sabato 7 marzo 2015

€urexit - La Grande Illusione

E' trascorso quasi un anno dalle elezioni europee, in occasione delle quali si è dibattuto a lungo circa la possibilità di una uscita dall'euro ed un ritorno alla lira da parte dell'Italia individuando presunti vantaggi derivanti da questa soluzione. Nonostante la maggioranza degli elettori abbia mostrato scarso interesse verso questa tesi preferendo dare la fiducia a partiti che apertamente si sono schierati dalla parte del mantenimento della moneta unica europea, oppure, nel caso di quei partiti che come la Lega Nord al contrario hanno basato la propria campagna sull'uscita hanno preferito mandare a Bruxelles candidati di lunga militanza come Borghezio piuttosto che ad esempio Claudio Borghi, dicevo nonostante questo si discute ancora animatamente di questo argomento e l'andamento negativo della nostra economia durante il 2014 non ha fatto altro che mantenere alto l'interesse.

Ma quali sono le argomentazioni di chi invoca il ritorno ad una moneta tutta "made in Italy"? Sostanzialmente i vantaggi invocati sono due:

- La possibilità di finanziare i deficit pubblici da parte di una banca centrale alle dipendenze del governo e che funga in tal modo da suo 'bancomat'.
- Un recupero di competitività internazionale dei prodotti italiani dovuto al deprezzamento (o svalutazione) della nostra moneta verso quelle più forti: dollaro, sterlina ed euro (o nel caso di una sua completa dissoluzione rispetto al marco tedesco ed al franco francese - o comunque alle monete che questi due Paesi tornerebbero ad adottare).

Ma sono realistici questi presunti vantaggi? Se ne è discusso molto tra chi li ritiene fondati e chi, come il sottoscritto, assolutamente no. Se ne parla proprio in questi giorni di fronte alla situazione critica in Grecia anche se il governo Tsipras ha apertamente escluso la possibilità di una loro uscita dall'eurozona.
In ogni caso mi interessa spiegare perché non credo sostenibile la tesi che vuole una uscita dalla crisi ed una ripresa economica (solo) uscendo dall'euro.

Finanza pubblica
Analizziamo il primo argomento sostenuto da coloro favorevoli ad un ritorno alla lira: il finanziamento attraverso monetizzazione da parte della Banca d'Italia di tutto o di parte del deficit delle amministrazioni pubbliche.
Quando un governo spende più di quanto incassa dalle entrate fiscali, ha due possibilità per coprire il disavanzo: chiedere denaro in prestito emettendo obbligazioni oppure chiedere alla propria banca centrale di finanziare il corrispondente accreditando l'importo sul conto che il Tesoro detiene presso di essa.
Prima del divorzio tra la Banca d'Italia ed il Ministero del Tesoro del 1981 accadeva che quest'ultimo emetteva titoli del debito (perlopiù a breve o media scadenza) ad un determinato tasso di interesse e assegnava un prezzo minimo di collocamento al di sotto del quale non potevano essere venduti all'asta. I titoli che non venivano collocati li doveva acquistare obbligatoriamente la Banca d'Italia ad un prezzo prestabilito accreditando l'importo sul conto del Ministero del Tesoro. Insomma è come se noi potessimo pretendere dalla nostra banca la concessione di un prestito ad un tasso massimo da noi stabilito. All'apparenza sembra essere una soluzione alquanto valida e rispondente alle necessità di spesa pubblica, però occorre prendere in considerazione anche gli aspetti che stanno "dall'altro lato della medaglia", ovvero le conseguenze sui prezzi. Più moneta comporta una maggiore inflazione e anche se non c'è una formula matematica che possa stabilire l'esatta corrispondenza, il concetto rimane valido e dimostrato empiricamente. Se infatti guardiamo al caso italiano lo possiamo verificare chiaramente

La figura seguente, che spero sia chiaramente leggibile una volta che se ne seleziona la dimensione originale cliccandoci sopra, è tratta da una relazione del Direttore Generale del Ministero del Tesoro in occasione di una audizione parlamentare del 20/12/1999 e mostra il peso della spesa pubblica corrente, delle entrate fiscali ed i relativi saldi in rapporto al Prodotto Interno Lordo:



Come si può osservare, mentre negli anni '60 si registra un avanzo dovuto alla maggiore entità delle entrate rispetto alle uscite, a partire dal 1971 si registra un deficit che va via via aumentando fino ad arrivare al 7,1% del PIL nel 1975. In questo decennio (1971-1981) lo Stato quindi deve finanziare il deficit emettendo titoli del debito e obbligando la Banca d'Italia ad acquistare quelli invenduti. Le conseguenze sui prezzi si possono vedere chiaramente dal grafico seguente che riporta l'andamento in termini di variazione percentuale annua dei prezzi del paniere di prodotti per le famiglie di impiegati ed operai nel periodo 1962-1999:



Si noti come prima del 1971, anno in cui lo Stato registra una spesa pubblica corrente superiore alle entrate, l'inflazione sia sicuramente alta rispetto ai valori a cui siamo abituati oggi, ma che proprio a decorrere da quell'anno questa si incrementi notevolmente e raggiunga valori a due cifre fino al già menzionato divorzio tra la nostra banca centrale ed il Tesoro. Dal 1981 infatti la Banca d'Italia non è più costretta ad acquistare i titoli del debito invenduti emessi dal Ministero del Tesoro e quest'ultimo dovrà quindi affrontare le leggi di mercato variando i tassi di interesse per adeguarsi alla domanda. In pratica durante fasi di crisi o sfiducia dovrà offrire agli investitori un premio maggiore aumentando l'importo della cedola e viceversa ridurlo in fasi favorevoli.

Ad onor di verità va ricordato che a spingere i prezzi negli anni '70 ha contribuito anche lo shock petrolifero e la politica monetaria statunitense, che verso la fine del 1979 diventando restrittiva sulla base delle teorie monetariste ha fatto crescere i tassi di interesse coinvolgendo così anche gli altri Paesi. Ma qui non è il caso di approfondire ulteriormente le cause e si rimanda eventualmente ad analisi specifiche sull'argomento, rimane il fatto che 'stampare moneta' per far fronte a deficit sensibili (oltre il 2÷3%) comporta quasi sicuramente un aumento altrettanto sensibile dei prezzi con effetti negativi soprattutto per i redditi fissi e (relativamente) bassi.
Si pensi all'abbinamento prezzi-tassi di interesse e la loro influenza sui redditi da lavoro dipendente e quindi fissi o perlomeno relativamente rigidi. Una famiglia si troverebbe ad affrontare due problematiche: l'incremento dei prezzi e quello dei tassi di interesse sui prestiti e nella fattispecie in particolare dei mutui con conseguente incremento della rata dovuta per contratti a tasso variabile.

Recupero competitività
Il secondo argomento cardine portato avanti dai sostenitori del ritorno alla lira consiste nel presunto recupero di competitività internazionale dei nostri prodotti una volta che la nuova moneta (la lira) si svalutasse rispetto alle principali valute (dollaro, euro o singole valute nazionali se l'eurozona si dissolvesse completamente) rendendo così più appetibili le nostre merci e al contrario più onerose quelle straniere, migliorando così la bilancia commerciale.
Questo è un aspetto che va analizzato adeguatamente perché è alquanto importante. Secondo i fautori dell'euroexit il meccanismo benefico di trasmissione consisterebbe in questo:



Da un primo punto di vista logico non fa una piega. All'estero vedrebbero più convenienti i nostri prodotti che verrebbero così preferiti. All'aumento delle vendite all'estero corrisponde più produzione e quindi più occupazione. Chiaro, semplice, lineare. Ma è davvero così?
Vediamo cosa ci dicono i dati storici reali. Nella figura seguente sono riportati i cambi della lira rispetto al dollaro USA ed al marco tedesco nel periodo 1970÷1999:




Come si vede il cambio con il marco tedesco (DEM) vede una crescita di quest'ultimo in gran parte lineare fino al 1992 mentre il dollaro statunitense registra una crescita sostenuta nel periodo 1981÷1985 per poi tornare a scendere sensibilmente dal 1985 al 1992. Mentre gli effetti sulla bilancia commerciale sono stati quelli che i sostenitori dell'euroexit amano rappresentare, in particolare a seguito dell'uscita temporanea della lira dallo SME nel 1992, le conseguenze sull'occupazione sono state tutt'altro come si può vedere dalla figura seguente e che i sostenitori (del ritorno alla lira) evitano accuratamente di mostrare:



Come si vede chiaramente, nel periodo 1982÷1985, cioè quando la lira si è deprezzata molto rispetto al dollaro (84%) e sensibilmente rispetto al marco tedesco (27%), l'occupazione è cresciuta di poco e a tassi non particolarmente rilevanti. Nel periodo seguente, quando è stato il dollaro a deprezzarsi rispetto alla nostra lira (-35% nel quinquennio 1986÷1991) e il marco tedesco è cresciuto appena di un 11% nello stesso periodo, l'occupazione ha registrato incrementi maggiori.
La mancata correlazione è ancora più evidente dal 1992, quando la lira uscì dallo SME e si deprezzò rispetto a tutte le valute più importanti. L'occupazione, nonostante l'aumento delle esportazioni e la riduzione delle importazioni con conseguente miglioramento del saldo commerciale, ha registrato un calo rilevante pari a circa 750.000 posti dal 1992 al 1995.
Poi dal 1996, ovvero dall'anno in cui la lira rientrò nello SME, l'occupazione riprese a crescere recuperando l'emorragia del triennio prima menzionato e aggiungendo nuovi posti proprio quando il cambio della lira rimane rigido ed in seguito quando viene adottato l'euro.

Prima di spiegarne le ragioni desidero mostrare una 'chicca'. Si osservi il grafico seguente che rappresenta il peso in percentuale sul PIL di esportazioni ed importazioni e prima di proseguire a leggere si faccia caso se si rileva qualcosa di curioso:



Durante il periodo della lira e della sua possibilità di correggere la parità di cambio con le altre valute, il livello delle esportazioni si è mantenuto pressoché costante attorno al 20% del PIL, poi sale sensibilmente proprio all'approssimarsi dell'adozione dell'euro e cioè quando il cambio è per forza di cose fisso con chi ha adottato la stessa valuta, inoltre tali esportazioni crescono in seguito nel periodo in cui l'euro si apprezza nei confronti del dollaro USA.
Insomma fin qui i dati reali smentiscono del tutto le argomentazioni avanzate dai sostenitori del ritorno alla lira. La bilancia commerciale migliorerà pure, ma a che serve se allo stesso tempo non ho gli stessi risultati sull'occupazione e anzi al contrario si perdono posti di lavoro?

E veniamo al perché a fronte di una svalutazione non si conseguono sempre vantaggi. La ragione è semplice: perché non si vive di solo export. I conti, e questo le imprese lo sanno, si fanno considerando tutti i mercati, quello estero ma anche (e soprattutto) quello interno. Se immaginiamo l'Italia come una unica impresa che fattura il 70% internamente ed il restante 30% all'estero, cosa mi porta di vantaggioso vedere crescere ad esempio del 20% l'export se poi sul mercato interno perdo per uno stesso 20%, oppure di una percentuale che compensa il primo incremento?
La figura seguente riporta i dati relativi ai consumi nazionali e osservandola attentamente si può notare la corrispondenza con l'andamento dell'occupazione, segno che questa è maggiormente legata alla domanda interna piuttosto che alle esportazioni, che comunque rivestono anch'esse un peso rilevante:



Come si può facilmente osservare a seguito della svalutazione della lira nel 1992 la domanda interna è crollata ed ha avuto effetti negativi sull'occupazione nonostante l'aumento sensibile delle esportazioni.

Ma allora cosa servirebbe per far ripartire l'economia se la strada dell'uscita dall'euro non fosse quella giusta? Per rispondere è necessaria un'analisi specifica, intanto un anteprima di quella che dal mio punto di vista è la via da seguire è individuabile nella prima figura, quella tabella che mostra il peso sia della spesa pubblica che delle entrate sul PIL dal 1960 al 1987. Si confrontino i valori con quelli odierni o comunque quelli a partire dagli anni '80.