mercoledì 17 giugno 2015

Alcuni chiarimenti sui fondi salvastati EFSF e ESM

Mi è capitato di leggere un po' dappertutto e anche su testate nazionali affermazioni imprecise circa il funzionamento dei fondi salvastati EFSF e ESM riguardanti il loro funzionamento ed il modo in cui finanziano gli Stati a cui viene concesso loro l'aiuto, ma soprattutto le fonti di finanziamento. Facciamo allora un po' di chiarezza.

Premessa
I fondi salvastati sono stati creati a seguito della crisi finanziaria del 2008 che ha messo in difficoltà alcuni Paesi dell'area euro i quali si sono trovati nella condizione di non riuscire a collocare i titoli del debito emessi dal proprio governo a condizioni (leggi tassi di interesse) accettabili. Per questa ragione nel Giugno del 2010 è stato creato in via provvisoria il fondo European Financial Stability Facility (EFSF) con il compito di dare sostegno finanziario ai Paesi dell'area euro in difficoltà e i cui Paesi costituenti sono proprio i 17 (all'epoca) membri. In seguito, nell'Ottobre del 2012, ha preso il via un secondo fondo, questo permanente: lo European Stability Mechanism (ESM) e dal 1 Luglio 2013 il precedente EFSF ha terminato la sua operatività e rimane attivo solo per concludere l'impegno assunto nei confronti della Grecia e terminerà definitivamente di esistere una volta che riceverà il rimborso di tutti i prestiti assegnati.

EFSF
Questo fondo è stato funzionale ad aiutare finanziariamente Irlanda (17,7 mld €), Portogallo (26 mld €) e Grecia (143,6 mld €). La capacità complessiva di prestito era prevista in 440 miliardi di euro per un importo complessivo garantito da parte degli Stati membri di 780 miliardi di euro. Cioè i 17 Stati costituenti hanno sottoscritto una garanzia fino a 780 miliardi complessivi a fronte di una possibilità (o capacità) di prestito fino a 440 miliardi di euro.

Quello che leggo spesso in giro e che non corrisponde alla realtà è dove il fondo raccoglie il denaro che usa per darlo in prestito ed il ruolo assunto dai 17 Stati membri.

Il fondo EFSF, così come il successivo ESM, non usa alcun contributo dai Paesi sottoscrittori, ovvero raccoglie i fondi emettendo sul mercato obbligazioni garantite dagli Stati membri.

Per cui a fronte degli aiuti concessi a Irlanda, Portogallo e Grecia per complessivi 187,3 miliardi di euro sono state emesse obbligazioni collocate sul mercato, obbligazioni acquistate da investitori vari a tassi relativamente bassi e sicuramente inferiori a quelli che i singoli Paesi in difficoltà avrebbero potuto contrattare.
Gli Stati membri del fondo EFSF garantiscono la copertura di queste obbligazioni in misura pro-quota secondo la seguente tabella (fonte EFSF):


Come si può notare i tre paesi che hanno ricevuto aiuti più Cipro non hanno dovuto garantire nulla in quanto beneficiari.
Alcuni credono che gli importi concessi loro siano stati versati dai restanti partner, Italia compresa, ma non è così! Il denaro proviene da chi ha acquistato le obbligazioni mentre i partner devono solo garantire pro quota il loro ammontare. Un elemento che trae in inganno è un grafico pubblicato dalla Banca d'Italia che mostra l'impegno finanziario italiano a fronte dei fondi salvastati:


Osservandolo si potrebbe dedurre che l'Italia abbia versato circa 60 miliardi di euro quale sostegno finanziario ai paesi dell'Unione Europea e Monetaria (UEM), ma non è esattamente così. Questo grafico mostra in realtà il peso sul debito pubblico di tre voci: i prestiti erogati a seguito di accordi bilaterali (circa 10 mld); i quasi 36 miliardi quale garanzia dei prestiti effettuai dal fondo EFSF ed infine i 14,33 miliardi effettivamente versati al fondo ESM di cui rimando la spiegazione.
Veniamo alla seconda voce, i circa 36 miliardi abbinati al fondo EFSF. Questi non sono stati versati ad alcuno ma sono solo la quota di garanzia di nostra competenza derivante dal totale che il fondo ha concesso: 187,3 miliardi. Dalla tabella sopra si vede che la nostra quota di competenza è del 19,2233% da cui si ottengono appunto i quasi 36 miliardi.

Ma se questi soldi non sono stati versati perché rientrano nel debito pubblico?
Semplicemente perché stando ad una nota diffusa da Eurostat (l'ente di statistica europeo), il fondo EFSF, a differenza del fondo ESM, non è riconosciuto come organismo internazionale e quindi contabilmente la quota di garanzia anche se non versata, né al fondo né tantomeno ai Paesi beneficiari di aiuti, deve aggiungersi all'ammontare del debito pubblico già presente. Insomma è una semplice regola contabile.

Questo comporta che solo nel caso i Paesi beneficiari di aiuti non rimborsassero i rispettivi prestiti saremmo chiamati a farlo noi assieme agli altri partner versando tutto o parte di quell'ammontare, cioè per il fondo EFSF circa 36 miliardi. Se invece venisse rimborsato tutto, allora non saremmo chiamati a versare alcunché e alla fine l'ammontare verrebbe stornato dal totale del debito pubblico.
Questa precisazione è doverosa visto che in questo periodo si parla di un possibile default della Grecia e delle possibili conseguenze. Noi abbiamo prestato con accordi bilaterali alla Grecia 10 miliardi e 27 miliardi circa sono quelli impegnati quale garanzia a fronte dei 143,6 miliardi complessivi concessi dal fondo EFSF. Questo impegno quindi si trasformerà in esborso effettivo solo in caso di insolvenza da parte della Grecia ed il cui ammontare dipenderà dall'entità del mancato pagamento sulla base della quota di nostra competenza (19,2233%).

ESM
Il fondo ESM si comporta come il precedente solo che si differisce dal fatto che ha una personalità giuridica internazionale, cioè è un organismo di diritto internazionale e possiede un proprio capitale.
La sua capacità di prestito è di 500 miliardi di euro mentre il capitale sottoscritto è di 704,8 miliardi e le quote di competenza per nazione sono indicate nella seguente tabella (fonte ESM):


L'Italia ha una quota di competenza del 17,8643% a cui corrispondono 125,4 miliardi di euro. Del totale sottoscritto, una parte pari a 80,55 miliardi è stata versata quale capitale di funzionamento e garanzia (Paid-in Capital) e la quota di nostra competenza è stata pari a 14,33 miliardi, il cui versamento è stato interamente effettuato in 4 rate: Ottobre 2012 - Aprile 2013 - Ottobre 2013 - Aprile 2014.
L'ammontare restante per complessivi 624,3 miliardi sarà richiesto solo se necessario (Committed Callable Capital) in caso si dovessero concedere aiuti ingenti ma in particolare se qualche beneficiario non dovesse rimborsare quanto ricevuto.
Il fondo ESM infatti raccoglie il denaro emettendo obbligazioni ad alto rating, quindi a condizioni particolarmente favorevoli, e lo usa per il sostegno ai Paesi in difficoltà. Il capitale versato invece rimane investito in titoli ad alta affidabilità e non viene usato per prestiti.
Finora il fondo ESM ha concesso aiuti alla Spagna (ristrutturazione settore bancario) per 41,3 miliardi di euro di cui 3,1 già restituiti e a Cipro per 9 miliardi di cui 5,7 miliardi già consegnati.


Chi ritiene che i 14,33 miliardi di euro versati al fondo ESM siano da considerarsi a fondo perduto si sbaglia, questi sono da ritenere la parte di nostra competenza in conto capitale nel fondo, che in caso di scioglimento dello stesso o di nostra uscita ci verrebbero rimborsati. Si eviti quindi di generare allarmismi o inutili sentimenti ostili facendo intendere che i contributi ai fondi salvastati siano soldi persi quando non è così.

lunedì 15 giugno 2015

La Produttività, questa sconosciuta

Raccolgo l'invito, quasi una intimazione considerata la sollecitazione ripetutamente reiterata, del prof.Antonio M.Rinaldi di scrivere un articolo nel quale esprimere le mie considerazioni riguardanti l'euro, la crisi e le soluzioni per uscirne, in alternativa all'abbandono della moneta unica ed il conseguente ritorno alla lira, ipotesi da lui ampiamente condivisa ed auspicata.
Premetto che io rifiuto le categorizzazioni pro- o antieuro così come pro- o antilira, qui non è questione di essere pro o contro qualcosa, ma di comprendere se un eventuale cambiamento di moneta possa risolvere quantomeno in parte la situazione di crisi e di difficoltà economica nella quale si trova ad essere in maniera particolare il nostro Paese che da decenni registra una crescita inferiore rispetto alle nazioni più industrializzate.
La scelta poi non è tra euro e lira in quanto l'euro l'abbiamo già, non è quindi oggetto di scelta, ma di definire se la moneta unica sia la responsabile principale di questa situazione asfittica della economia italiana ed un ritorno alla lira, ovvero ad una moneta nazionale, sia la soluzione.

Personalmente credo di no e questo perché la causa principale della debole crescita dell'economia italiana ha motivazioni di carattere strutturale.
Innanzi tutto occorre vedere la provenienza della crisi, che sostanzialmente è una crisi da domanda. Una crisi dal mercato interno o da domanda estera? I dati sono inequivocabili e dicono che è la domanda aggregata interna la causa della nostra debole crescita. Questo grafico che è costruito prendendo una serie di dati ISTAT mostra chiaramente che l'adozione della moneta unica non ha ostacolato le nostre esportazioni che, periodo di recessione del 2009 escluso, sono sempre cresciute:


I dati si fermano al 2011 ed io ho scelto comunque questi perché mettono insieme i valori complessivi, quelli dell'eurozona a 15 e verso la sola Germania. Dal 1999 (anno di definizione dei cambi delle singole valute nazionali verso l'euro) e/o dal 2001 (anno di circolazione dell'euro) le nostre esportazioni sono costantemente salite in riferimento alle tre aree qui prese in considerazione. Ad oggi il dato complessivo sfiora i 400 miliardi di euro e questo nonostante il PIL sia diminuito, segno che non è il cliente straniero che latita, ma quello italiano.
Le ragioni della debole domanda interna sono molteplici e personalmente vorrei iniziare partendo da una variabile che a mio avviso non è considerata sufficientemente, ma che invece ne è la principale causa: la produttività!

La produttività in linea generale rappresenta la quantità di produzione (o di output) realizzata a fronte dei fattori della produzione (capitale e lavoro) utilizzati. In genere in macroeconomia è determinata dal rapporto tra valore aggiunto (o PIL) e il monte ore impiegato per ottenerlo. Il suo significato è fondamentale perché rappresenta l'ammontare di produzione, espresso in moneta locale o altra valuta, realizzata per una unità di tempo pari all'ora.
La tabella seguente è tratta dagli ultimi dati OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) disponibili e relativi all'anno 2012 di una serie di Paesi che io ho selezionato dall'elenco disponibile:


Nella prima colonna è riportato il PIL in dollari statunitensi (per un confronto omogeneo), nella seconda il numero medio di ore lavorate in un anno da un lavoratore a tempo pieno, nella terza il numero complessivo di occupati, e qui già sarebbe possibile notare una curiosità se si è in possesso del dato sulla popolazione: in Italia la percentuale degli occupati sul totale della popolazione in età lavorativa è più bassa che in altri Paesi e questo non riguarda solo l'ultimo periodo, caratterizzato da una riduzione degli occupati causa la crisi, ma anche gli anni in cui l'economia era in crescita. Inoltre si può notare come il numero di ore lavorate in Italia sia maggiore rispetto a quelle in Germania o in Francia.
Le ultime due colonne però ci offrono i dati più interessanti. Nella penultima è riportata la produttività in termini di PIL per ora lavorata calcolata a prezzi correnti in dollari statunitensi e nell'ultima colonna il raffronto della produttività Paese per Paese con il dato degli Stati Uniti, Paese che registra il dato più elevato dopo l'Irlanda.
Come si può vedere l'Italia non brilla per produttività registrando un valore decisamente più basso rispetto agli USA e anche rispetto a Germania e Francia. Si tenga presente il dato del Giappone, simile ed inferiore a quello italiano.

In definitiva cosa ci dice il dato della produttività in penultima colonna? Ci dice in pratica che per ogni ora lavorata in Italia si producono 46,7 USD di PIL (o di valore aggiunto) a fronte dei 58,3 della Germania, i 59,5 della Francia e i 64,1 degli Stati Uniti. Prendendo in considerazione anche la seconda colonna si può giungere alla conclusione che in Italia si lavora mediamente ad esempio di più che in Germania per produrre però meno in termini di ricchezza.

Cosa implica una bassa produttività? La principale conseguenza riguarda il fatto che a fronte di una minore ricchezza prodotta vi sia una minore ricchezza da distribuire traducibile in un basso livello di reddito per i lavoratori. Difatti prendendo a riferimento sempre dati OCSE relativi ai redditi medi dell'anno 2012, calcolati a prezzi costanti del 2013 (per un confronto omogeneo con la tabella della produttività che riporta dati del 2012) e a parità di potere di acquisto, possiamo notare come i livelli presenti nei Paesi in questione rispecchino sostanzialmente il livello di produttività o per dirla più chiaramente nei Paesi dove si registra una produttività maggiore sono presenti redditi più alti e viceversa:


Si noti il dato italiano e quello giapponese, di cui prima abbiamo osservato sia un basso livello di produttività che di elevato numero di ore medie complessive lavorate annualmente, entrambi i redditi medi rilevati risultano inferiori in relazione ai Paesi con maggiore produttività.
E' quindi evidente la correlazione produttività-reddito e d'altronde è intuitivo: ad una maggiore ricchezza prodotta è possibile un maggiore reddito da distribuire ai lavoratori. Questo significa che per aumentare il reddito occorre aumentare il valore aggiunto, ovvero la produzione realizzata per ogni ora lavorata. L'Italia soffre da molti anni una carenza di produttività e questo si ripercuote sui redditi che rimangono bassi in rapporto al potere di acquisto, il che comporta una debole domanda aggregata aggravata poi da una cattiva distribuzione dei redditi e da una tassazione che oltre ad essere elevata è anche iniqua perché colpisce maggiormente le fasce di reddito medio basse, dovuto questo anche alla elevata evasione fiscale.
Da dati ISTAT la spesa complessiva per i consumi finali per l'anno 2013 delle famiglie italiane si è attestata attorno ai 935 miliardi di euro mentre quella delle famiglie tedesche residenti in Germania è stata di 1.571 miliardi, ciò equivale ad una spesa media pro-capite rispettivamente di circa 15.700 euro in Italia e di poco più di 19.300 euro in Germania, il 23% circa in più, una percentuale del tutto simile al differenziale di produttività riportata nella tabella precedente.

Cosa fare per aumentare la produttività? La produttività è un fattore strutturale e solo da riforme strutturali questa può variare sensibilmente e poco o nulla può fare l'adozione di una valuta piuttosto che un'altra, ergo il ritorno alla lira non cambierebbe la situazione. Migliorerebbe probabilmente il fatturato con l'estero per alcune imprese una volta verificatisi un deprezzamento della lira rispetto alle altre principali valute ed a parità di vendite nel mercato interno la produttività aumenterebbe, ma solo di poco, non sufficientemente per creare le condizioni per un aumento dei redditi a livelli simili di quelli registrati ad esempio in Germania o in altri Paesi del nord Europa.
Servono interventi su più fronti a cominciare da una riduzione della pressione fiscale sulle imprese. A questo si deve aggiungere una riduzione della burocrazia che per molte imprese rappresenta un costo rilevante in quanto non si tratta semplicemente di mettere più firme al posto di una, ma ad esempio permessi da richiedere con conseguente attesa per una risposta da parte di organismi pubblici che per una azienda comporta costi da sostenere.

Anche le imprese devono fare la loro parte, l'economia italiana è caratterizzata al 99% da piccole e medie imprese, molte delle quali con insufficienti mezzi finanziari propri ed eccessivamente dipendenti dal settore creditizio. I due grafici seguenti sono tratti da una relazione del prof.Carlo Arlotta in occasione del 23° congresso AMA (Associazione Professioni Economico Contabili) tenutosi a Sanremo il 17 e 18 Ottobre 2014 e mostrano a sinistra le fonti di finanziamento delle imprese ed a destra il rapporto tra capitalizzazione delle aziende quotate in borsa rispetto al PIL nazionale:


Guardando attentamente il grafico di sinistra si nota come l'incidenza dei mezzi propri per le imprese italiane (15%) sia decisamente inferiore rispetto a quelle tedesche (28%) e inglesi (44%) mentre dal grafico a destra come il ricorso alla borsa da parte delle nostre imprese come fonte di finanziamento sia molto basso e questo in gran parte dipende proprio dalle dimensioni della maggior parte delle imprese.
Occorre quindi che le nostre aziende aumentino la propria dimensione onde ridurre i costi fissi sfruttando l'economia di scala e che riducano sensibilmente la dipendenza dal settore bancario aumentando i mezzi propri oltre ad un maggiore ricorso al mercato dei capitali come fonte di finanziamento.
Serve poi un maggiore indirizzo verso produzioni ad alto valore aggiunto da realizzare internamente visto che la delocalizzazione all'estero di quelle a bassa produttività ed alta incidenza di manodopera è un processo inevitabile, in caso contrario si rischia una forte deindustrializzazione del Paese che nessuna moneta o sovranità monetaria sarà in grado di contrastare.