lunedì 14 marzo 2016

Gli USA adottarono davvero una politica 'keynesiana' per uscire dalla crisi?

Quante volte sentiamo che nella Unione Europea vige una politica di austerity e che a causa di questa non siamo ancora usciti dalla crisi? Quante volte abbiamo sentito che, diversamente, gli Stati Uniti con l'amministrazione Obama ne sarebbero invece usciti grazie proprio ad una politica di stampo 'keynesiano'? Ma è davvero così?
A prima vista leggendo i soli dati aggregati sembrerebbe in effetti che il governo federale statunitense abbia perseguito una politica fiscale decisamente espansiva dato che nel 2009 il deficit ha quasi toccato il 10% del PIL rimanendo ben al di sopra del 5% fino al 2013. Ma se scendiamo nei dettagli scopriamo che le cose non stanno esattamente così come sembrano.

Facciamo un passo indietro, ad inizio anno 2008, e cominciamo esaminando il bilancio preventivo per l'anno 2009 e successivi (approvato ad inizio 2008) redatto dall'Ufficio per la Gestione ed il Bilancio della Casa Bianca (Office of Management and Budget), in pratica l'ufficio di consulenza per il bilancio federale utilizzato dal Presidente degli Stati Uniti, quando ancora la crisi finanziaria che si era manifestata già nel 2007 non aveva ancora toccato il culmine. Firmatario quell'anno del bilancio fu il Presidente G.W.Bush (Repubblicano):

Osserviamo la tabella all'interno del documento che riassume i dati riguardanti il deficit federale consolidato (effettivo) degli ultimi anni, quello stimato per l'anno appena concluso (2008), quello in corso (2009) e quelli futuri:


Si possono notare due cose interessanti, in primo luogo il deficit federale, tranne qualche breve periodo, è sempre stato entro il 3% del PIL, guarda caso il parametro previsto nell'Unione Europea dal Trattato di Maastricht, ed in secondo luogo, per l'analisi attuale, che il deficit previsto dall'amministrazione Bush per l'anno 2009 (quello in corso all'epoca della firma del bilancio) era stimato al 2,7% del PIL, ovvero 0,2 punti percentuali in meno rispetto a quello previsto per l'anno appena trascorso, il 2008, conclusosi poi con un dato finale pari al 3,1% del PIL. Questo già ci dice che l'amministrazione Bush aveva in programma di ridurre un deficit che già molti considererebbero basso, soprattutto tra coloro che parlano di austerity guardando agli stessi dati dell'Unione Europea.
Quell'anno il deficit reale però giunse al 9,8% del PIL proprio a causa dell'esplodere della crisi finanziaria che si trasmise all'economia. Il PIL a prezzi correnti scese da 14.752 a 14.415 miliardi di USD (-2,3%) mentre l'occupazione scese da 144 milioni di persone a 138 milioni (fonte US Bureau of Labor Statistics), praticamente si persero almeno 6 milioni di posti di lavoro pari al 4%!

Il deficit quell'anno raggiunse quel livello non tanto a causa di politiche espansive del governo federale, come alcuni sostengono, ma come conseguenza in primo luogo del crollo delle entrate fiscali, poi di un aumento delle spese di welfare e solo in parte ad interventi a sostegno dell'economia!
Infatti il deficit del 2009 fu pari a 1.413 miliardi di dollari contro i 407 previsti e la differenza di circa 1.000 miliardi è rappresentata da 600 miliardi di minori entrate (2.100 miliardi effettivi contro i 2.700 previsti) e da un aumento della spesa per i restanti 400 miliardi (3.500 effettivi contro i 3.100 previsti).
Vediamo ora come si è giunti ad un aumento della spesa pari a 400 miliardi. Un rapporto del Congressional Budget Office ha stimato che 245 miliardi di maggiori spese sono legate al Troubled Asset Relief Program (TARP) approvato alla fine del 2008 dall'amministrazione Bush, un pacchetto di interventi del governo USA a sostegno delle attività finanziarie colpite dalla crisi causata dai famosi mutui subprime. Altri 200 miliardi sono conseguenti al programma American Recovery and Reinvestment Act (ARRA), un pacchetto di misure da stimolo all'economia deciso nel febbraio del 2009 dalla nuova amministrazione Obama. Questo programma è composto da investimenti e incentivi fiscali nel campo delle infrastrutture, dell'educazione, della salute e nelle energie rinnovabili. E' stata sicuramente una misura di sostegno all'economia, ma attenzione, la cifra stanziata per questo programma è stata complessivamente di 787 miliardi, poi diventati 831, nell'arco di un decennio: dal 2009 al 2019. Da un rapporto della stessa CBO si è stimato che metà di questo importo è stato raggiunto già nel 2010 e che il 90% è stato realizzato alla fine del 2011. In pratica stando a questi dati circa 740 miliardi di dollari sono stati stanziati nel triennio 2009÷2011, pari al 5% circa del PIL 2009. Sicuramente un pacchetto utile oltre che necessario ma dall'entità alquanto più contenuta rispetto a quello che si potrebbe desumere guardando i dati complessivi del deficit federale per lo stesso periodo. Stiamo insomma parlando di interventi che nel 2009 sono stati pari, stando al rapporto CBO, al 1,4% del PIL (200 miliardi di USD a fronte dei 14.715 del PIL), un intervento quindi dall'ammontare non tanto diverso da quello effettuato (o effettuabile) nei Paesi della Unione Europea.

In questa figura è rappresentata la spesa federale nelle sue componenti:


Passando ora agli anni successivi la tabella seguente riepiloga i dati previsti e quelli effettivi delle principali voci di bilancio:


Come si può osservare, il deficit effettivo a prezzi correnti si è aggirato attorno ai 3.500 miliardi di USD dal 2009 al 2014, per arrivare ai quasi 3.700 solo nel 2015 (dato preliminare), mentre il PIL è passato nel frattempo dai 14.415 miliardi del 2009 ai 17.800 del 2015 (dato preliminare), ovvero un incremento del 23%!
Si può davvero pensare che questo risultato di crescita del PIL sia ascrivibile alle misure di intervento del pacchetto A.R.R.A. per quanto questo abbia indubbiamente contribuito? Stiamo parlando di importi che in proporzione rispetto al PIL sono gli stessi che anche il governo italiano ha potuto disporre recentemente pur rispettando i vincoli europei di bilancio. Semmai sarebbe da analizzare come le risorse siano state impiegate da noi.

In conclusione, il governo federale statunitense sotto la presidenza Obama ha attuato sicuramente misure a sostegno dell'economia incentrate su investimenti e incentivi fiscali, ma dalle dimensioni sicuramente ben inferiori a quelle che molti credono (o vogliono far credere) se si limitano a prendere in considerazione in maniera superficiale i dati aggregati del deficit anno per anno. Un intervento non certo paragonabile al New Deal di Roosevelt del 1933 sebbene la crisi del 2008 sia stata per dimensioni molto simile a quella del 1929.
Quanto poi alla presunta politica definita di austerity della UE, se guardiamo le previsioni contenute nel bilancio federale statunitense approvato nel Febbraio 2015 per i prossimi anni, possiamo verificare che il deficit a cui si tende è un 2,5% del PIL:


Anche gli USA allora si starebbero orientando verso una politica di austerity? Deficit entro il 3% del PIL, tasso di inflazione stabilito dalla Federal Reserve come riferimento al 2% e singoli Stati Federali che, tranne il Vermont, hanno in qualche modo il vincolo del pareggio di bilancio (secondo il Balanced Budget Amendment) suggerisce qualcosa?
Per chiudere, questo è il deficit conseguito dal 2009 al 2014 (ultimo dato al momento disponibile) dai 28 Paesi della UE e di quelli appartenenti alla sola eurozona:


giovedì 10 marzo 2016

'IRPEF alla tedesca', un confronto con il nostro sistema di calcolo

Merita a mio avviso uno sguardo il sistema di tassazione sui redditi delle persone fisiche in vigore in Germania, in quanto presenta elementi interessanti anche se come il nostro si fonda sulla tassazione progressiva in base agli scaglioni di reddito imponibile di appartenenza.

La differenza consiste nel fatto che, mentre da noi la parte di reddito compresa in un determinato scaglione viene tassata con la medesima aliquota, in Germania l'aliquota cresce progressivamente e linearmente all'interno di quello scaglione partendo dall'aliquota inferiore fino a raggiungere quella successiva. Ad esempio, da noi a fronte di un reddito imponibile pari a € 13.000 un singolo contribuente paga oggi il 23%, mentre un contribuente tedesco paga una aliquota che è compresa tra quella iniziale prevista per il primo scaglione in vigore nel suo Paese, corrispondente al 14% a partire da € 8.472 (no tax area) fino a € 13.469, e quella dello scaglione successivo che corrisponde al 23,97% per redditi compresi tra € 13.470 e € 52.881. Per la precisione pagherà 838,00 € che in rapporto alla quota imponibile, ovvero quella che supera il livello di tax area pari a € 8.472, corrisponde al 18,5% [838 / (13.000 - 8.472)].
Se da noi ci fosse lo stesso sistema di progressività lineare, un contribuente non pagherebbe il 23% sull'imponibile in questione ma una aliquota compresa tra 23 e 27% (quella dello scaglione successivo).

Ma allora verrebbe da dire che con questo sistema di calcolo ne verremmo penalizzati, altro che essere vantaggioso! Visto così è vero, ma per comprendere la possibile utilità occorre rovesciare il punto di vista. Proprio perché questo sistema di imposizione si basa sulla progressività lineare, per cui il contribuente non pagherà per ogni euro guadagnato in più la medesima aliquota ma una percentuale via via crescente, è possibile partire da aliquote più basse per le fasce di reddito inferiori!
La logica è la seguente: se per un primo scaglione di reddito si prevede che l'aliquota fiscale sia la medesima è intuibile come presumibilmente questa sia maggiore rispetto al caso in cui si abbia un sistema progressivo come quello tedesco che consente di partire da una aliquota inferiore anche se per giungere ad una maggiore. Quindi se da noi la prima aliquota del 23% si riferisce ai redditi fino a 15.000 €, con un principio come quello in vigore in Germania si può pensare di partire da una aliquota inferiore per arrivare ad una uguale o leggermente maggiore per lo stesso imponibile (€ 15.000). Insomma un sistema più legato al principio per cui più guadagni e più contribuisci. Certo non è semplice affermare a priori per ciascun contribuente se introducendo questo sistema di calcolo costui sarà o meno penalizzato, si può però ipotizzare che offre la possibilità di chiedere meno a chi guadagna meno.

A livello informativo guardiamo la situazione in essere confrontando le aliquote in vigore attualmente in Italia ed in Germania.

ITALIA


GERMANIA


Nella figura seguente sono mostrate le curve che rappresentano le aliquote marginali (in rosso) e quella media (in blu) in Germania:


Come si nota l'andamento dell'aliquota media (in blu) cresce in maniera soft diversamente da quella italiana, rappresentata nella figura seguente, che parte da una aliquota già alta (23%) e mostra una crescita più pronunciata nella prima parte in corrispondenza dei redditi più bassi per poi appiattirsi man mano che l'imponibile aumenta:


Da questo confronto quindi il suggerimento di fare una analisi sulla base dei dati reali a disposizione del nostro Ministero delle Finanze per ipotizzare di adottare un sistema di calcolo come quello tedesco con il fine di ridurre la pressione fiscale sui redditi inferiori e prevedere una crescita più morbida rispetto alla situazione attuale.

sabato 5 marzo 2016

PIL...quanta confusione!

In questi giorni si è acceso un dibattito attorno alle stime ed ai dati diffusi dall'ISTAT in relazione al Prodotto Interno Lordo italiano per l'anno 2015 ed alla sua variazione rispetto all'anno precedente. In una prima comunicazione il PIL 2015 era dato al +0,8% rispetto al 2014 mentre solo pochi giorni dopo questo è cambiato passando al +0,6%. Come è possibile questa differenza? L'ISTAT ha precisato che nel 2015 il numero di giorni lavorativi è stato maggiore di tre giorni rispetto al 2014 e quindi il risultato rettificato depurandolo di questa differenza è pari a 0,2 punti percentuali in meno.

A questo punto si è assistito ad un confronto tra chi sosteneva che il dato da prendere in considerazione sia quello corretto (+0,6%) e non quello grezzo (+0,8%), confronto che pare però più legato a faziosità di carattere politico che per valutazioni di tipo economico.
Ma chi ha ragione o meglio si affida alla valutazione più attendibile? La risposta è: tutti e nessuno, o meglio... dipende!

Dando per scontato che si sappia cosa sia e come si calcola il Prodotto Interno Lordo, per chi non lo sapesse si limiti a considerarlo come al fatturato di una azienda che corrisponde al Paese nel suo complesso, il fatturato/PIL che emerge per primo alla stessa stregua del fatturato di una qualsiasi azienda è il PIL nominale a prezzi correnti. Infatti tutte le aziende a bilancio calcolano il proprio fatturato in base ai prezzi di vendita effettivamente realizzati e così è anche per il PIL di un qualsiasi Paese.

Ma se desideriamo calcolare una variazione in un senso (crescita) o nell'altro (calo) in termini reali, cioè non conseguenti alla variazione dei prezzi e quindi riferita alla effettiva variazione in termini di volume scambiato, ovvero di quantità di beni e servizi venduti, dobbiamo calcolare questo fatturato/PIL depurandolo delle variazioni di prezzo e quindi a prezzi costanti. Questo risultato ci fornisce quindi la variazione reale di fatturato/PIL tra due periodi. Questi due valori sono stati diffusi dall'ISTAT con la comunicazione in data 01 Marzo 2016:


Come si nota, inizialmente la comunicazione dell'Ufficio Nazionale di Statistica ci fornisce il dato grezzo del PIL a prezzi correnti (circa 1.636 mld di euro) che comporta una crescita rispetto all'anno precedente pari al 1,5%. Ma parte di questa crescita deriva dall'aumento dei prezzi, così se desideriamo conoscere l'eventuale incremento in termini di quantità di beni e servizi, ovvero in volume, allora dobbiamo effettuare i calcoli mantenendo costanti i prezzi e nella frase seguente l'ISTAT afferma che questa variazione risulta essere sempre positiva ma per un valore dello 0,8%.

A questo punto si può fare presente che una variazione può dipendere da fattori occasionali e che si potrebbe procedere confrontando i dati a parità di giorni lavorativi e depurando il risultato dagli effetti stagionali. Questo perché ragionevolmente si può far notare che una variazione in un senso o nell'altro può derivare dalla semplice differenza dei giorni lavorativi di un anno rispetto ad un altro e che in assenza di questa il fatturato/PIL sarebbe risultato diversamente. Questa è sì una osservazione legittima, ma occorre tenere presente che si tratta comunque di una trattazione in chiave statistica perché il PIL vero e proprio e sul quale si basano poi tutti i calcoli dei parametri macroeconomici di bilancio, per inciso quelli stabiliti dai trattati europei su deficit e debito pubblico, è quello nominale a prezzi correnti. Tutto il resto è artificio statistico per valutazioni specifiche come calcolare la crescita o il calo della ricchezza nazionale prodotta in termini reali.

L'ISTAT con la comunicazione del 04 Marzo 2016 ha fornito quindi la variazione del PIL per il 2015 dopo aver effettuato queste correzioni:


Nella prima parte l'Ufficio di Statistica comunica i dati su base trimestrale menzionando una terza tipologia di stima effettuata, quella a valori (prezzi) concatenati (*), oltre alla correzione sulla base dei giorni lavorativi e per gli effetti stagionali, e in seguito comunica i dati a livello annuale dove, seguendo la correzione sulla base del calendario, il PIL così determinato risulta essere maggiore rispetto all'anno precedente per lo 0,6%.

(*) Il calcolo a prezzi concatenati differisce da quello a prezzi costanti dal fatto che la serie di dati su cui è costituita la base di calcolo non rimane fissa ma viene variata di periodo in periodo onde fornire una stima più attendibile delle variazioni seguendo così l'evoluzione del mercato.

In fondo non è molto diverso da quello che effettuano molte aziende in cui periodicamente si analizzano i bilanci riferendosi al fatturato effettivamente conseguito, cioè a prezzi di listino. In seguito si analizzano i dati effettuando confronti con i periodi precedenti scorporando l'effetto prezzo e guardando ai volumi (quantità) di vendita e quindi calcolando il tutto a prezzi costanti, cioè prendendo a riferimento quelli di un determinato anno.
E via così si può proseguire prendendo in considerazione i giorni lavorativi dei periodi messi a confronto per determinare le variazioni effettive, non dovute quindi alla semplice differenza di calendario.
In alcuni casi si cerca anche di stimare gli effetti straordinari che si sono subiti per valutare quanto questi abbiano inciso sul risultato finale. Un esempio può essere l'azienda-cliente che subisce un fermo produzione di diversi giorni causa sciopero o calamità naturale e come conseguenza di questo la nostra fornitura si riduce proporzionalmente. Ne deriva una penalizzazione sul risultato finale, cioè una perdita in termini di vendita e quindi di fatturato, e in chiave statistica può risultare utile determinarne l'ammontare onde stimare come sarebbe andato verosimilmente il fatturato in sua assenza, diversamente dalla perdita di un cliente che sceglie di cambiare fornitore che rientra invece negli eventi ordinari e quindi da non considerare in una eventuale stima statistica di questo genere.

P.S.