giovedì 17 dicembre 2015

Bagnai unter alles!

Alberto Bagnai è un economista nonché docente universitario un po' singolare: non ama confrontarsi con chi non la pensa come lui e soprattutto non ama le osservazioni che mettano in dubbio le sue tesi. Francamente trovo singolare questo suo modo di fare, per quanto legittimo, soprattutto in considerazione che la maggior parte degli economisti ben più titolati di lui (vedi anche coloro che hanno conseguito ambiti riconoscimenti come il Nobel) si mostrano sempre disponibili verso tutti. Alla fine chi ci rimette però è lui stesso e coloro che lo seguono acriticamente ritenendo che quel che afferma sia del tutto inopinabile. Non certo chi ha la maturità di verificare altre fonti, altri punti di vista, potendo così realizzare che non tutto ciò che costui scrive (o afferma) sia veritiero.



Errare humanum est, perseverare autem diabolicum

Leggendo il suo articolo (QED61: Black Monday?)
pubblicato il 13 Dicembre sul suo blog, Goofynomics, ci si può imbattere in una delle oramai vetuste quanto inesatte affermazioni ripetute migliaia di volte:


Davvero il governo Monti, insediatosi a metà Novembre del 2011, è il principale fautore della politica di rigore varata a seguito della crisi che ha coinvolto i nostri titoli di Stato a metà del 2011? Politica che secondo un economista come Bagnai avrebbe avuto come unico effetto quello di deteriorare la domanda interna? Io ricordo di aver assistito ad un film diverso, oppure differiscono le nostre interpretazioni. Io rammento che per l'intero primo semestre di quell'anno il governo in carica, il governo Berlusconi quater, si prodigò per rassicurare gli italiani che l'economia italiana era in buona salute. I ristoranti erano pieni e difficilmente si trovava posto sui voli turistici (4 Novembre 2011).

Agli inizi di Agosto congedò la stampa augurando a tutti buone ferie e dando appuntamento alla fine del mese. Peccato che non si rese conto che il 4 Agosto 2011 il differenziale tra i tassi di interesse sui titoli decennali italiani e tedeschi aveva raggiunto i 390 punti base (3,90%) e la BCE di Trichet e Draghi (subentrante) inviò Venerdì 5 Agosto una lettera di richiamo alla realtà al governo italiano avvisandolo che per calmierare la febbre sui nostri titoli era necessario che il governo effettuasse delle misure sia di contenimento della spesa pubblica che di efficientamento nel mercato del lavoro. In assenza di provvedimenti la BCE non sarebbe intervenuta acquistando sul mercato secondario i nostri titoli del debito.
Venerdì 12 Agosto 2011 Berlusconi e Tremonti si ripresentarono in conferenza stampa illustrando una manovra da ben 45 mld di euro (!), metà con efficacia nel 2012 e la restante nel 2013.


Questo non servì per far tornare la tranquillità in quanto per l'intero secondo semestre i mercati temettero per una rottura dell'eurozona e di conseguenza abbandonarono gli investimenti sui titoli sovrani dei Paesi in crisi (Italia, Grecia, Spagna e Portogallo in primis) per trasferirli sui titoli più sicuri ancorché con rendimenti inferiori, in particolare quelli tedeschi e francesi.

A Novembre il governo Berlusconi perse la maggioranza alla Camera e la conseguenza furono, data l'imminente richiesta di una mozione di sfiducia, le dimissioni dell'intero governo dopo aver ricevuto rassicurazioni da parte del Presidente Napolitano di non andare subito alle urne ma di verificare la possibilità di formare un governo dalle larghe intese composto da cosiddetti tecnici ma sostenuto comunque dalla politica. Ed ecco il governo Monti, il quale contrariamente a quanto si recita non fece altro che confermare la pesante manovra varata dal suo predecessore. Il governo Monti varò anch'esso interventi alla spesa ma la parte maggioritaria la si deve attribuire all'accoppiata Berlusconi-Tremonti i quali sono meno oggetto di critica per il semplice motivo che la loro manovra, varata nell'Agosto del 2011, era riversata sugli esercizi successivi (2012 e 2013) cioè quando loro non erano più al governo.
Chi lo desidera può riservarsi un quarto d'ora per ascoltare dalla viva voce di Berlusconi i contenuti di codesta manovra.


E' nato prima l'uovo o la gallina?

Il prof.Bagnai torna poi per l'ennesima volta a puntare il dito contro la Germania sostenendo che l'euro avrebbe favorito le loro esportazioni a discapito di tutti gli altri in quanto l'euro, non rivalutandosi come avrebbe fatto presumibilmente una moneta tutta tedesca come il vecchio Deutsche Mark, avrebbe reso i loro prodotti più competitivi in termini relativi rispetto a quelli realizzati negli altri Paesi dell'eurozona. Questo è vero, certo, ma solo in parte, in minima parte, e vediamo il perché.
Prima di avere una domanda crescente di moneta, o meglio di valuta a livello internazionale, occorre che i prodotti siano venduti e per essere venduti devono prima soddisfare i consumatori. Ad inizio millennio, ovvero ad inizio era euro, lo sanno oramai anche le capre che l'economia tedesca era affetta da carenza di competitività tanto che proprio gli economisti la definirono la "malata d'Europa".
In un contesto come quello l'euro non poteva fare nulla a favore dei prodotti tedeschi, occorreva prima far si che fossero più competitivi e solo dopo, a seguito di una crescita delle vendite a cui non sarebbe seguita quella dei rapporti di cambio dell'euro con le altre valute (quantomeno non proporzionalmente), i prodotti tedeschi avrebbero beneficiato di una specie di 'bonus'. Cioè se con il vecchio marco i prodotti tedeschi fossero risultati più cari (esempio rispetto al prezzo espresso in dollari) di una determinata percentuale, il fatto che l'euro non rivalutandosi allo stesso modo (ma meno) avrebbe rincarato in misura inferiore i prezzi valutati in altra valuta (dollaro) e quindi i prodotti risulterebbero per l'appunto favoriti. Ma nei fatti è stato davvero così?

Se osserviamo l'andamento del cambio euro/dollaro dal 1999 vediamo che dal 2002 al 2008 l'euro si è apprezzato progressivamente, tranne una interruzione nel 2005, da 0,88 USD per 1 euro a ben 1,56 USD sempre per 1 euro, un apprezzamento di circa il 77%!


Ora guardiamo l'andamento delle esportazioni della Germania nel medesimo periodo. Come si può verificare sono passate da 651 mld del 2002 a 786 mld di euro nel 2005 (+21%) ed a 984 mld nel 2008 a cui corrisponde un ulteriore +25% rispetto al 2008 e un +51% dal 2002. Insomma a fronte di un incremento del 51% delle esportazioni il cambio è cresciuto del 77%!


Sicuramente si obietterà che l'incremento dell'export ha riguardato prevalentemente lo scambio con i Paesi dell'eurozona, ma non è così! Se si scende nei dettagli i Paesi che acquistano di più il "made in Germany" sono dopo la Francia, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Cina. Ma per dare dati precisi le vendite tedesche verso l'eurozona sono state nel 2002 di 276 mld di euro e nel 2008 hanno raggiunto quota 418 mld, quindi con incremento del 51%. Per differenza, verso i Paesi sia europei non facenti parte dell'area euro che extra europei, l'export è passato da 374 mld a 566 mld, quindi con un incremento sempre del 51%. Insomma, sicuramente l'unione monetaria ha favorito in parte la competitività dei prodotti tedeschi in quanto è venuto a mancare l'effetto cambio ma sostenere che questo è stato l'elemento determinante per la crescita delle esportazioni tedesche è eccessivo visto che l'incremento dell'export tedesco ha riguardato in egual misura i Paesi che non hanno adottato l'euro.

La (favola della) 'politica mercantilista'

Nel j'accuse contro la Germania non poteva mancare la solita stupidaggine della 'politica mercantilista' che avrebbe perseguito il Paese della Merkel allo scopo di 'fregare il vicino', meglio conosciuto nella versione originale inglese 'beggar thy neighbour'.
Io di tesi assurde se ho sentite diverse ma questa le batte davvero tutte! Il mercantilismo in sostanza è un tipo di politica economica tesa a favorire le esportazioni creando allo stesso tempo barriere alle importazioni in maniera da raggiungere un surplus commerciale e quindi accrescere la posizione economica dello Stato rispetto agli altri. Questo tipo di politica ha caratterizzato alcune economie del XVI ed in particolare il XVII secolo, principalmente quelle di Francia e Gran Bretagna ma anche molti Comuni italiani. Non volendo entrare nei dettagli suggerisco a chi lo desiderasse di informarsi presso fonti autorevoli (esempio L'enciclopedia Treccani: il mercantilismo). Una volta chiara la definizione si può passare ad analizzare la politica economica della Germania da fine secolo scorso ad oggi e verificare se questa ha delle attinenze con la dottrina mercantilista per il semplice fatto che di recente ha raggiunto valori sempre crescenti di avanzo delle partite correnti, ottenuto grazie ad un incremento delle esportazioni in misura maggiore rispetto alle importazioni.

Che questo sia stato conseguito in virtù di una politica che avrebbe penalizzato le importazioni e al contrario favorito le esportazioni, politica che avrebbe avuto come nodo centrale la dinamica dei salari e nello specifico come la definisce qualcuno una 'deflazione salariale', è una fesseria che si può smentire facilmente ricostruendo gli avvenimenti dall'unione monetaria ad oggi.

Per cominciare si osservi l'andamento della produttività tedesca per ora lavorata (in tedesco: Arbeitsproduktivität je geleisteter Erwerbstätigenstunde) del settore industriale manifatturiero (in tedesco: Verarbeitendes Gewerbe) dal 1999 al 2014 nel seguente grafico da me costruito con dati dell'Ufficio Federale di Statistica di Wiesbaden:


La pubblicazione dalla quale sono stati presi i dati è questa:


Come si nota la produttività cresce sensibilmente a partire dal 2002 per poi decrescere con l'arrivo della crisi del 2008, andamento logico considerando che la produttività generalmente è direttamente legata alla produzione, ovvero cresce all'aumentare della produzione realizzata e viceversa.

Ora si guardi l'andamento dei salari e retribuzioni lorde nominali per ora lavorata (in tedesco: Bruttolöhne und -gehälter je geleisteter Arbeitnehmerstunde) nel settore manifatturiero sempre per lo stesso periodo:


L'incremento è stato sempre crescente sebbene contenuto, non si notano riduzioni o incrementi nulli come l'affermazione 'deflazione salariale' lascerebbe intendere. E' vero che i valori riguardano i compensi lordi nominali e quindi occorre tenete conto dell'aumento dei prezzi per verificare se il potere di acquisto sia cresciuto, calato o rimasto costante. Nel periodo 2002÷2008 (quello principalmente incriminato a detta del prof.Bagnai e di chi accusa la Germania di concorrenza sleale) i salari sono cresciuti mediamente del 2% all'anno, un po' di più di quello dei prezzi pertanto si può ragionevolmente affermare che nel settore manifatturiero i salari sono cresciuti, seppur di poco, in termini reali. In altri settori, come quello dei servizi, vi possono essere stati andamenti diversi ma in quello manifatturiero come si è visto non è stato così e quindi è del tutto privo di fondamento affermare che vi sia stato un comportamento in qualche modo lesivo della Germania nei confronti dei partner dell'area euro. Il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP), che è il parametro più significativo per determinare la competitività, ha registrato un andamento migliore più per l'aumento della produttività che per un contenimento dell'incremento del costo del lavoro, la cosiddetta moderazione salariale, che sicuramente c'è stata ma per ragioni non certo imputabili ad una politica complottista.


Il prof.Bagnai in un articolo del 2012 con conteggi fatti in proprio ha stimato un calo delle retribuzioni in termini reali di circa il 6% dal 2003 al 2009. In quella analisi lui però ha preso dati complessivi dei lavoratori occupati in tutti i settori come fa notare lui stesso ("...occupati dipendenti - in inglese Total employees") e non nel solo settore manifatturiero, quello cioè più significativo nel fare confronti internazionali sulla competitività delle merci scambiate (che influenza significativa ha un calo delle retribuzioni nel settore delle costruzioni?). In ogni caso va anche fatto presente all'esimio docente di Economia dell'Università di Chieti e Pescara che un calo del 6% (ammesso, ma per quanto prima dimostrato non concesso, che ci sia stato) del livello delle retribuzioni in termini reali, non determina un incremento sensibile della competitività in quanto il costo del lavoro nel settore manifatturiero rappresenta generalmente una quota tra il 15 ed il 20% del costo totale di prodotto. Questo significa che anche a fronte di un'incidenza del 20% del costo del lavoro su quello totale, con un calo del 6% il prodotto finale costerebbe circa l'1,2% in meno!
Credo che l'impresa otterrebbe ben maggiori vantaggi delocalizzando la produzione in un Paese dove il costo non sia il 6% inferiore ma molto meno, ad esempio un quarto (V.Repubblica Ceca e/o in Polonia):


Merita una osservazione anche l'analisi dei settori merceologici che caratterizzano il confronto tra Paesi a livello di commercio estero. Se ad esempio Italia e Germania si confrontassero con prodotti del tutto simili e comunque nel medesimo settore merceologico potrei concordare sul fatto che un calo del CLUP anche lieve potrebbe fare la differenza, ma se la quota prevalente delle esportazioni italiane e tedesche si riferiscono a differenti settori merceologici non vedo come il Paese che riduce lievemente la componente del lavoro, che come visto prima rappresenta una quota contenuta sul totale, possa conseguire un vantaggio rilevante.



Va poi precisato che la cosiddetta 'moderazione salariale', che c'è stata solo parzialmente, non deriva da una intenzione di compiere una concorrenza scorretta verso i partner dell'eurozona, ma per recuperare competitività che nei primi anni 2000 era affetta da crisi profonda. Le aziende necessitavano di abbattere i costi e molte di lavoro hanno delocalizzato la produzione all'estero, prevalentemente nei Paesi dell'est Europa, e per evitare una profonda emorragia imprese e sindacati si sono accordati di recuperare competitività sacrificando il legame tra l'aumento delle retribuzioni a quello della produttività, ma lasciando che quest'ultima crescesse a tassi maggiori onde, come poi è avvenuto e come sopra è riportato, ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto a fronte dei principali concorrenti internazionali della Germania: Stati Uniti e Cina. Se infatti verso i prodotti cinesi la concorrenza può avvenire solo sul fronte della qualità e del vantaggio tecnologico, verso quelli statunitensi il confronto riguarda anche il prezzo e dato che il costo del lavoro negli Stati Uniti è inferiore a quello delle economie più avanzate europee e della Germania stessa, ecco l'esigenza di trovare una soluzione per ridurlo.
Si noti ad esempio come la maggior parte delle esportazioni di Polonia e Repubblica Ceca sono verso la Germania, in larga parte però di aziende controllate da capitale tedesco.

Non va poi trascurato il fatto che nonostante una crescita più moderata nel tempo dei salari, ad oggi il costo del lavoro orario in Germania è maggiore che da noi, ciò significa che a parità di altri fattori produrre un bene da noi è più conveniente dello stesso realizzato in Germania.
Questo gli imprenditori italiani lo sanno ed è per questo che non aderiscono alla invocazione di economisti come Bagnai di uscire dall'euro per uscire dalla crisi, ma desiderano poter operare in un contesto simile a quello dei loro competitors tedeschi sul piano dell'efficienza dei servizi, delle vie di comunicazione, dell'apparato pubblico e del livello della pressione fiscale!

Tornando alla Germania si afferma poi che questa 'moderazione salariale' abbia compresso la domanda interna e quindi le importazioni e che anche la spesa pubblica si sia ridotta. Bene, mentre per questa seconda categoria si può concordare, la spesa pubblica privata è cresciuta costantemente, anche se in misura contenuta, anno dopo anno:



Sinceramente ritengo preferibile una crescita lenta ma costante nel tempo dei consumi privati come quella tedesca piuttosto che a 'scatti', alimentata come accaduto da bolle speculative che possono prima o poi determinare effetti negativi, specialmente se provocati da shock finanziari come quello del 2008.

Il prof.Bagnai dovrebbe mostrare un po' di umiltà e confrontarsi con gli imprenditori, soprattutto coloro che operano sui mercati internazionali, così saprebbe quali sono i veri ostacoli alla nostra competitività. Altro che euro(pa)!

Gli imprenditori italiani, e veneti in particolare, non sono quelli che lui descrive:



ma sono questi:




e qui il discorso di apertura del suo presidente in occasione della 70° Assemblea Generale tenutasi a Verona il 09 Novembre 2015:



Costoro ogni giorno lavorano dall'alba al tramonto con dedizione, spirito di sacrificio e ottimismo (l'essenza di ogni imprenditore) e non credono che la via per migliorare la competitività passi attraverso un ritorno al passato, non tanto ad una propria valuta ma ad una cultura che è invece alla base delle difficoltà che ci caratterizzano oggi.