domenica 19 febbraio 2017

"Accountability Bonds" - la proposta tedesca per contrastare i deficit eccessivi

All'interno dell'Eurozona non tutti i Paesi aderenti rispettano le regole di bilancio e questo può condurre a crisi che si ripercuotono anche sui partner. Ecco quindi la necessità di trovare soluzioni che limitino questa possibilità inducendo i governi a perseguire una politica di rigore sui conti pubblici evitando deficit eccessivi. Una di queste proposte giunge dal presidente dell'Istituto Tedesco di Studi Economici IFO: il Prof.Clemens Fuest.

In sostanza egli propone di creare due categorie di titoli del debito pubblico emessi dai vari governi dei Paesi dell'area euro sulla falsariga delle obbligazioni delle imprese private, una prima categoria "Senior" e l'altra "Junior". Il presupposto sarebbe quello di indurre i governi a rispettare i parametri stabiliti dai trattati ed in particolare la sua più recente formulazione all'interno dell'oramai famoso Fiscal Compact, il quale contempla un limite al rapporto deficit strutturale (corretto per gli effetti ciclici) sul PIL pari allo 0,5%. Il Prof.Fuers, come premessa, lamenta il fatto che i governi dei Paesi dell'eurozona (compresa la Germania) dal 1999 al 2014 hanno complessivamente disatteso ben 159 volte il rapporto deficit/PIL al 3% stabilito nel Trattato di Maastricht, di queste, 50 sono state le volte in situazione di recessione, e ben 109 in situazioni di crescita ed a fronte di questo nessuna sanzione è stata mai comminata (Germania inclusa, va sottolineato).


Fuest propone di introdurre una seconda categoria di obbligazioni sovrane chiamate "Accountability Bonds" (o Verantwortungsanleihen in tedesco), cioè obbligazioni di responsabilità. Queste obbligazioni avrebbero un tasso di interesse maggiore di quello di mercato dell'ordine del 4 o anche 5% ed una durata pari a 5 anni. Verrebbero emesse a carico dei governi per la quota eccedente il deficit strutturale (corretto per gli effetti ciclici dell'economia) che superi il tetto stabilito dal Fiscal Compact, ovvero lo 0,5% del PIL. In pratica, allo stato attuale, la situazione in prospettiva sarebbe la seguente nel caso fosse in vigore tale regola:


Nella figura i Sünden-Anleihen sarebbero le obbligazioni di responsabilità, qui soprannominate in tedesco con un termine più severo: obbligazioni di peccato. Nella parte a sinistra della tabella sono riportati i deficit strutturali rispetto al PIL previsti per l'anno 2017 (in nero) e 2018 (in blu) stando ai dati della Commissione Europea. Per la Francia ad esempio abbiamo rispettivamente il 2,3% ed il 2,7%, per la Spagna il 3,6% per entrambi gli anni e per l'Italia rispettivamente il 2% ed il 2,5%.
Se la proposta di Fuest fosse in vigore, la parte eccedente lo 0,5% dovrebbe essere coperta emettendo questi Junior Bond e nella parte a destra sono riportati gli importi corrispondenti: 87,2 mld di euro per la Francia, 66,7 mld per la Spagna, 57,5 mld per l'Italia e così via. Si noti che per la Grecia non è prevista alcuna emissione in quanto il deficit strutturale è inferiore allo 0,5%.

Nella sua proposta Fuest prevede inoltre che, per i Paesi che dovessero avere un rapporto debito/PIL oltre il 120%, gli interessi su queste obbligazioni verrebbero congelati e la maturità sarebbe prorogata sino a quando tale rapporto scenderà sotto quel limite.
In contropartita Fuest suggerisce di condividere il rischio tra i Paesi membri per la quota invece di vecchio debito e per i titoli emessi a fronte del deficit strutturale ammesso, che rientri cioè nel limite dello 0,5% del PIL.

I vantaggi di questa soluzione consisterebbero nel fatto che i Paesi si troverebbero a rinnovare la maggior parte dei titoli in scadenza con un interesse basso in quanto il rischio sarebbe condiviso tra i Paesi membri, mentre sarebbero a carico del solo governo emittente la quota emessa di questi Accountability Bonds.
E' quindi intuitivo che un conto è trovarsi, come è stato ad esempio durante la crisi del 2011, a rinnovare tutti i titoli in scadenza (ad esempio nell'anno) a tassi eccessivamente alti, altro è doverlo fare solo per questi Accountability Bonds. Ad esempio per quanto riguarda l'Italia a fronte di titoli in scadenza annualmente per circa 350 mld di euro, sarebbero, stando ai dati attuali e rappresentati nella precedente tabella, solo 57,5 mld quelli oggetto di interesse maggiorato di un 4 o 5% rispetto al livello di mercato. Non si giungerebbe così a crisi che impedirebbero a quel governo l'accesso ai mercati finanziari.
Indurrebbe poi i governi ad evitare bilanci irresponsabili per rispettare invece una maggiore disciplina di bilancio.
Gli investitori sarebbero garantiti per la quota predominante di debito in circolazione in quanto garantito da tutti gli Stati membri dell'Eurozona e sarebbero esposti solo verso questi Accountability Bonds.

Per saperne di più:

Dal Prof.Fuest sul sito IFO (28 aprile 2016)


venerdì 17 febbraio 2017

Target2 e euroexit

"Ma che ce 'mporta, 'a bicciè, noi nun te pagamo!"
Ad un mese dalla lettera (qui il testo in italiano) con cui Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, ha risposto ad una interrogazione presentata da due europarlamentari italiani del Movimento 5 Stelle, Marco Valli e Marco Zanni (il quale recentemente ha lasciato il M5S per passare alla Lega di Salvini), ne ho lette e sentite di fesserie su questo tanto citato Target2. Il punto, oggetto di tanta polemica, riguarda per la precisione la frase finale della lettera in cui è scritto:
"Se un paese lasciasse l’Eurosistema, i crediti e le passività della sua BCN nei confronti della BCE dovrebbero essere regolati integralmente."
Apriti cielo! A questa dichiarazione del tutto ovvia, sono seguiti (e seguono) dibattiti circa la veridicità o meno di tale affermazione e quello che da un lato ho trovato anche divertente per le polemiche attorno ad una questione di pura lana caprina oltre che scarsamente rilevante (più avanti spiego il perché di questa considerazione), dall'altra avverto una certa dose di amarezza quando le fesserie inesattezze provengono non dall'uomo della strada ma da giornalisti economici o da qualcheduno che si definisce economista o comunque soggetti che dovrebbero essere a conoscenza di cosa si sta parlando.

Cosa è il Target
Il sistema Target (acronimo di Trans-European Automated Real-Time Gross Settlement Express Transfer) è una piattaforma europea per regolare (in inglese settlement) pagamenti di importo rilevante in euro in tempo reale (Real-Time) e al lordo (Gross). Insomma, sebbene per far capire il funzionamento si ricorre spesso all'esempio dell'acquirente privato che acquista un bene di importo non elevato all'estero all'interno di un Paese dell'eurosistema, in realtà il sistema Target è usato per i pagamenti di importi rilevanti effettuati da istituzioni creditizie tra loro.
Quando eseguiamo un bonifico, a noi può sembrare una operazione semplice sia che venga fatta allo sportello oppure on-line, ma in realtà questa è relativamente complessa soprattutto quando occorre effettuare un pagamento all'estero. Se l'esecutore ed il beneficiario hanno il conto presso la stessa banca l'operazione risulta semplice ed il tutto viene svolto dalla stessa che addebita la somma al primo e la accredita al secondo.
Un po' più complicato quando i due soggetti coinvolti hanno conti presso banche differenti. In questo caso se le operazioni fossero una o poche si potrebbe anche pensare a semplici passaggi di denaro, ma come si può immaginare le operazioni finanziarie sono numerose e riguardano una moltitudine di banche coinvolte, figuriamoci poi se prendiamo in considerazione le banche di tutto il mondo.
Ecco quindi che occorre affidarsi a strumenti che siano in grado di eseguire il tutto in (relativamente) semplicità e sicurezza. In queste procedure occorre considerare la fase di compensazione (in inglese clearing), che è quel processo in  cui le banche ed altre istituzioni finanziarie regolano tra loro i rapporti di dare e avere in un determinato momento. Segue poi la fase di regolamento (in inglese settlement), che è il processo in cui viene data esecuzione delle operazioni di dare e avere.
Per comprendere il meccanismo si immagini di trascorrere una giornata con un collega e che durante la stessa ciascuno a turno paghi per entrambi una qualsiasi voce di spesa. A fine giornata ci si sieda poi in una stanza (in finanza è chiamata tecnicamente camera di compensazione - in inglese clearing house) per fare i conti di chi si trova a credito e chi a debito. Questa è la fase appunto di clearing. Poi una volta stabilite le posizioni, chi si trova a debito effettua il pagamento dell'importo conseguente. Questa fase - tecnicamente di regolamento - è quella di settlement.
In questo caso è descritta la procedura di regolamento netto (net settlement), cioè confrontando tra loro una serie di operazioni di dare e avere per giungere ad una posizione finale, netta. Se invece ad ogni spesa effettuata da noi o dal collega si fosse proceduto di volta in volta ad un pagamento da parte del debitore verso il creditore, allora saremmo di fronte ad un regolamento lordo (gross settlement).
Il sistema Target è un sistema di regolamento lordo in tempo reale (Real Time Gross Settlement - RTGS).

Pagare o no il passivo sul Target2?
Quando si effettua un trasferimento di denaro da una banca di un Paese ad un'altra a seguito di un pagamento (es. bonifico), l'operazione non avviene direttamente tra i due istituti ma interviene un soggetto intermedio, in questo caso le banche centrali. Se una banca italiana deve pagare una somma per conto di un proprio cliente ad un soggetto residente in Brasile e che ha il conto presso una banca brasiliana, l'operazione transiterà attraverso le banche centrali dei due Paesi i quali non agiranno direttamente tra loro, ma si affideranno ad un soggetto terzo: la Banca dei Regolamenti Internazionali (Bank of International Settlements - BIS) con sede a Basilea.
Nel caso dell'eurozona, il regolamento all'interno della stessa tra banche centrali avviene attraverso la piattaforma Target che da luogo ad una posizione creditizia e una debitoria, che però sono registrate solo contabilmente senza dare luogo ad un pagamento effettivo. E' come il caso in cui una banca concede un fido ad un cliente, costui può effettuare un pagamento utilizzandolo e nel caso dell'eurozona questo fido è illimitato, ovvero non ci sono limiti alla posizione creditoria o debitoria raggiunta. Però, come nel caso in cui il cliente che decidesse di chiudere il conto per aprirlo presso altro istituto sarebbe chiamato a saldare una posizione debitoria, ovvero di fido utilizzato, anche in quello dell'eurozona la banca centrale del Paese che decidesse di uscirne sarebbe chiamata a saldare tale posizione e, nel caso sia debitoria, a pagare alla banca Centrale Europea il 'fido ottenuto'.

Perché il saldo Target2 è un non problema
La posizione sul Target2 di ciascun Paese membro è registrata contabilmente nello stato patrimoniale della sua banca centrale, tra le passività se negativa, tra le attività se positiva. Prendendo ad esempio gli ultimi bilanci della Banca d'Italia e della Deutsche Bundesbank rileviamo:

Banca d'Italia (dal bilancio 2015 - passivo)


Deutsche Bundesbank (dal bilancio 2015 - attivo)

Come si può verificare, sia nel caso della Banca d'Italia che in quello della Deutsche Bundesbank, le diverse posizioni a bilancio nello stato patrimoniale, rispettivamente debitoria e creditoria, sono quelle registrate nel saldo Target2 a fine 2015 e diffuse dalla BCE:


Questo ci dice due cose fondamentali:
  1. La posizione a credito o a debito è della sola banca centrale, quindi in caso di situazione a debito lo stesso non riguarda il governo, i cittadini o altri, ma solo la banca centrale.
  2. Essendo una voce a bilancio occorre guardare al medesimo per comprendere se una situazione debitoria comporti una posizione a rischio oppure no. Nel caso della Banca d'Italia è vero che ad oggi questa voce ha raggiunto i 359 mld di euro ma fino a quando il bilancio, come è stato per il 2015, è in attivo, ovvero le attività sono maggiori delle passività - incluso la posizione all'interno dell'eurosistema - questo non rappresenta un problema!
Nel 2015 avevamo una passività all'interno dell'eurozona di 248 mld di euro ma complessivamente il bilancio si è concluso con un attivo di 6 mld di euro. Se a fine 2016 si conseguisse un risultato positivo questo significherebbe che nonostante una posizione debitoria verso l'eurosistema di 359 mld la banca d'Italia avrebbe comunque all'attivo voci in grado di compensarla. Il problema sorgerebbe se una o più voci in attivo dovessero subire un deprezzamento riducendo così la situazione nello stato patrimoniale portando ad una perdita, quindi non in grado di coprire parte della voce in questione.

In conclusione Mario Draghi ha affermato una cosa ovvia nel dire che un Paese che intende lasciare l'eurozona deve regolare la posizione verso l'eurosistema e nello specifico verso la Banca Centrale Europea, sebbene le modalità non sono al momento contemplate e quindi occorrerebbe definirle nel caso si presentasse questa eventualità.
Poi che questa operazione riguarda solamente la banca centrale e non i cittadini o il governo, operazione che non rappresenta di per sé alcun dramma fin quando il bilancio è in attivo come allo stato attuale o anche in pareggio. Infine serve rammentare che questa compensazione è stata svolta quotidianamente in passato tra le banche centrali dell'attuale eurosistema ed avviene tutt'oggi con quelle che non ne fanno parte, una cosa quindi di normale amministrazione, insomma nulla di cui sorprenderci.

venerdì 10 febbraio 2017

Due variabili fondamentali: Valore Aggiunto e Produttività

Una premessa.
Quando diversi anni or sono intrapresi l'attività di vendita presso una azienda, la prima regola che mi fu trasmessa è:
"MAI DENIGRARE LA CONCORRENZA!"
Questa è una regola fondamentale per un venditore, una regola che non sempre la si insegna ai corsi teorici di vendita o ai corsi universitari. Di fronte ad un cliente non si deve mai svalutare o parlare male del prodotto del o dei concorrenti, si evidenziano invece gli aspetti vantaggiosi del proprio e semmai si aggiunge genericamente che questa o quella caratteristica non ce l'hanno quelli della concorrenza. Se mi trovo a trattare ad esempio uno smartphone da 600 euro ed il cliente mi fa presente che è interessato a spendere meno e che ha una offerta per un modello che costa supponiamo la metà, io cercherò di evidenziare le funzionalità che contraddistinguono il mio modello e che il concorrente non ha,. Cercherò di indurre in lui il bisogno o almeno il desiderio di avere quelle caratteristiche che il prodotto concorrente non ha. Ad esempio se il mio ha un fotocamera e l'altro no, devo trovare il modo di trasmettere in lui i vantaggi che la possibilità di scattare foto con lo smartphone può offrire. Si pensi ad esempio all'utilità per molti di scattare una foto per ragioni di lavoro, che so, anziché copiare i dati tecnici di un particolare si scatta una foto alla targhetta o ad un documento in cui questi dati sono scritti. Oppure scattare foto a prodotti della concorrenza ad una fiera anziché portarmi via una montagna di cataloghi. Di esempi se ne possono fare a centinaia e se riesco a far comprendere al cliente l'utilità di questa funzione (ed eventualmente di altre) facilmente potrò fargli accettare la differenza di prezzo.
Se viceversa sono io a trattare il modello di qualità e prezzo inferiore, cercherò di capire le esigenze principali del cliente e se costui risponde che per lui sono sufficienti poche basilari funzioni, allora sottolineerò che il mio modello è in grado di assolverle tutte con una spesa ben inferiore rispetto al concorrente. In ogni caso mai dirò che il modello concorrente è scadente perché costa meno e ha meno funzioni nel primo caso oppure che costa eccessivamente perché getta fumo negli occhi con funzionalità pressoché inutili nel secondo.

Questa fondamentale regola è estesa anche tra aziende, cioè non si parla mai male dell'azienda concorrente, se non al limite tra le quattro mura aziendali. Essa poi è propedeutica per sollecitare il bravo imprenditore a cercare di comprendere per quali ragioni i suoi prodotti siano meno competitivi della concorrenza, studiare il modo di migliorarli e di non optare per la inutile nonché sciocca soluzione di trovare ragioni che siano di comodo, arrivando a denigrare la concorrenza e di invocare soluzioni semplicistiche il cui effetto è più quello di truccare i dati anziché di aumentare la competitività intrinseca dei propri prodotti.
Spesso si sente dire che i prodotti made in Germany siano più competitivi perché la loro economia gode di una moneta sottovalutata rispetto alle altre. Ebbene, vediamo di esaminare questa affermazione.
Se Germania e Italia (tanto per fare il solito confronto) avessero ciascuna la propria valuta, rispettivamente marco e lira come prima dell'adozione dell'euro, e se le esportazioni tedesche verso l'Italia fossero maggiori di quelle italiane verso la Germania, ne conseguirebbe una maggiore domanda di marchi rispetto alle lire e quindi la loro valuta si apprezzerebbe facendo risultare più costosi i loro prodotti venduti in Italia e viceversa più attraenti quelli italiani venduti in Germania. Come effetto si avrebbe verosimilmente un calo dei primi e un incremento dei secondi fino ad eguagliare (o quasi) la bilancia commerciale. Bene, ma questa via non ha cambiato per nulla la competitività dei prodotti più apprezzati dai consumatori, ha solo dato un vantaggio a quelli meno competitivi inducendo i loro produttori a non preoccuparsi troppo per migliorarne la qualità, il contenuto tecnologico, le funzionalità, per abbassare il prezzo o più genericamente di aumentarne la competitività e l'apprezzamento verso la clientela attraverso una serie di interventi.
Se invece, come è oggi, i due Paesi detengono la stessa moneta allora la questione è tutta legata alla competitività la quale si basa su una moltitudine di variabili tra le quali ci può essere incluso anche l'aspetto estetico.
Se un prodotto tedesco oggi è venduto più di uno italiano, non è perché il produttore ha una valuta sottostimata, bensì perché risulta più apprezzato dal consumatore, semmai con la mancanza del cambio viene a mancare l'effetto compensatore, ma anche distorcente di una sana e positiva concorrenza..
In poche parole se una lavatrice made in Italy costa 600 euro e una made in Germany 700 euro, quest'ultima costerà sempre uguale a prescindere dal volume di vendita. Se la prima dovesse registrare un livello inferiore di apprezzamento, la soluzione non è affidarsi al cambio tra valute differenti per aumentare la propria competitività, bensì di adottare da parte della azienda produttrice una serie di interventi che la rendano più appetibile dai consumatori, anche se questo dovesse comportare un aumento del prezzo di vendita, perchè il prezzo non è determinante in sé, lo è semmai il rapporto qualità/prezzo.

Il Valore Aggiunto
Il valore aggiunto è la differenza fra il valore della produzione di beni e/o servizi realizzati (e venduti) ed i costi sostenuti per l’acquisto di input produttivi presso altre aziende. Rappresenta quindi il valore che i fattori produttivi utilizzati dall'impresa, capitale e lavoro, hanno aggiunto agli input acquistati dall'esterno, in modo da ottenere una data produzione. Il valore aggiunto è utilizzato dall'impresa per pagare quegli oneri necessari per realizzare la produzione, tra cui quello per il personale (retribuzioni):


Una produzione può essere ad alta incidenza di manodopera, cioè quando prevale la quota del lavoro sul capitale tra i due fattori classici della produzione (labour intensive) oppure ad alta incidenza di capitale quando invece è la quota investita in esso quella prevalente (capital intensive). In ambedue i casi, ma soprattutto nel primo, maggiore è il valore aggiunto e maggiore sarà la quota che l'azienda può destinare alle retribuzioni. Insomma, in generale, a fronte di un alto livello di valore aggiunto l'azienda sarà più disponibile a pagare meglio i collaboratori.
E' quindi intuibile come in presenza di prodotti a basso valore aggiunto ed allo stesso tempo ad alta incidenza di lavoro (labour intensive), l'impresa sia indotta a trovare soluzioni al fine di contenere la spesa per questa voce, ad esempio delocalizzando la produzione all'estero. L'alternativa è quella di retribuire meno che in altre realtà il lavoro e di contenerne la crescita. Questo aspetto lo si può considerare sia ambito di singola impresa che a livello nazionale. In questo secondo caso una economia intera che produce beni e servizi con un alto livello di valore aggiunto è in grado di pagare più la voce lavoro e di conseguenza i lavoratori potranno disporre di un livello di capacità di spesa superiore.

L'ISTAT riporta per l'anno 2015 un valore della produzione complessivamente realizzato pari a € 3.119.057 miliardi, sottraendo i consumi intermedi pari a € 1.644.010 miliardi otteniamo il valore aggiunto totale di € 1.475.047 miliardi. A dicembre 2015 il numero degli occupati era di 22 milioni e 470 mila (17 milioni i dipendenti, di cui 14,6 milioni con contratto a tempo indeterminato e 2,4 milioni a tempo determinato, e 5,4 milioni lavoratori autonomi).

STATISTISCHES BUNDESAMT (L'Istituto Federale di Statistica della Germania) riporta per il 2015 un valore aggiunto lordo (in tedesco Bruttowertschöpfung) pari a € 2.729.662 miliardi, 85% in più rispetto a quello italiano. A dicembre 2015 il totale degli occupati in Germania era di 43 milioni e 302 mila.

Da questi dati emerge che il valore aggiunto per occupato in Italia è di poco superiore (+4%) di quello in Germania: 65,6 mila euro contro 63 mila euro. Se ci si affidasse a questo primo dato emergerebbe che da noi il lavoro potrebbe essere compensato come, se non di più, di quello in Germania. Sappiamo però che in Germania le retribuzioni - soprattutto quelle nette - sono mediamente più alte di quelle in Italia, per comprendere le ragioni occorre scendere nei dettagli, quali ad esempio la diversa tipologia di distribuzione del reddito, l'incidenza del lavoro sul valore aggiunto che attraverso una diversa produttività consentirebbe ai lavoratori tedeschi di venire compensati maggiormente, oltre alla pressione fiscale e contributiva, sia a carico delle imprese che per il dipendente (cuneo fiscale).

La Produttività del Lavoro
La produttività ha diverse definizioni e diversi modi di essere calcolata, ma in sostanza è definita come la quantità di produzione realizzata (output) rispetto ai fattori della produzione utilizzati: capitale e lavoro. Possiamo quindi avere la produttività del capitale, calcolata dal valore aggiunto rispetto al capitale impiegato, e quella del lavoro come rapporto tra il valore aggiunto stesso e la quantità di lavoro utilizzato.
Va detto subito che il livello delle retribuzioni non influisce sulla produttività, semmai è il contrario: la produttività può influire sul livello delle retribuzioni. Questo perché ad un aumento della produttività si riduce il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) e quindi aumenta il margine di profitto (non il valore aggiunto!) conseguito dall'impresa, la quale può scegliere di compensare parte o tutto questo incremento aumentando i salari dei collaboratori.
Nel calcolo della produttività, il valore aggiunto è calcolato a prezzi costanti e questo per determinare il vero e proprio volume di produzione (output) realizzato, non sfalsato quindi da variazioni di prezzo.

In Germania le ore complessivamente e mediamente lavorate annualmente dagli occupati dipendenti sono passate da 1.452 del 2000 a 1.371,2 del 2015 (-5,5%), in pratica due settimane in meno da 40 ore/settimana (fonte: Institut für Arbeitsmarkt- und Berufsforschung der Bundesagentur für Arbeit, Nürnberg).
In Italia le ore mediamente lavorate nell'anno 2015 sono state 1.720 (fonte OCSE).
Sulla base di questi dati si ottengono rispettivamente 59.038 miliardi di ore lavorate nel 2015 per la Germania e 38.648 miliardi per l'Italia, pertanto si può determinare la produttività del lavoro espressa come valore aggiunto in rapporto alle ore lavorate per la Germania: 2.729.662/59.038 = 46 €/ora lavorata e per l'Italia: 1.475.047/38.648 = 38 €/ora lavorata.
Da questi dati emerge che la produttività del lavoro è maggiore in Germania anche se da loro sono impiegate proporzionalmente un numero maggiore di lavoratori e questo perché mediamente le ore annuali lavorate è sensibilmente inferiore. Inoltre occorre considerare che secondo la classificazione internazionale è considerato occupato una persona che svolga almeno 1 ora alla settimana di lavoro retribuito. E' verosimile quindi che i dati tedeschi registrino un sensibile numero di occupati che hanno però svolto un numero inferiore di ore lavorate rispetto a quelle previste per un lavoratore a tempo pieno.

Quello che conta maggiormente parlando di produttività è la sua dinamica nel tempo e qui le imprese italiane registrano da decenni una performance non esaltante. Citando l'ISTAT in una recente pubblicazione sul tema datata 2 novembre 2016:
"Tra il 1995 e il 2015 la crescita della produttività del lavoro in Italia è risultata decisamente inferiore alla media UE (+1,6%). Tassi di crescita in linea con la media europea sono stati registrati per Germania (+1,5%), Francia (+1,6%) e Regno Unito (+1,5%). Per la Spagna, il tasso di crescita è stato più basso (+0,6%) della media europea ma più alto di quello dell'Italia."
Difatti l'andamento della produttività del lavoro e del capitale è stato, sempre tratto dalla pubblicazione ISTAT:
"Complessivamente, nel periodo 1995-2015, la produttività del lavoro è aumentata ad un tasso medio annuo dello 0,3%, sintesi di una crescita media dello 0,5% del valore aggiunto e dello 0,2% delle ore lavorate. La produttività totale dei fattori è diminuita ad un tasso medio annuo dello 0,1%.
Nel 2015 il valore aggiunto dell'intera economia ha registrato una crescita dello 0,9% rispetto al 2014. La produttività del lavoro, calcolata come valore aggiunto per ora lavorata, è diminuita dello 0,3%, quella del capitale, misurata dal rapporto tra valore aggiunto e input di capitale, è aumentata del 1,9%"





"Il divario dell'Italia rispetto alle altre economie europee è risultato particolarmente ampio in termini di evoluzione del valore aggiunto, cresciuto a ritmi meno sostenuti che negli altri paesi europei. La dinamica delle ore lavorate è stata invece molto più simile, con una crescita molto contenuta in Italia come in altre economie europee; solo in Spagna si è registrata una forte crescita dell'input di lavoro.
La produttività del lavoro ha avuto un andamento molto diverso nelle due fasi 2003-2009 e 2009-2013. Nel periodo 2003-2009 si conferma il divario dell'Italia (-0,3%) rispetto alla produttività del lavoro registrata sia nell'Unione europea (+0,7%), sia nell'area Euro (+0,6%) e nelle principali economie europee.
Il quadro è in parte diverso nel sotto periodo 2009-2013, quando la produttività italiana è tornata ad aumentare (+1,1% medio annuo) ed il divario si è ridotto leggermente rispetto alla crescita registrata nell'Unione Europea (2,0%) e nell'area Euro (1,9%). In questa fase, l’aumento della produttività in Italia è risultato inferiore a quello di Germania e Spagna (rispettivamente +2,1% e +2,0%), vicino a quello registrato dalla Francia (+1,2%) e decisamente più elevato di quello del Regno Unito (+0,4%). In Italia la dinamica positiva è derivata da un calo del valore aggiunto inferiore rispetto a quello delle ore lavorate (rispettivamente -0,4% e -1,5%). Germania, Francia e Regno Unito hanno invece registrato una significativa crescita del valore aggiunto (rispettivamente +2,8%, +1,3% e +1,5%) che si è combinata a dinamiche più contenute dell'input di lavoro (rispettivamente +0,7%, +0,1% e +1,1%)." (ISTAT - Misure di Produttività, 02 novembre 2016)

Attenzione alla seconda parte che commenta l'andamento positivo della produttività nel periodo 2009-2013, perché è vero che è aumentata ad una media annua del 1,1% ma a seguito di un calo delle ore lavorate maggiore del calo del valore aggiunto, mentre nei tre Paesi citati in seguito (Germania, Francia e Regno Unito) la produttività è aumentata a seguito di un incremento di entrambe le variabili: valore aggiunto e ore lavorate, con la prima che è cresciuta in misura maggiore.



Produttività del Capitale
Dal grafico riepilogativo precedente "Figura 1" si nota come la produttività del capitale sia diminuita nel primo periodo mentre nel secondo sia cresciuta, però anche in questo caso non tanto per l'aumento di valore aggiunto maggiore dell'input di capitale, bensì il contrario. Infatti nel rapporto dell'ISTAT è scritto:
"Tra il 1995 e il 2015 la produttività del capitale, definita come rapporto tra il valore aggiunto e l’input di capitale, ha registrato una significativa diminuzione pari a -0,9% in media annua, risultante da un aumento dell'input di capitale (+1,5%) superiore a quello del valore aggiunto (+0,5%). Scomponendo il capitale per tipologia, l’input della componente che incorpora le tecnologie dell'informazione e della comunicazione (Information and Communication Technology - ICT) è aumentato in media d’anno del 2,4%, la componente immateriale non-ICT (che comprende la Ricerca e Sviluppo) del 3,2% e la componente di capitale materiale non-ICT del 1,2%. Di conseguenza la produttività del capitale ICT è diminuita del 1,8%, quella del capitale immateriale non-ICT del 2,6% e quella del capitale materiale non-ICT dello 0,6%.
Nel periodo 2003-2013 la produttività del capitale è diminuita in media d’anno del 1,1%. Questa dinamica è il risultato di un andamento dell'accumulazione di capitale molto diverso nelle due fasi 2003-2009 e 2009-2013. Nel primo periodo si è registrata una forte crescita dell'input di capitale (+1,7% in media d’anno) in presenza di una moderata discesa del valore aggiunto (-0,2%) che ha portato ad una marcata diminuzione della produttività del capitale (-1,8%). Nel secondo periodo, invece, il calo degli investimenti fissi lordi ha determinato una diminuzione dell'input di capitale (-0,5% in media d’anno) lievemente maggiore rispetto a quella del valore aggiunto (-0,4%) e la produttività del capitale ha segnato un piccolo incremento (+0,1%).
Nel 2014 e nel 2015 l’input di capitale ha registrato una significativa contrazione (-1,3% e -1,0%), a fronte dell'aumento del valore aggiunto (+0,2% e +0,9%): la produttività del capitale è quindi cresciuta in entrambi gli anni (+1,5% e +1,9%)."



In pratica ad un aumento nel primo periodo 2003-2009 dell'input di capitale non ha corrisposto un maggiore incremento del valore aggiunto e per questo la produttività è conseguentemente diminuita, mentre nel periodo successivo 2009-2013 si sono registrate riduzioni di entrambe le variabili, ma con entità maggiore dell'apporto di capitale rispetto al calo del valore aggiunto e per questo la produttività risulta crescente.

Merita una osservazione anche l'andamento del rapporto tra capitale e ore lavorate:


Che il documento ISTAT così commenta:
"Nel periodo 1995-2015 l’intensità del capitale, misurata come rapporto tra input di capitale e ore lavorate, è aumentata in media d’anno dell’1,3%. La dinamica del capitale per ora lavorata è stata positiva nelle due fasi 2003-2009 (+1,5%) e 2009-2013 (+1,1%). La crescita del primo periodo riflette un forte aumento dell'input di capitale (+1,7%) associata ad un lieve incremento delle ore lavorate (+0,1%), mentre l’aumento dell'intensità di capitale del 2009-2013 è dovuto all'ampio calo dell'input di lavoro (-1,5%) che ha più che compensato la diminuzione dell'input di capitale (-0,5%).
Nel 2014 l’intensità di capitale è diminuita (-1,1%), guidata dall'ulteriore diminuzione dell'input di capitale (-1,3%) che si è associato a una lieve diminuzione dell'impiego del fattore lavoro (-0,2%). 
el 2015 il calo dell'input di capitale per ora lavorata ha registrato un’accelerazione (-2,1%) per effetto del nuovo calo dell'input di capitale (-1,0%) e dell'aumento delle ore lavorate (1,1%)."

Riepilogando, dal 1995, cioè dall'inizio del periodo considerato nell'analisi dell'ISTAT, è avvenuta una discreta crescita dell'input di capitale (in media +0,5% annuo) che non ha però dato luogo ad un incremento significativo del valore aggiunto (mediamente +0,5% annuo) mentre l'impiego di lavoro ha contribuito solamente per lo 0,1%.


L'ISTAT così commenta:
"Il contributo della produttività totale dei fattori è stato invece lievemente negativo (-0,1 punti percentuali). Il contributo del capitale è dovuto principalmente alla componente materiale non-ICT (+0,4 punti percentuali contro +0,1 punti percentuali sia della componente ICT che di quella immateriale non-ICT). La diminuzione del valore aggiunto nel periodo 2003-2013 (-0,3% medio annuo) è attribuibile al combinarsi di contributi negativi del fattore lavoro (-0,4 punti percentuali) e della produttività totale dei fattori (-0,2 punti percentuali), solo parzialmente compensati da quello positivo del capitale (+0,3 punti percentuali).
Nel periodo 2003-2009 la contrazione del valore aggiunto (-0,2% in media d’anno) si è accompagnata a un apporto positivo derivante dall'impiego di lavoro e capitale (rispettivamente +0,1 e +0,6 punti percentuali), mentre la produttività totale dei fattori ha fornito un ampio contributo negativo (-0,9 punti percentuali). Nel periodo 2009-2013, invece, la contrazione del valore aggiunto (diminuito in media dello 0,4% all'anno) è spiegata dal calo dell'impiego del fattore lavoro (-1,1 punti percentuali) e, in misura assai minore, del fattore capitale (-0,1 punti percentuali), mentre la produttività totale dei fattori ha fornito un contributo positivo (+0,8 punti percentuali)."

Specificatamente per quanto riguarda il contributo del lavoro, l'ISTAT scrive nel documento:
"Nel periodo 2003-2013 l’andamento stagnante della produttività del lavoro (cresciuta dello 0,2% in media d’anno) deriva dal fatto che il contributo positivo dell'aumento dell'intensità di capitale (+0,4 punti percentuali) si è accompagnato a un contributo negativo della produttività totale dei fattori (-0,2 punti percentuali). All'interno di tale periodo la produttività del lavoro ha avuto un andamento molto diverso nelle due fasi, con una diminuzione media dello 0,3% l’anno negli anni 2003-2009 e un incremento del 1,1% negli anni 2009-2013. La contrazione della prima fase è dovuta al forte contributo negativo della produttività totale dei fattori (-0,9 punti percentuali), mentre il capitale per ora lavorata ha contribuito positivamente (+0,5 punti percentuali). La risalita del periodo 2009-2013 riflette principalmente l’inversione della dinamica della produttività totale dei fattori (+0,8 punti percentuali), a fronte di una modesta attenuazione del capital deepening (+0,3 punti percentuali)."


Serve approfondire dettagliatamente e senza preconcetti questa dinamica, dove l'apporto di capitale e secondariamente del lavoro hanno dato risultati mediocri sul valore aggiunto fino al 2003 e negativo in seguito da cui deriva una produttività negativa dal 1995 al 2009 e se da una parte dal 2009 questa è cresciuta, dall'altra questa deriva da un calo dell'impiego di capitale e lavoro maggiore del calo del valore aggiunto.


La seguente tabella fornisce una indicazione circa le dinamiche tra settori economici diversi:


Come c'era da attendersi è il settore delle costruzioni, che incide sensibilmente, che ha visto un andamento negativo e che ha influito sul dato complessivo.

La produttività è un elemento fondamentale e centrale per aumentare la competitività della nostra produzione. Da un aumento della produttività si possono incrementare i salari, oggi troppo bassi, senza incidere negativamente sul costo di prodotto. Si deve poi rendere più accessibile l'iniziativa d'impresa, favorirla, riducendo la complessità burocratica, il carico fiscale e contributivo. Favorendo l'occupazione attraverso la creazione di nuove attività e aumentando i salari si avrebbe una serie di conseguenze favorevoli a catena: una maggiore domanda interna, un aumento della base contributiva, che consentirebbe di ridurre le aliquote, e del numero di contribuenti potendo anche qui ridurre le aliquote fiscali, aliquote che andrebbero comunque rivisitate in ogni caso in quanto oggi eccessivamente penalizzanti per i redditi medio-bassi.
In alternativa si può credere che la soluzione sia quella di denigrare la concorrenza, di affermare che il loro successo derivi da ragioni poco sostenibili quanto semplicistiche, e che sia sufficiente cambiare il logo sulle banconote. Ciascuno la pensi come vuole, a me hanno insegnato che la concorrenza non va mai denigrata ma che occorre studiare e lavorare costantemente per migliorare la propria competitività. E questa passa per la produttività!

venerdì 3 febbraio 2017

Se l'Italia uscisse dall'euro, parlando di auto

Nella oramai quotidiana ed infinita discussione circa i presunti svantaggi che l'appartenenza alla moneta unica, l'euro, ci avrebbe provocato, la cui soluzione consisterebbe nel suo abbandono per tornare alla lira, i suoi sostenitori denunciano che chi non è d'accordo tenda a non voler considerare la questione del dopo e di focalizzarsi eccessivamente sull'aspetto del pericolo finanziario del durante per terrorizzare i cittadini affinché non condividano questa scelta. La tesi, se ci riflettiamo, è davvero singolare: le aziende rinuncerebbero a risollevarsi da una situazione di criticità, o nel migliore dei casi di incrementare le vendite, rifiutando questa scelta per una qualche sconosciuta motivazione.
Se fate caso, a questo confronto vengono coinvolti quasi esclusivamente politici, economisti e giornalisti. Che ci sta, ma le imprese, i manager? Perché in fondo è su di loro che ruoterebbe tutto. Se avessero ragione i fautori di tale soluzione, non sarebbero certo i politici a creare lavoro una volta che le vantaggiose conseguenze avessero effetto, o gli economisti, o i giornalisti. Sarebbero le imprese, imprese che aumentando le vendite a partire da quelle verso l'estero assumerebbero personale, il quale aumenterebbe sia il gettito fiscale che i propri consumi e di conseguenza la domanda aggregata interna, e allora le aziende assumerebbero altre persone e via così fino a raggiungere la piena occupazione!

Ma le imprese non la pensano così, anzi è dal 2012 che hanno espresso una posizione molto chiara e motivandola:


(Chi desiderasse leggere il documento, per quanto sintetico, clicchi qui)

Insomma o le aziende non sono in grado di comprendere quali vantaggi avrebbero dal seguire questa scelta o preferiscono operare in una realtà asfittica come quella in cui ci troviamo.
Oppure semplicemente hanno ragione e tale soluzione non è percorribile perché, come scritto nella analisi sintetica, molte cose sono cambiate dal secolo scorso a partire dalla fine degli anni '80 e certi meccanismi non funzionano più e optano invece per altre soluzioni, prima tra tutte la pressione fiscale che da noi si porta via due terzi del profitto lordo: 62% il Totale Tax Rate dell'Italia contro il 48,9% della Germania, 30,9% del Regno Unito, 44% degli Stati Uniti, 48,9% del Giappone, il 40,4% della Polonia e il 38,4% della Romania (dati della Banca Mondiale).
Ora spiego perché ho aggiunto gli ultimi due Paesi, Polonia e Romania.
Immaginate di avere una impresa con 50 dipendenti in produzione e che il costo annuale medio di ciascuno sia di 35.000 euro (un media bassa). Questo comporta una spesa di 1.750.000 euro l'anno per il personale. Delocalizzando l'attività in Polonia o in Romania avrete la possibilità di risparmiare annualmente rispettivamente circa 1,2 milioni e 1,4 milioni di euro. Questo stando al costo medio orario stimato da Eurostat e che ho preso dal sito dell'Istituto Federale di Statistica di Wiesbaden:


E' (purtroppo per chi non lo conosce) in tedesco perché per pigrizia - confesso - avendo disponibile questa tabella ho fatto a meno di cercarla in altra lingua, comunque in sostanza mostra il "costo del lavoro nel settore privato per ora lavorata".
Se aggiungiamo il fatto che il costo della vita e quindi anche relativo a opere edili è proporzionale, ne deriva che se in Italia per un fabbricato si dovrà spendere ad esempio 1 milione di euro, in ambedue questi Paesi il costo sarà notevolmente inferiore. Magari non un quarto o meno ma non credo di ipotizzare male se stimo un terzo. Questo significa che con 1,2÷1,4 milioni di risparmio annuo sul costo del personale avrete capacità di spendere questa cifra per un fabbricato e/o altro con un potere di acquisto 3 volte (se non di più) un corrispondente in Italia . Il resto negli anni successivi è tutto profitto.
Condiamo il tutto con il vantaggio fiscale (Total Tax Rate inferiore) ed ecco che si può comprendere come non sia sufficiente un 20, 30 o anche 40% di vantaggio conseguito una tantum sul cambio della neo valuta (la lira) per invogliare le imprese italiane a far rientrare la produzione. Trascuro l'ipotesi di dazi punitivi alla Trump perché la considero una emerita fesseria che l'attuale neo presidente USA avrà modo di verificare se deciderà di introdurli.

Ma ora desidero mostrare l'aspetto da un altro punto di vista, con l'intento di spiegare che il tema è più complesso di quello che viene rappresentato semplicisticamente da alcuni economisti pro Euroexit ed in particolare a quelli che ritengono che la Germania abbia conseguito un vantaggio proprio grazie alla moneta unica.
La prendo alla lontana, esattamente dalla Cina guardando al settore automobilistico.

Nel 2016 il mercato cinese ha visto un aumento notevole delle vetture immatricolate  superando i 28 milioni di unità (+14% rispetto al 2015). Il primo produttore è risultatato la Volkwagen con ben 3.006.408 auto immatricolate, davanti a Buick (1.229.808) e Honda (1.196.664). La FCA? Il Gruppo Fiat Chrysler Automobiles ha drasticamente ridotto le auto prodotte e vendute in Cina a marchio Fiat a beneficio dei modelli a marchio Jeep. Fiat è infatti calata ancora nel 2016 del 58,6% a sole 13.048 immatricolazioni (la fonte è questa qui).
Insomma da una parte abbiamo Volkswagen con 3 milioni di auto e dall'altra Fiat con 13.000. 

Colpa dell'euro che è sottovalutato per il made in Germany e viceversa per il made in Italy?

Assolutamente NO!

Perché i 3 milioni di auto immatricolate la Volkswagen le produce in loco attraverso la Joint Venture FAW-VW e la Shanghai Automotive Industry Corporation. La prima produce i modelli Bora, C-Trek, Golf GTI, Golfsportsvan, Jetta e altri, la seconda Lamando, Lavida, Sedan e altri.
Dati e immagini dei modelli li trovate cliccando qui.
Fiat fa lo stesso con la Joint Venture GAC-Fiat producendo i modelli Ottimo, Viaggio, Palio, Siena, Perla.
Dati e immagini dei modelli li trovate cliccando qui.

I dati dell'Istituto Federale di Statistica di Wiesbaden (l'ISTAT tedesco) ci dice che nel 2015 dalla Germania sono andate in China autoveicoli privati e commerciali (Kraftfahrzeuge e Landfahrzeuge) per un controvalore di 17.660 milioni di euro, poco più di 17 miliardi e mezzo. Se ipotizziamo un prezzo medio - per difetto - di 15 mila euro per modello (Lavida, che è la più venduta con 478.699 unità immatricolate, ha un prezzo base di 18.000 euro circa) otteniamo che ai 3 milioni di auto vendute corrisponde un volume d'affari di almeno 45 miliardi di euro!

Se ci trasferiamo dall'altra parte, negli Stati Uniti, vediamo come se da una parte le vendite di marchi tedeschi non è da primato come in Cina, dall'altra il gruppo FCA e Fiat in particolare sono anche qui molto indietro. I primi tre grandi produttori negli USA nel 2016 sono stati Chevrolet, Toyota e Honda. I tedeschi di Volkwagen sono arrivati al 13° posto con 37.229 unità immatricolate, seguiti da Mercedes-Benz (15° con 35.871 unità), BMW (16° con 32.835 unità), Audi (18° con 23.195 unità). Crysler la troviamo al 23° posto con 16.776 vetture, Fiat al 32° con 2.606 unità e Alfa Romeo al 39° con 52 unità.
Insomma Fiat è superata da marchi ben più costosi come Mercedes, BMW e Audi. Anche in questo caso una parte considerevole di vetture è prodotta o negli USA stessi o presso stabilimenti comunque nel continente (es.Messico).
I dati li trovate da questa fonte qui.
Sempre dai dati dell'Istituto Federale di Statistica tedesco si ha che nel 2015 dalla Germania sono stati prodotti e venduti negli USA veicoli per un controvalore di circa 32,4 miliardi di euro.

Ora passiamo alle considerazioni:

1) Si può ipotizzare che un abbandono dell'euro e ritorno alla lira possa influire sensibilmente su questo immenso divario? Un divario che come si può comprendere non è (solo) una questione di prezzo, ma è dovuto (anche) ad altre cause. Chi come me ha esperienza commerciale pluriennale sa bene che il prezzo è una sola delle diverse componenti che fanno il successo di un prodotto.

2) Questo esempio mostra come le vendite ed il fatturato complessivo delle aziende di una nazione non sono rappresentate dai soli dati dell'export, infatti i 3 milioni di vetture prodotte e vendute in Cina da Volkswagen non figurano (e non possono) nei dati dell'export tedesco.

3) E' conveniente per una azienda far rientrare la produzione in Italia affrontando costi maggiori di manodopera e infrastrutturali oltre a sopportare una maggiore tassazione?

Forse si replicherà trasferendoci all'interno dell'Europa e con altri prodotti, ad esempio su prodotti più tipici come quelli alimentari. Sappiamo che noi italiani facciamo ottimi salumi e formaggi ma buona parte della carne e del latte sono di importazione. Certamente un cambio che dovesse rendere più competitiva la nostra produzione farebbe diminuire l'importazione dei due prodotti ed incentivare i nostri allevamento. In parte è sicuramente così, ma attenzione che aprire e rendere conveniente un allevamento non è così facile come ipotizzarlo su carta o alla lavagna. I costi sono ingenti. Inoltre occorre tenere presente anche i limiti strutturali, nei decenni dal dopoguerra la nostra economia ha subito una profonda trasformazione con una drastica riduzione del peso del settore agricolo a favore di quello industriale il quale comunque sta subendo anch'esso da diversi anni un calo a discapito del settore dei servizi. Pensare che si possa tornare indietro anche solo in parte, ma una parte comunque rilevante, è ipotesi assai ardua. E' invece più verosimile che si possa assistere ad un limitato recupero (o incremento) della produzione autoctona e che invece si prosegua ad importare - a prezzi maggiori - gran parte del fabbisogno.

Allora che fare? Come uscire da questa difficile situazione nella quale ci troviamo? Le risposte vedremo di trovarle prossimamente. Certamente non puntando sul cambio-logo delle nostre banconote.