lunedì 31 marzo 2014

Perchè non usciremo mai dall'euro...unilateralmente

Se scrivo qualche semplice articolo sul tema dell'euro e di una sua (im)possibile uscita è solo per discutere la questione a livello 'accademico', pour parler, come si fa di argomenti più o meno seri al bar con amici, perchè seriamente parlando quantomeno l'Italia non uscirà mai di propria iniziativa dalla moneta unica e questo per molti motivi. Vediamo i principali.

Supponiamo che alle prossime elezioni europee vi sia una netta affermazione di quei partiti che propongono un ritorno ad una moneta nazionale e che a seguito di questo esito e di eventuali crisi politiche l'attuale governo cada e si vada alle urne facendo vincere ancora chi desidera abbandonare l'euro.
Il Presidente della Repubblica incaricherà quindi una persona di formare il nuovo governo che, non appena insediato, proverà a mettere in atto la promessa elettorale, ma non prima di aver sentito i pareri delle varie rappresentanze del mondo economico e sociale, cioè le rappresentanze sindacali dei lavoratori, quelle imprenditoriali, l'ABI, tecnici dei ministeri, la Banca d'Italia etc...

A quel punto mi sarà difficile credere che queste possano trovarsi favorevoli con questa scelta visto che oggi lo dicono più o meno chiaramente che una eventuale uscita avrebbe delle conseguenze negative o quantomeno imprevedibili e dagli esiti incerti.

Confindustria sicuramente non potrà appoggiare una decisione simile per il fatto che molte grandi e medie aziende ad esempio emettono obbligazioni per raccogliere sul mercato finanziamenti per effettuare investimenti, obbligazioni in euro o altra valuta che devono essere rimborsate nella medesima valuta. Sarebbe quindi un danno non di poco conto se si adottasse una valuta soggetta a svalutarsi rispetto a quella di emissione dell'obbligazione, si dovrebbe pagare alla scadenza un capitale maggiorato.



Un altro aspetto che non piacerebbe alle imprese riguarda la situazione di incertezza a seguito di una simile decisione che bloccherebbe tutti gli investimenti, o quantomeno gran parte, perchè alle imprese servono prospettive sicure e un clima di fiducia per decidere di investire. Si andrebbe quindi incontro ad una situazione di attesa che di certo non farebbe ripartire l'economia come i fautori dell'uscita dall'euro professano.

Banche - Anche per gli istituti di credito e per lo stesso motivo delle imprese non sarebbero favorevoli a lasciare l'euro. Anche le banche infatti emettono obbligazioni e inoltre si prestano denaro a vicenda per la propria attività, denaro che deve essere restituito nella stessa valuta originale pertanto adottare una moneta destinata a svalutarsi implicherebbe un aggravio delle passività.

Banca d'Italia - Credo che anche la nostra banca centrale storcerà il naso di fronte ad una scelta populista come il ritorno alla lira o comunque ad una nostra valuta, specialmente quando nel suo bilancio registra linee di credito da altre banche centrali e dalla BCE per centinaia di miliardi di euro, che in caso di adozione di una nuova moneta saranno da restituire sempre in euro. Nel bilancio 2012 questa voce ammontava a poco meno di 254 miliardi di euro (16% del Pil):




Ministero del Tesoro - Non sono in grado di sapere quale opinione potranno dare i tecnici del ministero dal quale dipende la gestione del nostro debito pubblico e la relativa collocazione sul mercato dei titoli di Stato, ma la mia personale opinione è che non sarà favorevole in quanto faranno presente con ogni probabilità la prevedibile diffidenza da parte degli investitori ad acquistare titoli con un rendimento insufficente a coprire la prevista svalutazione della nostra nuova moneta rispetto a quella di emissione.
Se si decidesse di lasciare l'euro occorrerebbero mesi prima di poter essere in grado di emettere titoli nella nuova valuta (es.lire) e nel frattempo si sarebbe costretti a farlo sempre in euro. Ora, chi acquisterà mai un titolo qualsiasi che renda ad esempio il 3, 4 o anche 6% annuo con la prospettiva di vedersi rimborsare un 20 o 30% (o anche più) in meno a seguito della svalutazione della nuova moneta con cui verrà rimborsato il titolo rispetto a quella originale di emissione (euro)?

Esempio: il giorno dopo l'annuncio di uscita dall'euro il Tesoro colloca un BTP del valore nominale di 100 euro al prezzo minimo di aggiudicazione pari a 97 euro e una cedola del 4%. A prescindere dalla durata di questo BTP sicuramente il rendimento totale sarà inferiore ad una semplice svalutazione della lira anche solo del 20% (secondo le previsioni più ottimistiche) rispetto all'euro. Infatti dopo aver adottato una nuova moneta i titoli di Stato con ogni probabilità saranno tutti convertiti in questa, ergo chi compra paga in euro e si vede restituire lire (svalutate).
Per evitare così grosse quantità di invenduto al Tesoro non rimarrà che garantire gli investitori che i titoli emessi nel periodo transitorio verranno ripagati nella medesima valuta di emissione non esercitando quindi il diritto della lex monetae. Questo comporterà però un onere maggiore in quanto aumenterà l'importo capitale da restituire e quindi il debito pubblico.

Sindacati - Nonostante siano meno coinvolti direttamente i sindacati dei lavoratori, dopo aver ascoltato le preoccupazioni espresse dalle organizzazioni delle imprese, non avrebbero motivo di appoggiare una scelta di uscita dall'euro, visto che da questa potrebbero derivare gravi conseguenze al mondo del lavoro.

Insomma una cosa è ascoltare sui social network i commenti di comuni cittadini spesso non competenti a sufficienza di questioni così complesse, compreso quella del sottoscritto, e fare propaganda elettorale per catturare qualche voto in più illudendo la gente, ma un'altra è invece quella autorevole delle categorie sopra citate assumendosi eventualmente la responsabilità di una scelta che potrebbe causare gravi conseguenze al Paese.
Non potrebbero certo difendersi dicendo "lo suggerivano alcuni premi Nobel (per l'economia)". Anche perchè non è così, almeno per l'Italia.

mercoledì 26 marzo 2014

Cos'è e come funziona il fondo salva-stati ESM

Nel 2008 come sappiamo è arrivata una tempesta finanziaria che poi ha provocato una crisi economica dalla quale stiamo ancora cercando a fatica di uscirne. Alcuni Paesi come Irlanda, Grecia, Portogallo, Cipro, Romania, Ungheria, Lettonia e Spagna sono stati coinvolti a tal punto che si è reso necessario l'aiuto esterno per evitare il collasso dell'intera economia.
L'Unione Europea decise di intervenire attraverso la costituzione di fondi cosiddetti salvastati per raccogliere denaro e prestarli a chi oramai non riusciva a ottenerli sui mercati a tassi accettabili.

Si è iniziato con il EFSM (European Financial Stabilisation Mechanism), poi per la zona euro si è attivato il EFSF (European Financial Stability Facility) e recentemente il ESM (European Stability Mechanism) che sostituisce il EFSF, il quale sarà operativo fino a quando i Paesi che hanno ottenuto aiuti attraverso esso (Irlanda, Portogallo e Grecia) non avranno restituito l'ultima rata (2051).
Il fondo ESM è stato attivato il 08/10/2012, ha carattere permanente e ha l'obiettivo di intervenire in aiuto a quei Paesi dell'area euro che dovessero trovarsi in difficoltà a reperire sui mercati denaro a tassi sostenibili.
Attorno ad esso sono giunte da più parti forti critiche ed è presente molta disinformazione, soprattutto per come è organizzato.

Senza fare discorsi troppo tecnici ed essere quindi semplici nell'illustrare le sue caratteristiche si può dire che lo si può considerare come una grossa società finanziaria. Come tutte le società deve quindi possedere un capitale. Ebbene, si è deciso che questo capitale fosse in termini nominali pari a 700 miliardi di euro, poi con il recente ingresso della Lettonia è stato portato a 701,9 miliardi di euro. Questo capitale è nominale perchè solo sottoscritto, cioè i 17 Paesi, ora 18 con la Lettonia, si sono impegnati a versare ciascuno la propria quota nel caso ce ne fosse bisogno e per capire il significato passiamo a spiegare il suo funzionamento.

Come scritto precedentemente bisogna immaginare questo fondo come fosse una qualsiasi società finanziaria a cui occorre assegnare un capitale iniziale di funzionamento 'reale',ovvero versato, per darle modo di operare normalmente sui mercati emettendo obbligazioni garantite dal fondo ESM stesso e secondariamente dalle nazioni dell'area euro.
Questo capitale, il cui ammontare è oggi di 80,2 miliardi di euro, è da versarsi in 5 tranche da 16 miliardi ciascuna dove le prime quattro sono state già pagate e l'ultima è da farsi entro la fine di Aprile 2014.
In ogni caso il fondo ESM ha già iniziato ad operare emettendo obbligazioni con le quali ha raccolto denaro da investitori istituzionali e li ha utilizzati a favore di prestiti concessi a Cipro (9 miliardi) e Spagna (41,3 miliardi).

Questo quindi è già il primo punto da tenere bene a mente: il capitale versato da ciascuno Stato membro non viene utilizzato per essere prestato a favore di quei Paesi in difficoltà, ma è quello raccolto sul mercato emettendo appunto obbligazioni.
Lo Stato o gli Stati beneficiari provvederanno a restituire il prestito e solo nel caso dovessero diventare insolventi e il fondo non avesse le risorse sufficienti a restituire il debito ai creditori sarebbero chiamati in causa i Paesi membri in ragione della loro quota di competenza:



Perchè usare questa formula del fondo e non prestare direttamente il denaro? Semplicemente perchè costa meno in quanto il denaro viene raccolto sul mercato e grazie alla fidejussione di tutti i Paesi dell'eurozona è possibile ottenerlo a costi (tassi di interesse) decisamente bassi.
Il trattato prevede che nonostante il capitale sottoscritto sia di 701,9 miliardi,l'importo massimo che è possibile concedere in prestito è pari a 500 miliardi. La differenza è necessaria per garantire ulteriormente i creditori.

Pertanto le voci che vogliono tutti 701,9 miliardi (125,40 mld per l'Italia) da versare sono false, al momento sono previsti solo questi 80,2 mld (14,33 mld per l'Italia). Il resto sarà richiesto solo all'occorrenza, ovvero in caso di insolvenza da parte di un Paese debitore oppure nel caso sia necessario aumentare la disponibilità di capitale a fronte di un rapporto capitale/passività (prestiti concessi) troppo basso.

Ma chi decide di concedere un prestito e/o di richiedere ai Paesi membri di versare altro capitale sottoscritto? Contrariamente a voci prive di fondamento non sono degli sconosciuti burocrati a farlo.
Il fondo ha due Consigli che lo governano e lo amministrano:

  • Il Consiglio dei Governatori (Board of Governors), costituito dai ministri delle finanze dei Paesi membri.
  • Il Consiglio dei Direttori (Board of Directors) che sono dei tecnici nominati dai governatori in ragione di uno per ogni Stato membro.
Per l'Italia abbiamo quindi il ministro Padoan che svolge il ruolo di Governatore in rappresentanza dell'Italia e Vincenzo La Via quella di Direttore, il quale è anche il Direttore Generale del Tesoro presso il Ministero dell'Economia e delle Finanze.

Le decisioni sia del Consiglio dei Governatori che di quello dei Direttori devono essere prese all'unanimità, a maggioranza del 80% oppure dei 2/3 a seconda di quanto contemplato.
Se un Paese si trovasse nelle condizioni di dover chiedere aiuto, deve presentare richiesta al Presidente del ESM e quindi al Consiglio dei Governatori. Poi la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea ed eventualmente il Fondo Monetario Internazionale vagliano la richiesta, le condizioni del richiedente e formulano un memorandum di intesa che se condiviso viene quindi approvato e passato al Consiglio dei Direttori che deve approvare la parte esecutiva e dare il via agli aiuti . Insomma il nostro Paese, così come tutti quelli membri, non sono esclusi da ogni decisione ma al contrario hanno eguale voce in capitolo.

domenica 23 marzo 2014

Chi crea lavoro?

Alcuni di coloro che hanno letto il mio precedente articolo "Come creare lavoro" mi hanno inviato commenti con i quali esprimevano riserve circa il punto di vista espresso con il quale sostenevo (e sostengo) che il lavoro non lo creano le imprese bensì i consumatori.

Comprendo e in parte condivido le argomentazioni di chi afferma che i posti di lavoro vengono 'creati' dalle varie attività, produttive o commerciali che siano, dagli investimenti che esse effettuano per ricercare nuovi prodotti per realizzare nuove versioni (intesi come prodotti già presenti sul mercato ma innovativi dal punto di vista estetico tecnologico).
Quando ad esempio fu inventata l'automobile si creò una certa quantità di nuovi posti di lavoro che con ogni probabilità vennero sottratti all'agricoltura, settore prevalente all'epoca. Inizialmente non furono molti a potersi permettere una automobile dato il costo e questo per molti anni a venire. Solo dopo il secondo conflitto mondiale e la ricostruzione post-bellica divenne pian piano un bene di massa tanto che oggi la media in Italia è di 3 autovetture ogni 5 abitanti.

Quindi se da una parte l'invenzione del motore a scoppio e quindi dell'automobile ha creato posti di lavoro dall'altra è l'aumento della domanda a seguito dell'aumento delle condizioni economiche delle famiglie che ha determinato le basi per la creazione di molti altri posti di lavoro.
Si potrebbe quindi affermare che le imprese creano posti di lavoro e che i consumi ne determinano la quantità.
Personalmente rimango dell'opinione che i posti di lavoro comunque non sono creati dalle imprese, perchè un posto nuovo significa uno in meno da un'altra parte. Ma è un concetto che meriterebbe una trattazione più ampia e completa.
 
Il mio intento vorrebbe essere però quello di guardare il contesto da un punto di vista differente. Per me la questione fondamentale è che occorre innanzitutto concentrare l'attenzione sulla domanda, il resto poi viene dopo anche se non per questo è meno importante. In fondo l'economia moderna da un certo punto di vista non è diversa da quella più semplice del passato che vedeva chi offriva i propri prodotti riunirsi nelle piazze, nei mercati cittadini mettendo a disposizione la propria merce sulle bancarelle. Dalle bancarelle si è passati ai negozi, ai centri commerciali e nei tempi più recenti attraverso internet anche a quelli virtuali. I prodotti oggi sono molti di più rispetto al passato ma in fondo il presupposto per vendere è sempre quello: avere un adeguato numero di potenziali consumatori.
Se un commerciante ambulante si trova in un dato giorno in una piazza in cui sono presenti un centinaio di persone potrà aspirare di vendere qualche unità della propria merce o al massimo qualche decina di essa. E in questo caso potrebbe operare da solo. Ma se si trovasse in mezzo a qualche centinaio di persone le sue aspettative sarebbero ben maggiori e facilmente avrebbe necessità di un aiuto. Più potenziali acquirenti visitano il proprio negozio e più possibilità di vendita si hanno. Sembrano discorsi scontati, quasi banali, eppure a guardare le misure che spesso si intraprendono per rilanciare l'economia sembra non essere così.

I posti di lavoro non si creano perchè c'è uno sconto contributivo nei confronti di nuove assunzioni, per via di incentivi alla rottamazione o comunque per l'acquisto di particolari categorie di prodotti. Il lavoro si crea perchè si ha un aumento stabile della domanda aggregata e questo lo si ottiene necessariamente attraverso una adeguata politica fiscale dove chi guadagna di più deve contribuire maggiormente alla spesa pubblica attraverso una progressività delle aliquote fiscali. Permettere ad esempio a chi guadagna meno di potersi curare significa, economicamente parlando, avere più medici, più medici significa più posti di lavoro e più posti di lavoro significa più potenziali consumatori. E'importante costruire uno Stato Sociale, uno Stato che non deve fare l'imprenditore, ma solo garantire ai cittadini servizi (istruzione, sanità, difesa) e sostegno sociale in particolari casi.

Per quanto siano comprensibili le ragioni che spingono una azienda a delocalizzare per ridurre i costi, occorre però che queste abbiano presente che licenziando i lavoratori significa ridurre il numero di potenziali consumatori nel proprio Paese. Numero che può essere ristabilito solo se il sistema nel suo complesso è in grado di reintegrarli altrove, ma è alquanto difficile che questo si verifichi se l'entità delle delocalizzazioni raggiunge livelli considerevoli.

Henry Ford diceva che i suoi lavoratori dovevano guadagnare abbastanza per potersi permettere di acquistare uno dei suoi modelli di automobili, così nel 1914 aumentò la paga giornaliera da 2,25 $ a 5,00 $. A quell'epoca il modello T della Ford costava 500,00 $, considerando che si lavorava 250 giorni all'anno ne consegue che ciascun lavoratore avrebbe guadagnato nello stesso arco di tempo 1.375,00 $ aggiuntivi, più che sufficienti quindi per potersi permettere l'acquisto di una sua automobile.




Ora un qualsiasi commercialista o contabile (senza offesa) potrebbe rilevare che finanziariamente Ford commise una 'imprudenza', visto che questa operazione al meglio poteva fargli perdere 2,6 milioni di dollari l'anno nel caso tutti 14.000 lavoratori avessero acquistato un modello T (2,75 x 250 x 14.000 - 14.000 x 500), ma il motivo di questa decisione è da ricercare anche in altri fattori. La Ford aveva all'epoca un turnover di personale pari a 52.000 lavoratori all'anno, cioè 3,7 volte quelli necessari. Questo comportava notevoli costi di formazione e quindi aumentando la paga in misura tale che fosse la migliore rispetto ai concorrenti disincentivò i licenziamenti, aumentò il livello di fedeltà, di competenza, di rendimento e questo portò benefici che andarono oltre i 2,6 milioni di dollari.

Oggi abbiamo esempi di aziende che perseguono la politica opposta di riduzione progressiva dei salari, aumento del turnover con la conseguenza di costi continui da sostenere per la loro formazione, un basso livello di competenza e di impegno che porta inevitabilmente ad un basso indice di produttività. Un po' quello che avviene negli stabilimenti situati in alcuni Paesi a basso costo della manodopera, dove la produttività è decisamente inferiore a quella ottenuta prima. Sicuramente le imprese lo sanno e per loro rimane comunque conveniente. Il problema però si presenta in seguito quando si rendono conto che portando la merce in patria la domanda non è più quella di una volta.

E' importante cambiare prospettiva, rendersi conto che una economia è sana e si creano posti di lavoro solo se si ha una domanda solida e consistente. La Storia ci insegna che il benessere le economie più avanzate lo hanno raggiunto solo di recente, quando è avvenuta una migliore distribuzione della ricchezza, ergo quando la domanda aggregata è cresciuta. E oggi la crisi, la perdita di posti di lavoro, la chiusura di molte attività, è dovuto al suo calo.

sabato 22 marzo 2014

Euro SI, euro NO

E' conveniente uscire dalla moneta unica? E' preferibile invece rimanervi? Per me è come domandare se è preferibile vivere da soli o in coppia. Se con la persona con cui si intende convivere c'è sintonia, si condividono gran parte degli interessi, c'è intesa e reciproco rispetto (al di là di normali litigi e incomprensioni non importanti) è sicuramente la soluzione preferibile. Ma se al contrario vi sono numerosi dissensi, intolleranza e personalità troppo differenti allora è chiaro che è meglio stare soli.

Per quanto una relazione tra Stati sia differente rispetto a quello tra due persone rimane comunque un punto in comune, se tra di essi c'è interesse a costruire una comunità basata su una certa omogeneità di valori, di interessi e in questo caso legislativa e fiscale, si hanno certamente dei vantaggi, ma se prevalgono le differenze culturali, il sospetto, gli egoismi e la diffidenza allora è bene che ciascuno prosegua indipendentemente.

Detto questo l'Unione Europea, nata prima come Comunità Europea nel lontano 1957, nonostante i passi avanti compiuti da allora ad oggi verso un processo di piena integrazione, è ancora lontana dal raggiungere l'obiettivo di intenti iniziale. I cittadini europei non sentono ancora quei vantaggi che erano stati prospettati a suo tempo, non conoscono appieno la sua struttura organizzativa, le sue istituzioni, le funzioni, e spesso vengono disinformati sia dagli organi di (dis)informazione e sia da molti politici nazionali i quali cercano di scaricare sull'Europa responsabilità che sono invece proprie.
Con la crisi economica è andata aumentando la diffidenza verso le istituzioni comunitarie, accusate di curare gli interessi di presunti gruppi di potere e non del benessere dei cittadini.

Purtroppo alcune recenti decisioni e prese di posizione adottate in sede europea, in particolare a seguito della crisi del 2008, non fanno altro che alimentare queste accuse. Va però detto che le decisioni più importanti e criticate non sono state prese dalle istituzioni europee in senso stretto, ovvero dalla Commissione Europea o dal Parlamento Europeo, ma dal Consiglio Europeo quindi dai rispettivi capi di Stato e di Governo dei Paesi aderenti.

Ad essere messa maggiormente in discussione oggi è la moneta unica, l'euro, accusata di essere alla base della crisi del sistema economico in molti Paesi. Ma è davvero così?
Per quanto la sua introduzione sia stata avventata, in quanto doveva essere anticipata da una maggiore integrazione politica e fiscale, l'euro rimane comunque una moneta, ovvero una unità di conto che mette a confronto sullo stesso piano diversi livelli di competitività senza la possibilità di affidarsi al cambio per compensare eventuali deficit. Il cambio tra due valute permette infatti di riequilibrare temporaneamente diverse dinamiche tra i Paesi mentre quando questi condividono un'unica moneta è necessario che non vi siano diversità nella politica fiscale per permettere alle aziende di competere alla pari e dove la differenza la fa l'efficienza.

Svalutare una valuta, oppure un suo deprezzamento, può rendere più competitive le merci ma al tempo stesso più onerose le importazioni, soprattutto quelle relative alle materie prime delle quali nel nostro caso non se ne può fare a meno. I benefici sono poi limitati nel tempo, per questo motivo è una non soluzione. Le soluzioni durature sono quelle strutturali.
Altro aspetto negativo di una eccessiva frequenza di svalutazioni riguarda i tassi di interesse più onerosi sui prestiti in denaro perchè chi investe dall'estero vuole che il rendimento tenga conto del fattore cambio. Chi investe dal proprio Paese vuole invece che tenga conto del tasso di inflazione per non perdere potere di acquisto e in un Paese che non ha mai considerato culturalmente l'aumento dei prezzi come un importante fattore negativo per l'economia non è difficile supporre che in caso di ritorno ad una moneta nazionale si assista ad un rialzo dei prezzi considerevole.

L'euro ed i vincoli di bilancio concordati per entrare a farne parte hanno dato enormi vantaggi che non siamo stati capaci di sfruttare in pieno. Primi tra tutti il calo dell'inflazione e una moneta stabile che favorisce gli investimenti, fattori che si sono riflessi sui tassi di interesse riducendoli progressivamente, sia quelli sul debito pubblico sia quelli per i prestiti privati:




 
Anche sul fronte dell'occupazione il periodo che ha preceduto l'adozione dell'euro ha mostrato un calo del tasso di disoccupazione, tasso che contrariamente a quanto alcuni ritengono è sempre stato alto quando avevamo la lira:






Questo indice di recente è salito più per colpa di una crisi che ha altre cause rispetto alla moneta, cause che se non rimosse non si risolveranno la questione del lavoro e della crescita.
L'euro non ha infatti alcuna responsabilità in quanto il problema riguarda la scarsa domanda interna, non quella estera che nel tempo è sempre cresciuta tanto che l'Italia registra un tasso di incremento delle esportazioni secondo solo alla Germania:


Occorre quindi analizzare e rimuovere le vere cause che hanno portato questo calo dei consumi interni se si vuole tornate a crescere e le imprese lo hanno ribadito in numerose occasioni quello che è il loro punto di vista:

  • Riduzione della pressione fiscale
  • Semplificazione della burocrazia
  • Riduzione dei tempi della Giustizia civile
  • Più efficienza nei servizi pubblici
  • Miglioramento delle vie di comunicazione (soprattutto nel meridione)
In tutto questo l'euro, inteso come moneta troppo forte sul mercato, viene dopo. Certamente sarebbe auspicabile avere una valuta deprezzata di un 20÷30% rispetto alla quotazione odierna sulle altre valute ed in particolare sul dollaro per aumentare la competitività dei nostri prodotti, ma questo non rappresenta l'ostacolo principale che rimane fondamentalmente il basso margine di profitto. Aumentare le vendite grazie ad un calo del tasso di cambio non risolverebbe questo problema, aumenterebbe temporaneamente le vendite ma non darebbe alle imprese quella capacità competitiva per confrontarsi adeguatamente con quelle straniere che contano su una tassazione minore e costi legati all'apparato burocratico decisamentre inferiori, dove per burocrazia non si intende semplicemente apporre 15 firme anzichè una, ma una serie di adempimenti che comportano costi e tempi. Non poter disporre di un margine adeguato comporta infatti deficit competitivi notevoli in quanto le imprese non hanno a disposizione le stesse possibilità di investimento (come anche di retribuire adeguatamente i lavoratori) dei concorrenti stranieri.

Il Prodotto Interno Lordo pro capite italiano (1) ha subito un rallentamento della crescita a decorrere dall'adozione dell'euro, ma la causa non è questa, bensì il calo progressivo dei consumi (2) derivante dall'aumento della pressione fiscale (3) a sua volta dovuta all'aumento della spesa pubblica (4):

 








Possiamo sicuramente decidere di lasciare l'euro per tornare ad una moneta nazionale, ma pensare che questa via da sola risollevi l'economia, riduca la pressione fiscale, aumenti i redditi e i consumi, ridia slancio alle nostre imprese, è assolutamente deleterio e significherebbe non aver capito le cause della difficoltà della nostra economia. La moneta poi non è una macchina del tempo, tornare alla lira non significa fare un balzo indietro di venti o trent'anni. Questo per rispondere a chi ritiene possibile tornare all'epoca in cui il Paese cresceva a ritmi soddisfacenti semplicemente cambiando politica monetaria, sebbene non fosse all'epoca tutto rose e fiori.

Le cause della nostra perdita di competitività vanno ricercate anche nella mancata comprensione della sfida che la globalizzazione del mercato ci ha riservato dopo il crollo ideologico ben rappresentato da quello del Muro di Berlino e l'affacciarsi di Paesi prima assenti o pressochè tali come Cina, Brasile e Turchia oltre a quelli legati all'ex COMECON.
Una sfida che ha indotto molte imprese a delocalizzare, soprattutto per quelle attività legate a produzioni dall'alto contenuto di manodopera e dal basso valore aggiunto, attirate dai bassi costi del lavoro, dalla bassa pressione fiscale (talvolta anche da incentivi fiscali) e dalla burocrazia semplice. Quelle tra queste che hanno mantenuto la produzione in Italia hanno subito sempre più la competizione di concorrenti che possono contare su costi decisamente inferiori.

Uno degli errori più grossi e ahimè diffuso oggi è quello di confrontare le produzioni italiane con quelle realizzate nei maggiori Paesi OCSE: USA, Giappone, Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna. Questo è dal mio punto di vista sbagliato in quanto le nostre aziende si difendono più che egregiamente contro questi competitors, mentre sono le produzioni realizzate nei Paesi emergenti (es.BRICS, Europa orientale) a metterle in seria difficoltà, in particolare per prodotti di bassa qualità dove il fattore determinante è il prezzo.

 



Tornare ad una nostra moneta nazionale non permetterebbe alle nostre aziende di competere con produzioni realizzate in Paesi dai costi dei fattori notevolmente inferiori. Dobbiamo puntare invece sulla ricerca, sull'innovazione, sulla qualità, contando su un fattore che abbiamo sempre dimostrato di possedere più di altri: la creatività.

Poi sicuramente l'Europa deve fare anch'essa la sua parte, ovvero gli Stati devono spingere verso una maggiore integrazione politica, prendere in considerazione maggiormente il tema della crescita e quello dell'occupazione e non solo quello del bilancio pubblico, sebbene rimanga anch'esso un obiettivo importante perchè comporta comunque costi sulla collettività in termini di interessi da pagare, cioè costi che sottraggono a famiglie e imprese capacità di spesa e di investimento.


domenica 9 marzo 2014

Come creare lavoro


Chi crea lavoro? La maggior parte risponderebbe che sono le imprese, ma non è così. Le imprese domandano lavoro mentre i lavoratori offrono lavoro. Questa è la definizione formale in economia che è opposta al gergo comune che vuole le imprese offrire lavoro e i lavoratori rappresentare la domanda.

Chiarito formalmente questo aspetto chi allora crea lavoro? Semplice: i consumatori! Sono loro che attraverso i loro acquisti aumentano o diminuiscono il volume di produzione da parte delle imprese e, in caso di aumento, di richiesta di lavoro.
Sembra una affermazione scontata, banale, ma poi nei fatti non lo è visto che spesso i provvedimenti che si prendono o si intendono prendere per creare posti di lavoro non seguono questa logica alquanto elementare.
Nessuna azienda assumerà un solo collaboratore se non ne ha necessità e quindi gli incentivi offerti dallo Stato alle imprese per le assunzioni servono a poco, semmai sono utili per permettere ad azienda e lavoratore di stipulare un contratto 'migliorativo' rispetto a quelli usuali, ad esempio a tempo indeterminato anzichè determinato oppure per dare priorità ad alcune categorie (es.giovani, donne).

Facciamo ora un esempio. Sopponiamo di avere un centro commerciale che offra tutti i generi di cui un consumatore ha bisogno (alimentari, abbigliamento, accessori per la casa etc...) e che noi si abbia 1.000 € di reddito mensile disponibile per gli acquisti. Ipotizziamo che li si faccia solamente presso quel centro commerciale la cui proprietà sia unica e la cui ragione sociale sia "Megastore Spa". Il fatturato della Megastore Spa con noi sarà quindi di 1.000 euro mensili cadauno e di questi, 820 euro circa sono l'imponibile (o fatturato netto) e 180 € invece sono l'Imposta sul Valore Aggiunto (attualmente al 22%). Fermiamoci qui senza prendere in considerazione le imposte sui profitti e altri costi perchè non necessari per questa trattazione.
Se lo Stato aumentasse ad esempio l'IVA i prodotti costerebbero di più e se noi avessimo sempre 1.000 euro da spendere mensilmente non faremmo altro che acquistare meno prodotti. La Megastore Spa fatturerebbe sempre 1.000 € da ciascuno di noi, ma dovrebbe versare allo Stato un importo maggiore di imposta sul valore aggiunto e avrebbe un fatturato netto inferiore con il quale coprire buona parte dei costi. E' presumibile che licenzierà qualche lavoratore sia per il calo di lavoro (meno prodotti venduti) che per quello della redditività.

Se viceversa l'IVA diminuisse, aumenterebbe l'imponibile accrescendo così anche il margine di contribuzione nonostante il fatturato del centro commerciale con noi sarebbe sempre di 1.000 euro, con i quali potremmo, a differenza del caso precedente, acquistare però più prodotti. E' così ipotizzabile che aumentando il numero di prodotti venduti la direzione del centro provvederà ad assumere del personale.

Se poi ipotizzassimo di vederci aumentare il reddito complessivo e di conseguenza quello disponibile per gli acquisti, di un ammontare pari a quello conseguente alla diminuzione di un punto percentuale di IVA, l'effetto sarebbe simile al caso precedente ma più efficace. Questo perchè nel caso di semplice riduzione dell'IVA lo Stato si vedrebbe ricevere un gettito minore, mentre nella seconda ipotesi all'aumentasse del reddito disponibile aumenterebbe sia il gettito IVA che il fatturato netto del centro commerciale, ovviamente ipotizzando di spendere tutto il reddito disponibile.



In realtà l'effetto finale per le entrate dello Stato andrebbe visto valutando anche la maggiore imposta che il centro commerciale pagherebbe a fronte dell'aumento dei profitti (generati dall'aumento del fatturato) che compenserebbe buona parte di quanto rinuncia in prima battuta riducendo ad esempio le imposte personali (Irpef) attraverso cui ogni consumatore si vedrebbe incrementare il reddito disponibile.

L'aumento delle vendite genererà un aumento della produzione e quindi una domanda di lavoro. Aumento che si ottiene anche con la soluzione del taglio dell'aliquota IVA ma come visto questo comporta facilmente costi maggiori per le casse dello Stato.

In conclusione una ripresa dell'economia e una creazione di nuovi posti di lavoro non può che passare da una riduzione della pressione fiscale (dirette o indirette), mentre gli incentivi possono solamente dirottare la domanda verso talune categorie di lavoratori e/o far preferire una forma di contratto piuttosto che un'altra.

domenica 2 marzo 2014

3%, il rapporto deficit/Pil tra verità e leggenda

Si parla spesso di questo vincolo di bilancio previsto dai trattati europei, ma altrettanto spesso vengono fatte delle affermazioni prive di fondamento se non addirittura errate circa la sua origine e la presunta tesi che il valore prefissato (3%) non abbia alcun riscontro economico.
Iniziamo con chiarirne l'origine.

Alla fine del 1991 i ministri competenti della UE si riunirono per fissare i parametri di bilancio a cui i Paesi aderenti, in particolare coloro che avrebbero adottato l'euro, si sarebbero dovuti attenere al fine di avere una omogeneità e che sarebbero stati inseriti nel Trattato di Maastricht.
Ci sono diverse tesi riguardo la scelta del 3% in merito al rapporto deficit/Pil, ma quella più diffusa vuole l'allora direttore del Dipartimento del Tesoro francese e futuro governatore della BCE Jean-Claude Trichet, economista, proporla alla commissione.
Non si sa se le cose andarono realmente così ma anche fosse non è rilevante perchè in ogni caso, qualunque fossero le proposte, i 'tecnici' dei governi e delle varie banche centrali europee sicuramente fecero le loro accurate valutazioni in merito, non si sarebbero certo affidati ad una qualsiasi proposta dalle conseguenze così rilevanti buttata li a caso e senza una adeguata analisi tecnica.

In ogni caso va sfatata l'idea che il valore del 3% sia frutto di una stima priva di fondamento, c'è difatti una spiegazione del tutto analitica.
Innanzi tutto occorre rievocare quale fu l'obiettivo di partenza: la stabilità dei bilanci pubblici ed in primo luogo del rapporto del debito pubblico di ciascuno Stato rispetto alla ricchezza prodotta (PIL).
Si arrivò a proporre di fissare questo valore al 60%, livello superiore alla media dei debiti degli Stati in quel periodo (fine anni '80) che fu nel 1990 all'incirca tra il 35 ed il 40% anche se, va detto, riguardava più gli Stati virtuosi come Francia (35%), Germania (44%) e Gran Bretagna (35%) piuttosto che l'Italia che nel 1990 registrò un rapporto debito/Pil al 98%.



Occorreva stimare un tasso medio di crescita del Pil nominale di lungo periodo di riferimento e questo fu stabilito al 5%, comprensivo di un 3% di crescita media reale e di una inflazione pari al 2%.
A quel punto era semplice ricavare il conseguente valore di deficit possibile al fine di mantenere costante il rapporto debito/Pil nel corso del tempo applicando la seguente equazione:


dove:
- d = deficit
- D = debito
- n = tasso di crescita annuo del Pil nominale

Se sostituiamo all'equazione i seguenti valori:
- D = 0,6 (60%)
- n = 0,05 (5%)

otterremo 0,029, ovvero 2,9% che si può quindi arrotondare a 3%!

Ecco quindi che a prescindere dalla modalità in cui è stato proposto sicuramente la sua stima ha una base del tutto razionale contraddicendo così uno dei luoghi comuni più diffusi.

Notiamo ora un aspetto interessante. Supponiamo di avere due Paesi che abbiano diversi valori di rapporto debito/Pil, ad esempio il primo pari al 40% ed il secondo al 100% e vediamo con l'ausilio del grafico sottostante l'andamento nel tempo del rapporto debito/Pil partendo da un ipotetico anno zero supponendo che entrambi rispettino il tasso di crescita annua media di lungo periodo del Pil nominale al 5% e un deficit al 3% del Pil stesso:



come si può vedere l'andamento del rapporto debito/Pil di entrambi i Paesi convergerà verso il 60%, per l'esattezza 63% e questo perchè dalla formula vista prima il deficit dovrebbe essere poco inferiore il 2,9% per ottenere esattamente un rapporto debito/Pil del 60%.
Questo perchè chi si trova in una situazione al di sopra del livello di equilibrio di lungo periodo (63% nell'ipotesi in questione) vedrà una crescita del Pil proporzionalmente maggiore di quella del debito mentre sarà il contrario per chi avrà una percentuale inferiore (crescita del debito maggiore in termini percentuali rispetto a quella del Pil).

Conclusioni
Oggi è in discussione il parametro del 3% deficit/Pil, ma a mio avviso dovrebbe esserlo piuttosto il rapporto debito/Pil, il cui vincolo al 60% è troppo impegnativo.
Personalmente dovrebbe essere portato al 80% se non addirittura al 100%. Parimenti anche il tasso di crescita del Pil nominale di lungo periodo dovrebbe essere rivisto in considerazione del fatto che i livelli di crescita degli anni '70 e '80 non sono più ripetibili, almeno nel breve e medio periodo.
Ritengo che un tasso attendibile possa essere del 4%, composto da un 2% reale e un altrettanto 2% dovuto all'inflazione (che corrisponde all'obiettivo di stabilità dei prezzi assegnato alla BCE), in questo modo usando l'equazione sopra scritta si otterrebbe sempre un rapporto deficit/Pil del 3% ma dalle implicazioni diverse per quanto riguarda ad esempio i vincoli stabiliti dal recente Patto di Bilancio Europeo o Fiscal Compact perchè a questo punto verrebbe alleggerito l'impegno finanziario per rientrare nei limiti previsti nei prossimi 20 anni rispetto alla condizione attuale.

Un vincolo del 80% del rapporto debito/Pil sarebbe comunque sostenibile in quanto oggi il livello del servizio del debito, ovvero del peso della spesa per interessi sul debito pubblico, è pari al 5,5% del Pil a fronte di un debito pubblico pari al 130% dello stesso e facendo una semplice proporzione si può ipotizzare che se avessimo invece un debito per l'appunto pari al 80%, la spesa per interessi potrebbe stimarsi all'incirca al 3÷3,5% del Pil, il che sarebbe sostenibile considerando che oggi l'avanzo primario è circa il 4% del Pil, ovvero lo Stato spende meno di quanto incassa per ben quattro punti percentuali rispetto alla ricchezza prodotta.

Riassumendo, se si procedesse in tal senso ad una revisione dei parametri di bilancio costerebbe meno l'impegno finanziario per raggiungerli e osservarli rispetto alla condizione attuale stabilita dai trattati che trovo decisamente onerosa e di ostacolo alla crescita.