebbe delle conseguenze negative o quantomeno imprevedibili e dagli esiti incerti.

Confindustria sicuramente non potrà appoggiare una decisione simile per il fatto che molte grandi e medie aziende ad esempio emettono obbligazioni per raccogliere sul mercato finanziamenti per effettuare investimenti, obbligazioni in euro o altra valuta che devono essere rimborsate nella medesima valuta. Sarebbe quindi un danno non di poco conto se si adottasse una valuta soggetta a svalutarsi rispetto a quella di emissione dell'obbligazione, si dovrebbe pagare alla scadenza un capitale maggiorato.



Un altro aspetto che non piacerebbe alle imprese riguarda la situazione di incertezza a seguito di una simile decisione che bloccherebbe tutti gli investimenti, o quantomeno gran parte, perchè alle imprese servono prospettive sicure e un clima di fiducia per decidere di investire. Si andrebbe quindi incontro ad una situazione di attesa che di certo non farebbe ripartire l'economia come i fautori dell'uscita dall'euro professano.

Banche - Anche per gli istituti di credito e per lo stesso motivo delle imprese non sarebbero favorevoli a lasciare l'euro. Anche le banche infatti emettono obbligazioni e inoltre si prestano denaro a vicenda per la propria attività, denaro che deve essere restituito nella stessa valuta originale pertanto adottare una moneta destinata a svalutarsi implicherebbe un aggravio delle passività.

Banca d'Italia - Credo che anche la nostra banca centrale storcerà il naso di fronte ad una scelta populista come il ritorno alla lira o comunque ad una nostra valuta, specialmente quando nel suo bilancio registra linee di credito da altre banche centrali e dalla BCE per centinaia di miliardi di euro, che in caso di adozione di una nuova moneta saranno da restituire sempre in euro. Nel bilancio 2012 questa voce ammontava a poco meno di 254 miliardi di euro (16% del Pil):




Ministero del Tesoro - Non sono in grado di sapere quale opinione potranno dare i tecnici del ministero dal quale dipende la gestione del nostro debito pubblico e la relativa collocazione sul mercato dei titoli di Stato, ma la mia personale opinione è che non sarà favorevole in quanto faranno presente con ogni probabilità la prevedibile diffidenza da parte degli investitori ad acquistare titoli con un rendimento insufficente a coprire la prevista svalutazione della nostra nuova moneta rispetto a quella di emissione.
Se si decidesse di lasciare l'euro occorrerebbero mesi prima di poter essere in grado di emettere titoli nella nuova valuta (es.lire) e nel frattempo si sarebbe costretti a farlo sempre in euro. Ora, chi acquisterà mai un titolo qualsiasi che renda ad esempio il 3, 4 o anche 6% annuo con la prospettiva di vedersi rimborsare un 20 o 30% (o anche più) in meno a seguito della svalutazione della nuova moneta con cui verrà rimborsato il titolo rispetto a quella originale di emissione (euro)?

Esempio: il giorno dopo l'annuncio di uscita dall'euro il Tesoro colloca un BTP del valore nominale di 100 euro al prezzo minimo di aggiudicazione pari a 97 euro e una cedola del 4%. A prescindere dalla durata di questo BTP sicuramente il rendimento totale sarà inferiore ad una semplice svalutazione della lira anche solo del 20% (secondo le previsioni più ottimistiche) rispetto all'euro. Infatti dopo aver adottato una nuova moneta i titoli di Stato con ogni probabilità saranno tutti convertiti in questa, ergo chi compra paga in euro e si vede restituire lire (svalutate).
Per evitare così grosse quantità di invenduto al Tesoro non rimarrà che garantire gli investitori che i titoli emessi nel periodo transitorio verranno ripagati nella medesima valuta di emissione non esercitando quindi il diritto della lex monetae. Questo comporterà però un onere maggiore in quanto aumenterà l'importo capitale da restituire e quindi il debito pubblico.

Sindacati - Nonostante siano meno coinvolti direttamente i sindacati dei lavoratori, dopo aver ascoltato le preoccupazioni espresse dalle organizzazioni delle imprese, non avrebbero motivo di appoggiare una scelta di uscita dall'euro, visto che da questa potrebbero derivare gravi conseguenze al mondo del lavoro.

Insomma una cosa è ascoltare sui social network i commenti di comuni cittadini spesso non competenti a sufficienza di questioni così complesse, compreso quella del sottoscritto, e fare propaganda elettorale per catturare qualche voto in più illudendo la gente, ma un'altra è invece quella autorevole delle categorie sopra citate assumendosi eventualmente la responsabilità di una scelta che potrebbe causare gravi conseguenze al Paese.
Non potrebbero certo difendersi dicendo "lo suggerivano alcuni premi Nobel (per l'economia)". Anche perchè non è così, almeno per l'Italia.

mercoledì 26 marzo 2014

Cos'è e come funziona il fondo salva-stati ESM

Nel 2008 come sappiamo è arrivata una tempesta finanziaria che poi ha provocato una crisi economica dalla quale stiamo ancora cercando a fatica di uscirne. Alcuni Paesi come Irlanda, Grecia, Portogallo, Cipro, Romania, Ungheria, Lettonia e Spagna sono stati coinvolti a tal punto che si è reso necessario l'aiuto esterno per evitare il collasso dell'intera economia.
L'Unione Europea decise di intervenire attraverso la costituzione di fondi cosiddetti salvastati per raccogliere denaro e prestarli a chi oramai non riusciva a ottenerli sui mercati a tassi accettabili.

Si è iniziato con il EFSM (European Financial Stabilisation Mechanism), poi per la zona euro si è attivato il EFSF (European Financial Stability Facility) e recentemente il ESM (European Stability Mechanism) che sostituisce il EFSF, il quale sarà operativo fino a quando i Paesi che hanno ottenuto aiuti attraverso esso (Irlanda, Portogallo e Grecia) non avranno restituito l'ultima rata (2051).
Il fondo ESM è stato attivato il 08/10/2012, ha carattere permanente e ha l'obiettivo di intervenire in aiuto a quei Paesi dell'area euro che dovessero trovarsi in difficoltà a reperire sui mercati denaro a tassi sostenibili.
Attorno ad esso sono giunte da più parti forti critiche ed è presente molta disinformazione, soprattutto per come è organizzato.

Senza fare discorsi troppo tecnici ed essere quindi semplici nell'illustrare le sue caratteristiche si può dire che lo si può considerare come una grossa società finanziaria. Come tutte le società deve quindi possedere un capitale. Ebbene, si è deciso che questo capitale fosse in termini nominali pari a 700 miliardi di euro, poi con il recente ingresso della Lettonia è stato portato a 701,9 miliardi di euro. Questo capitale è nominale perchè solo sottoscritto, cioè i 17 Paesi, ora 18 con la Lettonia, si sono impegnati a versare ciascuno la propria quota nel caso ce ne fosse bisogno e per capire il significato passiamo a spiegare il suo funzionamento.

Come scritto precedentemente bisogna immaginare questo fondo come fosse una qualsiasi società finanziaria a cui occorre assegnare un capitale iniziale di funzionamento 'reale',ovvero versato, per darle modo di operare normalmente sui mercati emettendo obbligazioni garantite dal fondo ESM stesso e secondariamente dalle nazioni dell'area euro.
Questo capitale, il cui ammontare è oggi di 80,2 miliardi di euro, è da versarsi in 5 tranche da 16 miliardi ciascuna dove le prime quattro sono state già pagate e l'ultima è da farsi entro la fine di Aprile 2014.
In ogni caso il fondo ESM ha già iniziato ad operare emettendo obbligazioni con le quali ha raccolto denaro da investitori istituzionali e li ha utilizzati a favore di prestiti concessi a Cipro (9 miliardi) e Spagna (41,3 miliardi).

Questo quindi è già il primo punto da tenere bene a mente: il capitale versato da ciascuno Stato membro non viene utilizzato per essere prestato a favore di quei Paesi in difficoltà, ma è quello raccolto sul mercato emettendo appunto obbligazioni.
Lo Stato o gli Stati beneficiari provvederanno a restituire il prestito e solo nel caso dovessero diventare insolventi e il fondo non avesse le risorse sufficienti a restituire il debito ai creditori sarebbero chiamati in causa i Paesi membri in ragione della loro quota di competenza:



Perchè usare questa formula del fondo e non prestare direttamente il denaro? Semplicemente perchè costa meno in quanto il denaro viene raccolto sul mercato e grazie alla fidejussione di tutti i Paesi dell'eurozona è possibile ottenerlo a costi (tassi di interesse) decisamente bassi.
Il trattato prevede che nonostante il capitale sottoscritto sia di 701,9 miliardi,l'importo massimo che è possibile concedere in prestito è pari a 500 miliardi. La differenza è necessaria per garantire ulteriormente i creditori.

Pertanto le voci che vogliono tutti 701,9 miliardi (125,40 mld per l'Italia) da versare sono false, al momento sono previsti solo questi 80,2 mld (14,33 mld per l'Italia). Il resto sarà richiesto solo all'occorrenza, ovvero in caso di insolvenza da parte di un Paese debitore oppure nel caso sia necessario aumentare la disponibilità di capitale a fronte di un rapporto capitale/passività (prestiti concessi) troppo basso.

Ma chi decide di concedere un prestito e/o di richiedere ai Paesi membri di versare altro capitale sottoscritto? Contrariamente a voci prive di fondamento non sono degli sconosciuti burocrati a farlo.
Il fondo ha due Consigli che lo governano e lo amministrano:

  • Il Consiglio dei Governatori (Board of Governors), costituito dai ministri delle finanze dei Paesi membri.
  • Il Consiglio dei Direttori (Board of Directors) che sono dei tecnici nominati dai governatori in ragione di uno per ogni Stato membro.
Per l'Italia abbiamo quindi il ministro Padoan che svolge il ruolo di Governatore in rappresentanza dell'Italia e Vincenzo La Via quella di Direttore, il quale è anche il Direttore Generale del Tesoro presso il Ministero dell'Economia e delle Finanze.

Le decisioni sia del Consiglio dei Governatori che di quello dei Direttori devono essere prese all'unanimità, a maggioranza del 80% oppure dei 2/3 a seconda di quanto contemplato.
Se un Paese si trovasse nelle condizioni di dover chiedere aiuto, deve presentare richiesta al Presidente del ESM e quindi al Consiglio dei Governatori. Poi la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea ed eventualmente il Fondo Monetario Internazionale vagliano la richiesta, le condizioni del richiedente e formulano un memorandum di intesa che se condiviso viene quindi approvato e passato al Consiglio dei Direttori che deve approvare la parte esecutiva e dare il via agli aiuti . Insomma il nostro Paese, così come tutti quelli membri, non sono esclusi da ogni decisione ma al contrario hanno eguale voce in capitolo.