domenica 22 gennaio 2017

Se la Germania tornasse al marco...

Alcune settimane fa, durante una cena tra amici, tra un tema e l'altro parlammo un po' di economia. Solitamente non lo facciamo, non parliamo quasi mai né di politica né di economia, fatto salvo temi che ci riguardano personalmente. Quella sera comunque toccammo il tema della situazione dell'economia, dell'Europa (specificatamente dell'Unione Europea che è un po' la stessa cosa dato che ad essa vi partecipano ben 28 Paesi, Gran Bretagna - ad oggi - inclusa) e moneta comune, ovvero l'euro.
Per non dilungarmi troppo vado al dunque. Ad un certo punto nell'affrontare quest'ultimo argomento uno dei miei amici mi si rivolge direttamente con questa affermazione:
"Dai Maurizio, ammetterai che se la Germania tornasse al marco lasciando l'eurozona o se quest'ultima si dovesse sciogliere, il loro export si ridimensionerebbe!".
Io ho atteso qualche attimo, osservando nel frattempo gli altri che concordavano tutti con il mio amico, poi ho replicato:
"Certo, se ciò dovesse accadere, anche se io non credo che l'euro cesserà di esistere o che la Germania lascerà volontariamente la sua appartenenza, è alquanto verosimile che il volume delle loro esportazioni ne risentirà."
Ho poi ho aggiunto:
"Voi però commettete un inconsapevole errore di valutazione o per meglio dire di dissonanza tra un dato statistico, come l'export, e il fatturato o comunque il volume di vendite effettuate all'estero da una o dall'insieme di aziende di una determinata nazione."
Notando una comprensibile perplessità sottolineata dal "Cioè?" espressa dall'amico che mi aveva mosso l'osservazione, ho cercato di spiegarmi.
"Voi in pratica pensate che tornando al marco, e questo rivalutandosi rispetto alle altre valute, l'export delle aziende tedesche subirà un calo dovuto alla minore competitività in fatto di prezzo dei loro beni. Ebbene, questo è vero, difficile confutarlo. Quello che però non considerate è che la quantità di beni venduti all'estero da una azienda, e per conseguenza da un insieme di aziende di un'intera nazione, non corrisponde al dato ufficiale relativo ai beni esportati, i quali si riferiscono esclusivamente a quelli prodotti all'interno del proprio Paese e venduti poi all'estero. Quindi voi, come alcuni economisti, soprattutto macroeconomisti, commettete la leggerezza di considerare i due fattori uguali e quindi pensate che se la Germania tornasse al marco e subisse un calo delle esportazioni, a questo deriverebbe un calo anche delle vendite complessive delle aziende tedesche all'estero dei loro prodotti e per contro un aumento delle vendite da parte dei loro concorrenti."

Per spiegarmi ulteriormente su quello che ho fatto presente in quella occasione, nel caso non fosse già chiaro ciò che intendo dire, parto da un semplice esempio. Supponiamo che io produca in uno stabilimento qui da noi in Italia un bene qualsiasi, ad esempio frigoriferi. E che ne vendo per 1 milione di euro negli Stati Uniti. In questo caso le mie vendite verrebbero registrate come esportazione e quindi l'Italia - in assenza di altri prodotti - vedrebbe un valore di export pari ad 1 milione di euro.

Se in un secondo tempo dovessi decidere di delocalizzare, cioè di trasferire altrove la produzione, ad esempio in Messico per ridurre i costi sia di produzione che di trasporto, aggiungendo magari anche un risparmio dal punto di vista fiscale, e vendessi ancora un volume pari a 1 milione di euro, cosa cambierebbe? Per me nulla, fatturerei sempre 1 milione di euro con gli USA, ma le statistiche nazionali dell'Italia per quanto riguarda l'export registrerebbero una riduzione di 1 milione di euro, quello cioè che fatturavo prima producendo qui in Italia vendendo negli Stati Uniti e che ora vendo sempre ma facendolo altrove (in Messico).
Il Messico viceversa vedrebbe un aumento del proprio export di 1 milione di euro, tradotto ovviamente in moneta locale - in peso messicano - e gli USA parimenti sempre un import di 1 milione di euro, anche qui tradotto in valuta locale, cioè in dollari, anche se prima dall'Italia ed ora dal Messico.

Potrebbe poi accadere che negli USA diventi presidente un personaggio che per ridurre il disavanzo commerciale e per aumentare l'occupazione nel proprio Paese decida di introdurre (o di aumentare) i dazi doganali dei beni di importazione e che a me non convenga continuare a produrre i frigoriferi in Messico, così decido di trasferire ancora la produzione questa volta negli Stati Uniti.
Supponiamo per semplicità che io continui a vendere la stessa quantità di frigoriferi al medesimo prezzo, ora prodotti direttamente negli USA, cosa cambierebbe? Per me ancora nulla, sempre lo stesso milione - in euro - di fatturato, ma per Messico e USA statisticamente avremmo rispettivamente un calo pari ad un milione di euro (in controvalore in peso) delle esportazioni del Messico e lo stesso livello (in controvalore in dollari) di riduzione delle importazioni da parte degli USA.

Insomma, come si vede dall'inizio alla fine sono cambiati solo i dati statistici relativi a import ed export dei Paesi coinvolti, ma a me come azienda produttrice di beni, in questo caso di frigoriferi, non è cambiato nulla!
Arrivando al caso Germania che dovesse tornare al marco, è verosimile che i dati sulle esportazioni potranno subire ridimensionamenti, ma questo non comporta una pari riduzione del volume di vendite conseguite all'estero da parte delle stesse aziende tedesche. Potrebbe ridursi anch'esso, certo, ma difficilmente per lo stesso ammontare.
Oggi infatti molti beni venduti all'estero sono prodotti fuori dal territorio nazionale e questo non riguarda solo la Germania. Basti considerare un parametro macroeconomico: il PNL, ovvero il Prodotto Nazionale Lordo (GNP - Gross National Product - in inglese o BNE - Bruttonationaleinkommen - in tedesco), che differisce dal noto PIL (Prodotto Interno Lordo) in quanto stima l'ammontare di quanto prodotto globalmente dalle aziende di una determinata nazione anziché la produzione realizzata in un determinato Paese da aziende di qualsiasi nazionalità.
Recentemente l'Istituto Federale di Statistica di Wiesbaden (l'omologo della nostra ISTAT) ha diffuso i dati aggiornati al 2016 della stima sia del PIL che del PNL della Germania a prezzi correnti:


Traduzione dei termini dal tedesco:
  • Bruttoinlandsprodukt = Prodotto Interno Lordo
  • Bruttonationaleinkommen = Prodotto Nazionale Lordo
  • Volkseinkommen = Reddito lordo nazionale
  • Preisbereinigt = a prezzi costanti
  • In jeweiligen Preisen (je Einwohner)  = a prezzi correnti (pro capite)
  • Maßeinheit = Indice (in questo caso - per la prima colonna - 2010 = 100)
Come si può notare dalle tre colonne centrali ed in particolare dal raffronto del PIL (Bruttoinlandsprodukt) con il PNL (Bruttonationaleinkommen), il secondo supera in valore il primo a cominciare dai primi anni di questo millennio quando una parte sempre maggiore di produzione delle aziende tedesche venne trasferita all'estero, o aprendo nuovi stabilimenti o soprattutto acquisendo aziende straniere. Questi dati confrontati tra loro ci dicono che se le aziende non tedesche lasciassero la Germania e quelle tedesche invece viceversa trasferissero la produzione internamente, a parità di vendite il PIL della Germania aumenterebbe, ad esempio passando, secondo i dati stimati per il 2016, da 3.133,860 miliardi a 3.199,899 miliardi di euro. Considerando che non sono poche le produzioni realizzate in Germania da aziende non tedesche, ci fa capire quanto sia rilevante allo stesso tempo il volume di produzione realizzato all'estero da aziende invece tedesche e riallacciandoci a quanto visto inizialmente come questo fenomeno incida sulle statistiche del commercio estero. Ad esempio le vendite realizzate in Cina dalla joint venture FAW-Volkswagen in campo automobilistico, che sfugge alle statistiche dell'export tedesco, rappresenta comunque un fatturato che rientra - anche se parzialmente - nel gruppo Volkswagen.

In definitiva, un calo dei dati relativi all'export non comporta necessariamente un calo corrispondente delle vendite dell'insieme di aziende di quel Paese e/o un aumento sempre delle vendite da parte della concorrenza straniera!

In conclusione occorre tenere presente che se la Germania tornasse al marco lasciando l'euro, o se l'euro scomparisse del tutto, non è detto che la competitività e quindi il volume di vendite globale delle aziende tedesche ne verrebbe per forza sensibilmente penalizzato come si potrebbe essere indotti a pensare. Assisteremmo con molta probabilità ad un adeguamento da parte delle stesse aziende alla nuova situazione economica che si esprimerebbe con una serie di trasferimenti della produzione da una nazione all'altra. E non è detto che alla fine il PIL della Germania ne risentirebbe, o comunque non in misura rilevante. Un esempio lo abbiamo visto dalla crisi del 2008, dove il made in Germany ha visto un calo degli scambi all'interno dell'eurozona, calo però più che compensati con i Paesi extra europei.

giovedì 19 gennaio 2017

Per qualche dollaro in più (di dazi)

Domani alla presidenza del governo degli Stati Uniti si insedierà il neo eletto Donald Trump, il quale a sentire le recenti sparate intenzioni potrebbe riservare a molti - incluso noi - un futuro piuttosto fosco.
Trump ha proposto in campagna elettorale una serie di misure, ribadite più volte anche recentemente (ad esempio intervista al Times e alla Bild Zeitung), atte a frenare la globalizzazione inducendo le aziende USA a far rientrare le produzioni delocalizzate all'estero oltre che alzare una barriera alle importazioni introducendo dei dazi che stando all'entità proposta sono da ritenersi più punitivi che altro. I dazi doganali, osteggiati dai liberisti puri, sono infatti utilizzati per ridurre lo squilibrio tra prodotti dello stesso genere ma con prezzi ben diversi tra loro per il fatto di essere prodotti in nazioni con un diverso standard di vita. Si pensi ad esempio ad un capo di abbigliamento realizzato in Bangladesh piuttosto che da noi. Oppure una stessa autovettura prodotta in Turchia piuttosto che in Germania. Ogni bene importato costituisce un bene in meno realizzato internamente e quindi meno lavoro, meno ricchezza prodotta e meno entrate fiscali per lo Stato. Ecco quindi che per evitare un eccessivo squilibrio con conseguente danneggiamento della ricchezza nazionale è utile affidarsi ad una imposta specifica da pagare, la quale assume quindi la duplice funzione di ridurre lo squilibrio di prezzo e di compensare, seppur parzialmente, i costi impliciti derivanti dall'importare beni dall'estero.

Ma Trump non vuole (solo) questo. Stando alle sue uscite aspirerebbe a realizzare internamente gran parte di quanto si consuma ostacolando i beni stranieri introducendo pesanti dazi.
Questa intenzione è a mio avviso decisamente controproducente perché difficilmente le aziende, soprattutto statunitensi, faranno quello che Trump si attende, cioè far rientrare la produzione dei prodotti che vendono sia nel loro Paese che in tutto il resto del mondo.
Nello specifico, ben difficilmente vedo una Apple decidere di trasferire l'assemblaggio dei propri prodotti da Shanghai in Mississippi o in Alabama ed i motivi possono essere facilmente intuibili leggendo questo articolo del Daily Mail.
Oppure che le "Big Three" del settore automotive (GM, Ford e Chrysler) chiudano gli stabilimenti in Messico per riaprirli in terra statunitense, ma vale lo stesso per aziende non USA, ad esempio le tedesche BMW e Volkswagen o le giapponesi Nissan e Toyota o la coreana Kia o tutte le altre ancora.
Le grandi aziende statunitensi sanno bene che questo porterà a ritorsioni da parte delle altre nazioni verso i prodotti USA, quindi a che pro trasferire la produzione entro i confini nazionali, evitando da una parte i dazi di Trump ma subendo dall'altra un aggravio dei costi di produzione e poi subire i dazi dei Paesi stranieri? E i consumatori che vantaggi avrebbero se a maggiori costi conseguenti la produzione trasferita in patria deriveranno verosimilmente maggiori prezzi a listino?
I consumatori con l'adozione delle misure proposte da Trump subiranno una perdita del potere di acquisto da ogni parte, sia che il bene venga prodotto internamente (per i maggiori costi di produzione) che all'estero (per i dazi).

Si dirà: "Ma così aumenta l'occupazione!"
Risposta: "Siamo davvero convinti?"

Premesso che il livello di occupazione è al momento soddisfacente negli Stati Uniti (60% circa) e quello di disoccupazione e sotto il 5%, se per quanto appena visto i prezzi dovessero salire, o le aziende negli USA saranno disposte ad aumentare i salari controbilanciando la perdita di potere di acquisto (difficile!) oppure le famiglie statunitensi potranno permettersi meno beni, il che porterà ad una contrazione dei consumi e quindi della quantità di lavoro richiesta. Poi tutto è possibile e magari la ricetta Trump mi smentirà implacabilmente. Ma ne dubito.
Stesse conseguenze di riflesso anche nel resto del mondo, dove una minore attività commerciale internazionale in generale e verso gli USA nello specifico, porterà facilmente ad un rallentamento della ricchezza prodotta e del lavoro richiesto, proprio quello di cui non abbiamo bisogno!

Personalmente comunque prevedo che queste uscite di Trump non avranno seguito, prima di tutto perché ritengo che le grandi aziende, USA e non, tramite i lobbisti (che negli USA sono leciti e girano tranquillamente per i palazzi della politica) eserciteranno forti pressioni sui senatori affinché non approvino queste misure. Ma se questo non andasse in porto ritengo che da parte loro sia preferibile resistere quattro anni per poi dare il benservito a questo singolare personaggio che a campagna elettorale terminata confonde ancora l'attività di governo (del Paese più influente e ricco al mondo) con un TV show stile The Apprentice.
Se così andasse l'unica cosa che porterà a casa questo discutibile programma economico sarà solo qualche dollaro in più di entrate doganali ma più che controbilanciate negativamente da quelle fiscali.