martedì 25 aprile 2017

Apertura dei negozi nei giorni festivi SI o NO

Capita sovente che in occasione di domeniche e festività in genere si aprano dibattiti con opinioni contrastanti circa l'utilità e l'opportunità o meno di tenere aperti i negozi durante i giorni tradizionalmente di chiusura della maggior parte delle attività.
Le grandi catene commerciali sono quelle che sostengono maggiormente la validità di tale offerta concessa ai consumatori mentre i piccoli esercizi contrappongono il fatto di non essere in grado di competere per una questione di carenza di personale a disposizione al fine di coprire l'orario di apertura durante le festività, cosa che appunto sono in grado di svolgere i primi.
I sindacati sono contrari in nome del diritto dei lavoratori ad un giorno di riposo settimanale e nel mantenerlo nel giorno tradizionalmente dedicato della domenica oltre che in occasione delle festività ufficiali. A questo si contrappongono alcuni cittadini che nel trovare utile poter svolgere dello shopping con maggiore tranquillità la domenica, portano come esempio le categorie che sono chiamate a lavorare anche nei giorni di festa quali: personale medico, addetti alla sicurezza (polizia), giornalisti etc...
Quest'ultima tesi a me convince molto poco in quanto non vedo la ragione di far lavorare nei giorni di festa una certa categoria (es.commercio) per il fatto che un'altra (es i medici) è chiamata a farlo. Come il voler semplicemente venire incontro alle richieste dei consumatori, hai visto mai che si arrivi a tenere aperto anche di notte le banche così da dare la possibilità, a chi affetto da insonnia, di effettuare un bonifico o altra operazione prima che venga l'alba, oppure le poste per pagare la bolletta della luce senza incappare nelle solite code diurne.
Battute a parte, personalmente non sono contrario di principio ad una liberalizzazione dell'orario di apertura degli esercizi commerciali però occorre tenere conto anche delle conseguenze.

Sviluppo storico del commercio al dettaglio
Non molti anni fa abbiamo assistito ad una evoluzione della vendita al dettaglio, si è passati pian piano dal tradizionale negozio sotto casa, quello dove ogni cliente viene accolto da un/a commesso/a che lo segue, lo consiglia e che spesso intrattiene con lui instaurando così un rapporto di fiducia, ai megastore o a grandi catene di negozi che su superfici molto ampie mettono a disposizione una quantità notevole di prodotti, presidiati il più delle volte da un numero ristretto di addetti alle vendite che attendono passivamente il cliente seguendolo solo se richiesto, diversamente lasciano che costui si arrangi da solo.
Questi sopperiscono alla carenza relazionale offrendo i prodotti ad un prezzo inferiore, forti del potere di acquisto che hanno verso i fornitori oltre ad una economia di scala. Infatti occorre considerare la maggiore produttività del personale, intesa come volume di vendita (fatturato) per addetto, la quale è indubbiamente maggiore rispetto a quella del negozio tradizionale. Ottengono poi anche un vantaggio sotto il profilo finanziario. Sempre contando sulla loro forza contrattuale trattano con i fornitori pagamenti differiti nel tempo superiori a quello di rotazione della merce. Quindi, ad esempio, se vendono mediamente uno stock di articoli nel giro di 60 giorni ed i pagamenti sono stipulati a 90 giorni, si ottiene che per il periodo che decorre dal momento dell'arrivo della merce a quello in cui essa viene venduta, questa è come se a loro non costasse nulla, poi da allora e fino a quando scadono i termini di pagamento hanno in cassa l'intero importo per poi passare al margine netto una volta pagato i fornitori, fornitori che accettano a loro spese di fare da banca in cambio di un grosso e prestigioso cliente che assicura loro un cospicuo volume di vendite (e di fatturato).
Non serve illustrare le conseguenze delle aperture dei grandi centri sui piccoli commercianti, fenomeno che è comunque accolto favorevolmente dalla massa della popolazione proprio per i vantaggi in termini economici dati dai primi. Inoltre, e qui veniamo all'oggetto di questa riflessione, i grandi centri commerciali e le grosse catene dispongono di un numero di addetti con i quali è possibile effettuare orari prolungati di apertura sia giornaliera che settimanale, cosa che per i piccoli commercianti diventa alquanto problematico se non impossibile.

Recentemente abbiamo assistito, o meglio stiamo assistendo, ad una nuova evoluzione del commercio al dettaglio: quella dell'avvento del e-commerce, cioè della vendita on-line!
E' una forma di vendita che si sta diffondendo sempre più e che coinvolge oramai la maggior parte dei prodotti che acquistiamo quotidianamente. Questo canale permette di offrire i prodotti ad un prezzo ancora inferiore rispetto alla classica distribuzione attraverso negozi fisici, forti del fatto che vengono tagliati molti costi, dal personale a quelli della gestione del negozio vero e proprio. E' sufficiente infatti disporre di un magazzino dove tenere una minima quantità di prodotti, un adeguato sistema informatico ed il personale necessario per la gestione: dall'ordine al confezionamento e spedizione, dalle operazioni amministrative al servizio clienti.
Questo negozio virtuale è per definizione aperto 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, in quanto la disponibilità della merce, se il sistema informatico è valido, è sempre aggiornata e l'accettazione dell'ordine è sempre effettuata in tempo reale. L'unica variabile sono i termini di consegna ma che possono anche in questo caso essere comunicati in anticipo con precisione al cliente facendo riferimento al calendario.

A questo punto c'è quindi da chiedersi se allora è necessario fronteggiare la concorrenza del e-commerce da parte dei negozi, grandi o piccoli che siano, prolungando l'orario di apertura. Per come visto prima i grossi esercizi non hanno grandi difficoltà a farlo, semmai sono i piccoli commercianti che avrebbero problemi e che andrebbero incontro più ad un aumento dei costi che dei ricavi. In pratica è per questi ultimi che intravedo un futuro sempre più difficoltoso. Le statistiche indicano che a seguito della liberalizzazione dell'orario di apertura degli esercizi commerciali le vendite non sono aumentate, ma al contrario hanno visto una seppur lieve flessione. Personalmente ho però il dubbio che le statistiche non considerino adeguatamente l'incidenza proprio delle vendite on-line, quelle del e-commerce. Temo infatti che le statistiche non aggiornino adeguatamente l'evolversi di questo canale dando loro un peso inferiore rispetto a quello che avviene nella realtà. Così, tra incremento delle vendite attraverso i cosiddetti discount (in particolare per il settore alimentare) e quello del e-commerce in generale, risulta un dato non corrispondente a quanto avviene realmente, stimando un andamento costante se non addirittura in flessione delle vendite nel suo complesso quando invece questo riguarda semmai il canale di vendita tradizionale di negozi fisici costituito dai piccoli negozi e dalle grandi catene commerciali.


Credo quindi che prolungare l'orario di apertura settimanale per i negozi tradizionali, grandi o piccoli, serva a poco, addirittura può essere controproducente per un incremento dei costi a fronte di un inefficace aumento (ove questo avvenga) delle vendite.
Uno dei motivi per questa mia considerazione è legato al budget limitato di ciascun consumatore, questo infatti non cambia se a costui viene concesso per gli acquisti un giorno in più settimanalmente e durante quelli festivi, egli non farà altro che ridurli durante gli altri giorni e quindi distribuire diversamente la spesa complessiva nel tempo.
Poi come seconda ragione considero l'avvento del e-commerce che permette al consumatore stesso di effettuare l'acquisto standosene tranquillamente a casa, risparmiando così tempo e denaro (per il trasferimento al punto vendita) e con l'evoluzione tecnologica egli avrà sempre maggiore disponibilità di informazioni, anche dettagliate, riguardante qualsiasi bene al quale egli sia interessato. Inoltre con la possibilità di poter restituire la merce verrà meno la diffidenza di acquistare virtualmente qualcosa che poi si dimostra non soddisfare le sue aspettative.

Un confronto con la Germania
Potrebbe essere interessante fare un confronto con quanto avviene oggi in Germania, sia perché è la nazione dove i consumi sono in costante crescita e sia (se non soprattutto) perché talvolta mi è capitato di leggere delle insinuazioni completamente prive di fondamento da parte degli oppositori alla deregolamentazione degli orari di apertura avutasi nel 2012 con il governo Monti. Costoro hanno puntato il dito contro il neoliberismo, la UE e talvolta contro una sciocca quanto del tutto fuori luogo ideologia ordoliberalista della quale la Germania è vista come la principale espressione. Ebbene, se queste fesserie affermazioni fossero vere, in Germania dovremmo avere quindi negozi aperti 7 giorni su 7 e durante le festività, invece non è così.

In Germania nel 1956 fu emanata una legge a livello federale che disciplinava l'orario di apertura dei negozi (Ladenöffnungszeit), questa è stata poi modificata nel 2003. Questa prima legge in sostanza prevedeva che l'orario di apertura fosse compreso dalle 07:00 alle 18:30, dal lunedì al venerdì, mentre il sabato non oltre le 14:00. In ogni caso erano previste alcune eccezioni come ad esempio il primo sabato di ogni mese in cui l'orario poteva essere prolungato fino alle 18:00 (il sabato lungo, in tedesco langer Samstag). Altre concessioni si sono poi avute nel corso degli anni fino al 2003, come prima scritto, anno in cui vi è stata una certa rivoluzione. Questa è dovuta anche a seguito di una direttiva europea, la 2003/88/CE del 4 Novembre 2003, che da un lato ha voluto sottolineare i diritti dei lavoratori e dall'altra venire incontro alle richieste degli esercenti.
Dal 2003 quindi il governo federale ha concesso il prolungamento dell'orario di apertura al sabato di 4 ore (fino alle 20:00), rivisto l'orario durante i giorni feriali (dalle ore 06:00 alle 20:00) e quindi di conseguenza il divieto durante le ore restanti, le domeniche ed i giorni festivi. Tralascio di citare le eccezioni che sono poco influenti.
Nel 2006 il governo federale ha stabilito una sorta di federalismo per questo argomento, lasciando cioè ai vari Länder autonomia decisionale riguardo i giorni e l'orario di apertura. Ad eccezione della Baviera i restanti 15 Länder hanno prima o poi legiferato su questo tema e ad oggi la situazione è la seguente (salvo errori):


  • Dal lunedì al venerdì: apertura h24 possibile tranne Baviera e Saarland (dalle 06:00 alle 20:00), Rheinland-Pfalz e Sachsen (dalle 06:00 alle 22:00);
  • Sabato: apertura h24 possibile tranne Baviera e Saarland (dalle 06:00 alle 20:00), Mecklenburg-Vorpommern e Nordrhein-Westfalen (dalle 0:00 fino alle 22:00), Rheinland-Pfalz e Sachsen (dalle 06:00 alle 22:00),Sachsen-Anhalt e Thüringen (dalle 0:00 alle 20:00);
  • Domenica: prevista chiusura tranne Berlino (8 domeniche all'anno), Brandenburg (6 domeniche all'anno dalle 13:00 alle 20:00) ed alcuni altri Länder che hanno la possibilità di tenere aperto per alcune domeniche all'anno a determinata fascia oraria.
Insomma salvo qualche omissione, volutamente effettuata perché non determinante, e (forse) qualche possibile errore è evidente che se volontà esterna c'è stata per deregolamentare l'apertura dei nostri esercizi commerciali, questa non deriva sicuramente dalla tanto vituperata Germania dato che da loro, nonostante la recente liberalizzazione, nella maggior parte dei casi sia la domenica che nei giorni festivi i negozi restano chiusi e non mi risulta che il commercio ne risenta.

Conclusioni
Prolungare l'apertura degli esercizi commerciali non aumenterà le vendite da parte dei negozi tradizionali e questo perché queste sono in primo luogo determinate dalla capacità di spesa, la quale non viene modificata in base all'orario ed ai giorni di apertura, semmai è in grado di modificare le abitudini di ciascun consumatore, il quale come sta avvenendo riduce gli acquisti durante la settimana per poi compensare nel weekend. In secondo luogo perché il progressivo incremento del settore e-commerce andrà sempre più a ridurre il canale tradizionale con una maggiore penalizzazione per i piccoli esercizi. Dobbiamo quindi fare i conti con un progressivo impoverimento dei centri storici causato dalla chiusura di molti negozi o quantomeno il loro trasferimento presso i grossi centri commerciali, ma anche ad una sostanziale evoluzione dello shopping che, a mio avviso, avverrà nei prossimi decenni prevalentemente via internet, condizione questa alla quale anche l'apertura h24 nei negozi fisici potrà concorrere solo parzialmente.


NOTA: report Istat (file Pdf) sulla "Spesa per consumi delle famiglie" del 07 luglio 2016 con dati aggiornati al 2015


lunedì 17 aprile 2017

Svalutazioni e prezzo della benzina

A volte mi diverto, altre volte rimango allibito nel leggere o ascoltare affermazioni attorno alle conseguenze stimate (a vanvera) sul prezzo dei carburanti in caso di svalutazione della valuta, soprattutto nell'ipotesi di ritorno alla lira. Mi diverto quando leggo ipotesi assurde avanzate da non competenti, rimango allibito quando queste sono fatte da giornalisti economici o da politici che dovrebbero per definizione possedere un minimo di competenza sull'argomento.

Vediamo ora come stanno realmente le cose e quindi quali conseguenze sul prezzo dei carburanti, benzina e gasolio innanzi tutto. si avrebbero in caso di aumento del petrolio.
Iniziamo considerando le componenti di costo della benzina e del gasolio per autoveicoli:

- Prezzo industriale
- Accise
- IVA

Il livello attuale di accisa sulla benzina è di € 728,40 per 1.000 litri ed è un importo fisso. L'Imposta sul Valore Aggiunto è pari come sappiamo al 22% della somma tra Prezzo industriale e Accise (quindi imposta su tassa!), di conseguenza 160,25 euro per ogni 1.000 litri di benzina derivano dalla accisa totale, pertanto la differenza tra il prezzo che paghiamo alla pompa e la somma di accise e IVA ad essa riferita corrisponde al prezzo industriale della benzina IVA inclusa.
Il Ministero dello Sviluppo Economico ha registrato per il mese di Marzo 2017 il prezzo medio della benzina a € 1.540,37 per 1.000 litri, ne consegue che 651,72 euro (per 1.000 litri) sono il prezzo industriale IVA inclusa. Scorporando l'IVA otteniamo 534,20 euro per ogni 1.000 litri di benzina:


Per il gasolio per autoveicoli i dati sono invece questi:


Determinato l'importo del carburante vero e proprio vediamo di stimare l'incidenza del greggio. Per semplicità ho preso a riferimento i dati rilevati dell'ente statunitense EIA (U.S. Energy Information Administration) per quanto riguarda la benzina (gasoline):


Questi ci dicono che il prezzo medio della benzina negli Stati Uniti è stato a febbraio di 2,30 dollari per gallone. Dato che un gallone corrisponde a 3,785 litri ne deriva che 1.000 litri negli USA costano mediamente 607,66 USD. Questo a puro titolo informativo, perché in realtà per la nostra analisi quello che ci interessa è l'incidenza del prezzo del petrolio su quello alla pompa o meglio su quello industriale.
Dallo schema vediamo che questo corrisponde al 53% rispetto al prezzo alla pompa, prezzo che include (solo) il 20% di tasse (beati loro!), quindi se scorporiamo questa voce l'incidenza del greggio sul costo industriale è circa il 66%, in sostanza due terzi (il 53% di $ 2,30 = $ 1,219, le tasse sono il 20% di $ 2,30 = $ 0,46, quindi $ 1,219 su $ 2,30 - $ 0,46 = 66%). Il resto sono i costi più o meno simili tra loro del costo per la raffinazione e quello per la distribuzione e marketing.

Guardiamo ora i dati relativi al gasolio per auto (diesel):


Facendo anche per il gasolio gli stessi calcoli otteniamo che l'incidenza del costo del petrolio sul prezzo industriale è circa il 59%.
Alcune statistiche europee che ho trovato (non recenti) indicano che, a differenza degli USA, da noi l'incidenza del greggio è leggermente superiore e quella di raffinazione e distribuzione sono inferiori, ma se guardiamo i valori questa differenza non influenzerà sensibilmente il valore in termini assoluti. Infatti se ipotizziamo un range di incidenza del greggio sul prezzo industriale che varia dal 60 al 75% otteniamo che esso è compreso tra € 0,32 e 0,40 ogni litro sia per la benzina che per il gasolio. Prendiamo pure il valore più alto, € 0,40, se il costo del petrolio subisse un aumento del 10% l'incidenza sarebbe pari a 4 centesimi + IVA, ovvero nemmeno 5 centesimi IVA inclusa!

Naturalmente questo sarebbe l'incremento nominale (teorico), cioè escludendo ricarichi maggiori ad ogni passaggio nella catena della distribuzione.
L'andamento storico del prezzo medio in euro del petrolio (quotato in dollari) e della benzina (costo industriale IVA esclusa) dal 2002 al 2016 è il seguente (fonte Ministero dello Sviluppo Economico):

Andamento nel tempo che possiamo rappresentare graficamente utilizzando come indice 100 i prezzi dell'anno 2002:


Come si può osservare sia dai dati in tabella che dall'andamento nel grafico qui sopra degli indici, l'andamento del prezzo industriale della benzina è smorzato rispetto a quello del petrolio, smentendo così il luogo comune che vorrebbe i petrolieri approfittare delle variazioni del prezzo del greggio. E' vero, infatti, che in presenza di un calo del petrolio il prezzo della benzina diminuisce proporzionalmente meno, ma se si osservano le fasi inverse si nota come nel caso di rialzo la benzina aumenta meno che proporzionalmente compensando quindi la fase precedente.
Una situazione del tutto simile la riscontriamo anche nel caso del gasolio per auto.

A questo punto si può essere indotti a credere che una uscita dall'euro per tornare alla lira, lira che si deprezzasse rispetto al dollaro (con cui è quotato il petrolio) del 30% avrebbe conseguenze minime, ergo pari a nemmeno 15 centesimi sul prezzo dei carburanti.
In realtà le conseguenze sarebbero più onerose. Prendendo infatti i dati della quantità importata di petrolio grezzo nel 2016 pubblicati dal Ministero dello Sviluppo Economico che riportano circa 448 milioni di barili ad un prezzo medio di 42,33 dollari al barile, ne consegue una spesa complessiva di quasi 19 miliardi di dollari, ovvero circa 17 miliardi di euro. Questo significa che a fronte di una variazione del 10% del costo al barile del petrolio, sia esso dovuto al prezzo dello stesso e/o ad una variazione del cambio, per noi significherebbe un aggravio di almeno 2 miliardi di euro se teniamo conto che dal momento che la materia prima viene trasformata occorre aggiungere l'IVA. Questo maggiore importo di certo non sarebbe assorbito totalmente dai petrolieri ma verrebbe scaricato sui consumatori, direttamente ed indirettamente, durante i vari passaggi e con riferimento a tutti i prodotti che vengono realizzati con il petrolio.
Quando scrivo direttamente ed indirettamente mi riferisco nel primo caso all'acquisto dei prodotti derivanti dal petrolio (esempio i carburanti) mentre nel secondo a quelle voci di beni e servizi che subirebbero un aumento proprio in conseguenza di un rialzo del prezzo dei prodotti della raffinazione stessa (esempio i costi di trasporto).

giovedì 13 aprile 2017

"Split Payment", ovvero l'ennesimo trucco fiscale a favore dello Stato

Con la recente approvazione del DEF (Documento di Economia e Finanza) è stata allargata la base soggetta al cosiddetto split payment, questa misura era stata infatti introdotta con la Legge di Stabilità 2015 (la 190/2014) con attuazione 1 gennaio 2015.
Di cosa si stratta? Sinteticamente, ad ogni cessione di beni o servizi a favore di enti pubblici, nella fattispecie:
  • Stato e altri soggetti qualificabili come organi dello Stato, anche se dotati di autonomia giuridica.
  • Enti pubblici territoriali e loro consorzi, comprese le Comunità Montane, isolane e le Unioni di Comuni.
  • Camere di Commercio, Artigianato ed Agricoltura (CCIAA).
  • Istituti universitari.
  • Aziende sanitarie locali.
  • Enti ospedalieri (fatta esclusione per gli enti ecclesiastici che esercitano assistenza ospedaliera, in quanto operano in regime di diritto privato).
  • Enti pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere scientifico (IRCCS).
  • Enti pubblici di assistenza e beneficienza (IPAB, ASP).
  • Enti pubblici di previdenza (INPS).
il fornitore all'atto dell'emissione della fattura scriverà una nota con la dicitura "scissione dei pagamenti" e l'IVA dovuta dall'ente pubblico verrà da quest'ultimo versata direttamente ed integralmente allo Stato anziché al fornitore.

Cosa cambia rispetto a prima?
Vediamo con un semplice esempio perché questa misura favorisce l'ente centrale e sfavorisce i fornitori.
Supponiamo di vendere alcuni beni al nostro Comune e che l'importo IVA in fattura che dovremmo incassare sia pari a 1.000 euro. Si supponga anche che non si sia i produttori di questi beni, ma intermediari commerciali. All'atto dell'acquisto al produttore noi però pagheremmo l'IVA prevista che in questo esempio ipotizziamo essere pari a 600 euro.
Con il sistema precedente avremmo incassato 1.000 euro di IVA dalla vendita al Comune che avrebbe compensato i 600 euro (sempre di IVA) versati al produttore. All'atto della liquidazione mensile o trimestrale IVA avremmo versato allo Stato la differenza, ovvero 400 euro.

Bene, fin qui tutti felici e contenti!

Ora, con questo meccanismo invece dello split payment noi continueremo a pagare l'IVA dovuta verso i nostri fornitori, ma a fronte di vendite ad enti pubblici non la intascheremo più. Nel nostro esempio pagheremo i 600 euro al produttore ma non incasseremo i 1.000 euro dal Comune. Nella liquidazione IVA (mensile o trimestrale), benché nel registro contabile delle vendite l'importo verrà sempre registrato anche se con un contestuale storno, questa non verrà considerata. Si beneficerà semmai di un credito IVA nei confronti dello Stato, nel nostro esempio dei 600 euro da noi pagati al produttore, infatti in assenza di altre operazioni costui dovrà versare allo Stato questo ammontare, Stato che poi incasserà anche i 1.000 euro dal Comune a seguito della nostra vendita. Pertanto lo Stato incasserà complessivamente 1.600 euro di IVA e noi vanteremo 600 euro di credito! Contabilmente tutto torna ma finanziariamente no, dato che noi potremo chiedere il rimborso solo in sede di liquidazione annuale. E con i tempi della macchina fiscale!
In pratica con questa misura lo Stato si troverà a ricevere una qualche forma di prestito a tasso zero mentre dall'altra i fornitori ad avere complessivamente una passività finanziaria, anche se formalmente trattasi di credito.

Le ragioni di questo trucco fiscale sono intuibili, lo Stato si troverà ad incassare più di quanto dovuto e dato che le regole contabili europee fanno riferimento al principio di cassa, il surplus di IVA incassato contribuirà a ridurre il disavanzo (deficit) pubblico. E' la stessa ragione per cui in molti casi una amministrazione pubblica, pur disponendo dei fondi, non può pagare una fornitura di beni o servizi, perché secondo appunto queste regole contabili fin quando non lo fa l'importo non viene registrato tra le uscite e quindi non aggrava l'eventuale bilancio.
Il (notevole) debito alle amministrazioni pubbliche verso il settore privato, quello che l'allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi si era impegnato a saldare in pochi mesi, è riconducibile più a questa ragione che alla mancanza vera e propria di disponibilità finanziaria da parte delle amministrazioni stesse:


di cui la situazione all'agosto 2015 (dati del Ministero dell'Economia e delle Finanze):


in dettaglio gli importi riferiti ai debiti accertati al 31 dicembre 2013:


Inutile dire che in molti altri Paesi i debiti l'amministrazione pubblica li paga nel giro di poche settimane!

martedì 11 aprile 2017

Il Paradosso di Goebbels

Conoscete quella citazione che recita: "Se raccontate una grossa bugia e la ripetete spesso a sufficienza, allora la gente alla fine ci crederà" e che viene addebitata a Joseph Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich durante il nazionalsocialismo?
In tedesco sarebbe così: "Wenn man eine große Lüge erzählt und sie oft genug wiederholt, dann werden die Leute sie am Ende glauben."

E' proprio vera! E perché allora lo definisco un paradosso?

Semplicemente perché il senso di questa citazione è talmente vero quanto falsa è la sua attribuzione al gerarca nazista! Goebbels non pronunciò mai questa frase, né in un comizio né in una qualsiasi dichiarazione di cui vi sia una testimonianza documentata. Anzi, Goebbels la pensava in modo pressoché opposto, egli infatti sosteneva che "una buona propaganda non necessita di bugie. Non c'è ragione di temere la verità. Si tratta solo di presentare la verità in un modo che la gente sia in grado di comprendere. Una propaganda che usa falsità dimostra che è una cattiva causa e non può essere vincente nel lungo periodo." (Norimberga, settembre 1934).
Facilmente il suo pensiero sarebbe più preciso intendendo che ciò che viene detto non deve essere necessariamente vero del tutto, diciamo alquanto verosimile, ma comunque non una grossa bugia. Questo perché sappiamo che anche il nazionalsocialismo e Goebbels stesso non dissero certo sempre cose vere.

Come è nata questa fraudolenta citazione a lui ascritta? Non si sa di preciso, in ogni caso quello che è un dato di fatto è che non esiste prova che Goebbels abbia mai pronunciato quelle parole, le quali sono comunque una parte dato che la citazione intera a lui ascritta prosegue così:
"Man kann die Lüge so lange behaupten, wie es dem Staat gelingt, die Menschen von den politischen, wirtschaftlichen und militärischen Konsequenzen der Lüge abzuschirmen. Deshalb ist es von lebenswichtiger Bedeutung für den Staat, seine gesamte Macht für die Unterdrückung abweichender Meinungen einzusetzen. Die Wahrheit ist der Todfeind der Lüge, und daher ist die Wahrheit der größte Feind des Staates."
che tradotto è:
"La menzogna può essere sostenuta a lungo affinché lo Stato possa proteggere la popolazione dalle conseguenze politiche, economiche e militari della menzogna stessa. Pertanto, è di vitale importanza per lo Stato di usare tutto il suo potere per soffocare il dissenso. La verità è il nemico mortale della menzogna e quindi la verità è il più grande nemico dello Stato."

Che Goebbels l'abbia detto davvero o meno alla fine conta fino ad un certo punto dato che nel tempo il senso di questa citazione è stato messo in pratica spesso. Molte bugie sono state ripetute fino a farle ritenere vere. Recentemente possiamo citare le falsità riguardanti la pericolosità o quantomeno l'inutilità delle vaccinazioni. Oppure la presunta 'invasione' dei migranti, siano essi profughi o semplici migranti economici, e che loro siano dediti alla delinquenza, in particolare le rapine presso le abitazioni nonostante i fatti dicano ampiamente che i responsabili quando non sono italiani provengono il più delle volte da Paesi facenti parte dell'Unione Europea, in ogni caso non a bordo di barconi attraversando il Mediterraneo.
Purtroppo tra social forum, blogger di dubbia onestà intellettuale, giornalisti alla ricerca di visibilità e trasmissioni televisive condizionate più da ragioni politiche che animate dal senso etico della professione, offrono una visione distorta della realtà e venendo ripetuta spesso finisce per essere percepita da molti come verità.