venerdì 28 ottobre 2016

Zalando...storia di un 'miracolo' che ha sfidato la crisi

Sembra il gerundio di un nuovo verbo.
Zalando è una nota società tedesca con sede a Berlino che commercializza articoli di abbigliamento e calzature utilizzando come unico canale di vendita Internet, in pratica una società di e-commerce.
La sua storia merita una attenzione.

Viene fondata nel 2008, proprio l'anno in cui la crisi finanziaria dagli USA si diffonde in Europa e si trasferisce all'economia, da due giovani tedeschi freschi di diploma: Robert Gentz e David Schneider, all'epoca 23enni. Amici e compagni di studi, hanno studiato entrambi presso la prestigiosa Scuola di Management privata Otto Beisheim School of Management a Coblenza.


I capitali vengono dall'attività finanziaria dei tre fratelli Samwer: Marc, Alexander e Oliver, quest'ultimo conosciuto da Gentz e Schneider proprio durante gli studi a Coblenza. Il modello di attività alla quale si sono ispirati era la società statunitense Zappos, con sede a Las Vegas nel Nevada. Zalando viene fondata come società a responsabilità limitata (GmbH), per poi passare a società per azioni (AG) nel 2013 e l'anno successivo come società europea (SE).
La crescita del volume di fatturato in questi 8 anni è stata decisamente spettacolare:


Il fatturato consolidato della Zalando SE nel 2015 è ammontato a 2.950,8 milioni di euro, ovvero a quasi 3 miliardi e la valutazione dell'azienda da parte degli analisti arriva anche a 5 miliardi. L'incremento di fatturato rispetto all'anno precedente è stato del 34%. Il numero di collaboratori era a fine 2015 di quasi 10.000, 9.987 per la precisione. Il margine lordo (EBIT - Earnings Before Interest and Taxes)  è stato, sempre nell'anno scorso, del 3% pari a 89,6 milioni di euro, un valore che potrebbe sembrare basso ma che in un settore come quello dell'e-commerce è comunque apprezzabile. In ogni caso un po' di più rispetto al 2,8% dell'anno precedente, pari a 62,1 milioni.
Zalando è presente oggi in 15 Paesi europei ed in Italia ha un centro logistico a Stradella (PV).
Si potrebbe proseguire con i numeri ma possiamo fermarci qui e trarre qualche considerazione.

1. Anche in un periodo di crisi come quello del 2008 è possibile cogliere delle opportunità, certamente anche grazie all'aiuto di un po' di buona sorte. L'importante comunque è avere l'idea e doti vincenti sfruttando strumenti che possono essere la base del successo, in questo caso la vendita on-line, ovvero l'e-commerce.

2. Zalando poteva essere fondata in qualsiasi Paese europeo, Italia inclusa, la Germania certamente ha rappresentato un vantaggio dato che l'economia si è ripresa meglio che altrove dalla crisi, ma questo elemento è secondario. Fosse stata creata in Italia con le medesime caratteristiche avrebbe quasi certamente conseguito un risultato simile.

3. Da noi l'e-commerce è ancora sottovalutato, sia in ambito nazionale che sopratutto per vendere all'estero. Ho sentito spesso personalmente in passato imprenditori non credere nell'efficacia della vendita on-line, in particolare per prodotti di abbigliamento, calzature e arredamento. Eppure gli esempi che smentiscono questa diffidenza sono oramai consolidati: da eBay ad Amazon, da Groupon ad Alibaba etc...solo per citare i più conosciuti. Ma se si visitano i siti stranieri si può verificare come sono numerose le aziende che nel sito hanno una sezione di vendita diretta.
Si stima che quest'anno in Europa il settore dell'e-commerce raggiunga i 500 miliardi di fatturato!

4. Mentre alcuni economisti vanno sostenendo che la chiusura di molti negozi dipende dalla crisi causata dalla moneta unica e vincoli vari dell'Unione Europea, non considerano ad esempio come in questo caso l'effetto della vendita via internet e che i quasi 3 miliardi di Zalando significano circa 3 miliardi di euro (almeno) in meno di fatturato per la tipologia di vendita tradizionale. Si tarda insomma a realizzare che è cambiato il canale di vendita e che questo cambiamento si sta via via sempre più imponendo. I negozi tradizionali non scompariranno, ma subiranno sicuramente un notevole ridimensionamento nel loro numero.

5. I negozi tradizionali infatti non potranno mai competere con questo canale. Guardando ad esempio alla Zalando, il fatturato per collaboratore ammonta a circa 300.000 euro, un dato praticamente irraggiungibile per un negozio che vende lo stesso genere di prodotti e questo anche per catene come ad esempio OVS, COIN o la spagnola El Corte Inglés.

In conclusione la storia di Zalando insegna che anche in momenti di crisi è possibile creare attività vincenti. Che occorre possedere le adeguate capacità per conseguirlo e che è possibile anche da parte di soggetti giovani, come i poco più di ventenni fondatori della Zalando. Certo, per contro servono capitali ed è qui che il nostro Paese dovrebbe recuperare il gap con altre realtà. Spesso infatti, giovani italiani capaci con progetti validi si recano all'estero per trovare i finanziamenti per la loro start-up e questo implica che talvolta l'attività venga realizzata all'estero con i relativi vantaggi regalati al Paese sede della stessa.
Ma soprattutto occorre comprendere ed accettare i nuovi cambiamenti e sfruttare le opportunità che le nuove tecnologie ci offrono.

domenica 16 ottobre 2016

Tasso di cambio della valuta e competitività

Quante volte si sente dire e si legge che il cambio della valuta è uno strumento che agirebbe da equilibratore negli scambi commerciali? Oppure, argomento molto attuale, che il surplus commerciale della Germania dipende da una valuta (l'euro) sottostimata per la loro economia?
Tutte affermazioni corrette, sicuramente, ma vorrei mostrare la situazione da un diverso punto di vista. Vorrei analizzare l'influenza che il cambio della valuta ha sulla competitività e se davvero questa influenza favorisce le aziende più efficienti e quindi competitive oppure il contrario.

Ipotizziamo di essere produttori di un bene, ad esempio una lavatrice, e che questa la vendiamo a 1.000 euro ciascuna. Anzi, per fare felici i sostenitori del ritorno ad una moneta nazionale, ipotizziamo che questo passo lo si sia fatto e che quindi la nostra lavatrice la vendiamo a 1.000 lire. Supponiamo poi che in Gran Bretagna un fabbricante di lavatrici ne produca una simile e che la venda a 1.000 sterline l'una. I prezzi sono più elevati della realtà ma ci serve per fare i conti più velocemente. Per finire ipotizziamo anche che il tasso di cambio iniziale lira/sterlina sia 1:1, anche qui per non complicarci la vita con i conteggi.
Se il nostro prodotto, ovvero la lavatrice made in Italy, risultasse più apprezzata dai consumatori sia italiani che inglesi (dovremmo per la precisione dire britannici), vuoi per l'aspetto estetico, l'affidabilità, le funzioni possibili e quant'altro, cosa avremmo? Avremmo che, essendo più venduta rispetto a quella britannica, questo influirebbe sul cambio. Certo, un solo prodotto nella realtà influisce ben poco, ma immaginiamo che questo rappresenti il complesso del commercio italo-britannico.
Quando un italiano acquista un prodotto straniero, importandolo, genera indirettamente una domanda di valuta del venditore, nel nostro caso di sterline e viceversa, i consumatori inglesi che acquistano la nostra lavatrice genereranno una domanda di lire perché a noi interessa essere pagati nella valuta che usiamo qui in Italia. Tralasciamo i casi di conti in valuta estera che rappresentano una marginalità.
Ne consegue che se la domanda di lire, generata dai consumatori britannici, è superiore a quella di sterline effettuata dagli acquirenti italiani di lavatrici del nostro concorrente, il cambio lira-sterlina subirà una variazione a beneficio della nostra moneta.

Immaginiamo quindi che il cambio si modifichi del 10%, quindi che 1 lira valga ora 1,10 sterline e che 1 sterlina valga quindi 0,90 lire, questo accettando un lieve margine di errore aritmetico (a 1 lira = 1,10 sterline corrisponde che 1 sterlina non è esattamente 0,90 lire, bensì 0,909090,,,).
La conseguenza è che entrambi i prodotti sul mercato estero subiranno una variazione di prezzo di vendita: la nostra lavatrice in Gran Bretagna costerà ora 1.100 sterline mentre quella loro da noi sarà venduta a 900 lire, questo a listini costanti ovviamente. L'ulteriore e presumibile conseguenza sarà che la loro, risultando da noi più economica di prima, vedrà aumentare le vendite, a scapito della nostra, e viceversa in Gran Bretagna, dove costando di più la nostra lavatrice, questa verrà penalizzata.

Bene, fin qui tutto ovvio e chiaro. Ma è a questo punto che desidero esporre meglio il mio punto di vista in maniera approfondita sull'effetto, a mio avviso controproducente, del cambio.
Ipotizziamo di riunire il nostro staff tecnico di progettazione, il marketing, il commerciale e magari pure gli acquisti, per trovare un sistema che renda la nostra lavatrice più conveniente al fine di aumentare le vendite. Tutti i nostri collaboratori si mettono instancabilmente al lavoro e dopo un certo tempo ecco che realizzano la nostra lavatrice 2.0: più evoluta e soprattutto più economica. Diciamo che questa sia venduta a 900 lire! Proprio come quella di importazione. Vediamo ora che cosa accadrà presumibilmente nei due Paesi. In Italia i consumatori si ritroveranno il nostro prodotto allo stesso prezzo di quello importato, ma con qualità decisamente maggiori, quindi le vendite aumenteranno di conseguenza. In Gran Bretagna la nostra lavatrice 2.0 sarà venduta a 990 sterline, addirittura meno di quella loro che rimarrà a 1.000 sterline. C'è da attendersi quindi un successo anche in terra britannica e questo avrà effetti sul cambio in quanto la domanda di lire sarà maggiore di quella di sterline e quindi il cambio subirà un adeguamento. Supponiamo di un altro 10% (per la precisione qualcosa meno) per arrivare a 1 lira = 1,20 sterline e quindi (con un margine anche qui piccolo di errore) 1 sterlina = 0,80 lire. Andiamo a vedere le conseguenze sui rispettivi prodotti.
La nostra lavatrice in Gran Bretagna sarà venduta ora a 1.080 sterline mentirà da noi quella britannica a 800 lire contro la nostra 2.0 a 900 lire. Il cambio anche ora avrà offerto un 'aiuto' al prodotto britannico senza che loro abbiano fatto nulla per meritarlo, mentre risulterà penalizzata ancora una volta la nostra lavatrice nonostante gli sforzi profusi dall'intero nostro staff!

È questo il punto che voglio sottolineare: gli economisti potranno anche sostenere che il cambio è strumento di normalizzazione, che rende equilibrato il commercio internazionale. Io, ragionando da imprenditore, lo considero un mistificatore della competitività tra aziende, così come evidenziato dall'esempio fatto. Chi fa poco o nulla per migliorare il proprio prodotto si trova un inaspettato, o meglio non richiesto, aiuto dal fronte dei cambi. Viceversa chi si impegna per migliorare ciò che offre ai consumatori si trova un ostacolo che penalizza, anche parzialmente, gli sforzi effettuati.
Ecco perché replico stizzito quando leggo di economisti che puntano il dito su economie che hanno la colpa di essere nel loro complesso più competitive e a detta loro la mancanza del cambio, perché condividendo la stessa moneta, sarebbe elemento distorsivo tra le economie medesime. Ogni riferimento a quella tedesca è puramente intenzionale. No, a mio modo di vedere ad essere distorsivo semmai è il cambio.
Certo, da italiano potrei vedere con favore l'effetto (o presunto tale) equilibratore del cambio, ma in realtà non è il mio caso. Io voglio competere ad armi pari e lasciare che sia la competitività a fare la differenza. Competitività che comprende tutte le funzioni: dalla scelta dei fornitori alla progettazione, dal design al marketing, dalla gestione amministrativa alla produzione, dalla logistica al commerciale. Non accetto che il mio governo intervenga a favore dei prodotti importati od ostacoli le mie esportazioni penalizzando la mia attività perché il saldo commerciale o quello delle partite correnti risulta essere in surplus oltre un livello che gli economisti considerano motivo di squilibrio. Se un sistema Paese risulta essere meno competitivo, la soluzione non è, e non deve essere, quella di frenare il più bravo, ma quella di migliorare il primo.

venerdì 7 ottobre 2016

Primi dati economici post-referendum Brexit

Oggi l'Office for National Statistics (ONS) del Regno Unito ha reso noto alcuni dati macroeconomici relativi allo scorso mese di Agosto, quindi del secondo mese post-referendum del 23 Giugno 2016 sulla permanenza o meno del Paese nell'Unione Europea. Da allora alla fine di Agosto la sterlina ha perso circa il 13% sull'euro ed il 15% sul dollaro USA (altri due punti percentuali verso ambedue le valute le ha perse alla data di ieri 06 Ottobre) come conseguenza di una vendita della valuta di Sua Maestà in vista di un calo della produzione legata alla scelta referendaria che comporterà molto probabilmente una esclusione dal mercato unico europeo. Ai critici dell'Unione Europea questo dirà poco, ma alle imprese britanniche questo rappresenta un problema in quanto significherà barriere al commercio con i Paesi UE.

Vediamo i dati che sono stati resi noti oggi.

Commercio internazionale
Il commercio di beni e servizi della bilancia dei pagamenti segna un deficit di ben 4,733 miliardi di sterline come conseguenza di esportazioni di beni e servizi per 45,107 mld di sterline e di 49,840 mld di importazioni. Rispetto al mese di Giugno, ovvero del mese del referendum, il Regno Unito ha visto un incremento del 4% delle esportazioni, che in quel mese sono state di 43,323 mld di sterline, mentre le importazioni un incremento del 1,8% da 48,975 mld. Occorre però considerare che il dato di Giugno per le importazioni ha visto un valore piuttosto elevato rispetto alla media, difatti a Luglio sono scese a 47,258 mld e quindi rispetto a questo mese il dato di Agosto segna un progresso del 5,5%.
Tornando comunque alla bilancia dei pagamenti, il saldo dei beni e servizi è peggiorato ad Agosto:


Come ho scritto nel post precedente, è presto per esultare o preoccuparsi per la scelta dei cittadini britannici di lasciare l'Unione Europea, fatto sta che questi primi segnali non sono incoraggianti. Il calo della sterlina peserà sul prezzo delle importazioni e quindi sulla bilancia commerciale se non verrà compensata da un corrispondente aumento delle esportazioni. E un calo del saldo commerciale avrà quindi conseguenze anche sul PIL, il quale potrà subire un calo anche in relazione ad una possibile riduzione della domanda interna dovuta ad un aumento dei prezzi.

Produzione industriale
La produzione industriale nel suo complesso ha registrato un calo ad Agosto dello 0,4% ed il trend dall'inizio dell'anno non è entusiasmante, come si può notare dal grafico:


Questo nonostante il settore manifatturiero ad Agosto abbia segnato +0,2% rispetto a Luglio

Commercio al dettaglio
Il settore retail segna un leggero calo ad Agosto di mezzo punto percentuale su Luglio dopo un incremento di 2 punti percentuali dello stesso Luglio rispetto a Giugno:


L'indice ad Agosto ha infatti registrato un valore di 108,1 contro i 108,6 di Luglio ed i 106,3 di Giugno.

Indice dei prezzi al consumo (CPI)
Ad Agosto l'indice è aumentato dello 0,6% rispetto a Luglio, stesso incremento di Luglio su Giugno:


Buone notizie? L'aumento dei prezzi conseguente ad un aumento dell'attività economica è normale e di per sé anche positivo, in questo caso l'inflazione funge un po' da 'termometro', cresce o diminuisce in combinazione con la produzione realizzata (PIL), ma se è legata più ad aumenti dei prezzi dovuti a fattori esogeni (esempio deprezzamento della valuta rispetto a quelle straniere con conseguente aumento del costo dei beni e servizi importati) non è certo positivo, soprattutto se questo riduce il potere di acquisto dei consumatori che non vedono aumentare i compensi dello stesso ammontare in termini nominali e quindi registrano una riduzione in  quelli reali.

Osservazioni finali
La Brexit ancora non si è formalizzata ed i dati a disposizione oggi si riferiscono ad un periodo ancora troppo breve per formulare valutazioni attendibili, ma al momento i primi segnali non sono incoraggianti e confermano le preoccupazioni che gli esperti avevano segnalato.

mercoledì 5 ottobre 2016

Regno Unito, uno sguardo allo stato del manifatturiero

Lunedì scorso sono stati diffusi i dati circa un incremento degli ordinativi nel settore manifatturiero dell'industria del Regno Unito e questa notizia ha galvanizzato coloro che propendono per una uscita del nostro Paese dalla UE, sostenendo che questi dati confermano come non solo le previsioni nefaste legate alla Brexit erano infondate, ma che addirittura stanno portando benefici e questa sarebbe la conferma.
Io sono andato a leggere gli articoli che hanno riguardato questi dati e ho selezionato questo, tratto dal prestigioso Financial Times:


Ora, io non voglio disilludere i facili entusiasmi, però mi permetto di suggerire di leggere anche il contenuto di un articolo, non solo di fermarsi al titolo. Leggendo appunto tutto quanto si può verificare che si parla in gran parte di sentiment, cioè di opinioni espresse dai purchasing managers circa il clima di fiducia da essi espresso. L'indice  Markit/CIPS PMI rilevato a Settembre, dalla cui pubblicazione si riferiscono gli articoli dei vari media, è salito a 55.4 punti da 53.4 del mese precedente. Un indice che è in crescita costante, tranne un calo provvisorio a Luglio, dallo scorso mese di Aprile, mese in cui ha toccato il valore più basso, probabilmente a causa delle incertezze legate al noto referendum britannico sull'uscita o meno dalla Unione Europea.
Se osserviamo l'andamento nel lungo termine possiamo verificare che sebbene gli ultimi dati siano soddisfacenti, segno di una crescita interessante, dall'altra si tratta più di un recupero del calo che si registrava dal 2014:


Certamente una buona notizia, ma interpretare questi dati come conseguenza positiva del risultato referendario dal quale i britannici hanno espresso a leggera maggioranza il desiderio di lasciare l'Unione Europea, mi sembra un po' eccessivo. Qualsiasi conseguenza di tale decisione infatti lo si potrà valutare solo nel medio termine (2-3 anni), non certo pochi mesi dopo. E non bisogna trascurare che la Brexit è al momento solo ufficiosa in quanto il governo di Sua Maestà deve ancora presentare la richiesta ufficiale, richiesta che stando alle ultime dichiarazioni del Primo Ministro Theresa May dovrebbe essere presentata entro Aprile 2017.

Il peso del settore manifatturiero nell'economia del Regno Unito
Se da una parte è positivo che il settore manifatturiero sia in sensibile crescita, dall'altra occorre tenere presente che tale settore ha una incidenza relativamente bassa nell'economia del Regno Unito. Al momento infatti conta circa il 9,6% del totale contro il 15,8% del 1990 (fonte CBI - Confederation of British Industry). In Italia siamo oggi attorno al 15%. A proposito di Italia, lo stesso indice Markit/CIPS PMI, riferito sempre al settore manifatturiero, segna un leggero aumento: da 49.8 di Agosto a 51.0 punti di Settembre:


Tornando al rapporto sul manifatturiero britannico, si legge che si registrano incrementi dei beni di consumo, con l'incremento più elevato da un anno e mezzo, di quello dei beni intermedi e anche dei beni d'investimento. Sono aumentati sia la produzione che gli ordinativi e questo sia sul mercato interno che dall'estero, sollecitati questi ultimi sicuramente dal calo della sterlina. Il rapporto aggiunge che i maggiori incrementi dall'estero provengono un po' dappertutto: Asia, Europa e Stati Uniti.

Sul fronte occupazionale si registra un incremento per il secondo mese consecutivo che recupera così parte del calo segnato nella prima parte dell'anno.
Ma un aumento lo si registra anche sui prezzi di acquisto, il cui indice è riportato nel seguente grafico:


Questo inciderà sicuramente sui prezzi e quindi anche sulla crescita, rallentandola.

Commento
Sicuramente i dati sono da leggersi come positivi e che sottolineano un trend positivo, ma personalmente non mi sentirei di legarli alla recente decisione di lasciare la UE, se non come un parziale allentamento delle preoccupazioni che avevano caratterizzato il periodo precedente, di conseguenza al momento si sta assistendo più ad un recupero che ad una crescita vera e propria.
Questo è riscontrabile anche da un'altra variabile: l'indice di utilizzazione della capacità produttiva, che nel terzo trimestre ha raggiunto l'81,1% dal 81,5% dello stesso trimestre del 2015.
Buone notizie insomma, ma un po' presto per essere euforici e per scongiurare le ripercussioni negative previste a seguito della prossima uscita del Regno Unito dall'Unione Europea, che al momento rimangono confermate anche se ridimensionate.