sabato 27 maggio 2017

Il sistema elettorale tedesco, quello originale

Sembra che alcuni partiti da noi si stiano orientando verso il sistema elettorale parlamentare di tipo tedesco. Personalmente da quello che leggo riguardo i contenuti mi sembra più una semplificazione, una versione 'all'amatriciana' dell'originale. Vediamo di analizzare come è realmente caratterizzata la legge elettorale per il Bundestag in Germania così da poter verificare analogie e differenze.
Semplificando, il sistema elettorale tedesco è di tipo proporzionale con una soglia di sbarramento, però questo presenta delle peculiarietà, che da quello che leggo circa le proposte presentate da alcuni partiti, divergono da quello tedesco originale.

Suddivisione amministrativa e circoscrizioni elettorali in Germania
La Germania come sappiamo è una Repubblica Federale, quindi la federazione (Bund) è costituita da Stati federati (Bundesländer o semplicemente Länder) e non da regioni come l'Italia. Nello specifico i Länder tedeschi sono 16, di questi 13 hanno una estensione territoriale ampia come una regione mentre 3 sono Città-Stato: Berlino, Amburgo e Brema. Dove noi abbiamo Consigli Regionali, nei Länder vi sono invece veri e propri Parlamenti.

Le circoscrizioni elettorali (Wahlkreise) per l'elezione del Parlamento (Bundestag) sono 299 e ad ogni Bundesland (o semplicemente Land) ne vengono assegnate una quantità (Zahl) in proporzione alla popolazione (Bevölkerung):


Quindi ad esempio la Baviera ha 45 circoscrizioni, Berlino 12 e così via. Mediamente in ogni circoscrizione vengono eletti 2 parlamentari (Abgeordnete):


In tabella è riportata la popolazione residente di cittadinanza tedesca in ciascun Land al 31.12.2012 ed il numero di seggi corrispondente (Sitzkontingent). Da qui si intuisce che il numero di parlamentari sia di 598 ed in effetti è così, solo che questo numero non è quasi mai rispettato e subisce un incremento dovuto a meccanismi di correzione che vediamo di seguito.

La scheda elettorale e modalità di voto
La scheda elettorale rispecchia la particolare modalità di elezione, la quale si divide in due parti: 299 seggi (metà del numero nominale o di base) vengono assegnati ai candidati che in ciascuna delle 299 circoscrizioni elettorali ottengono il maggior numero di voti, mentre i restanti - teoricamente - 299 vengono assegnati in funzione del voto espresso ai partiti.
L'elettore quindi riceverà una scheda elettorale (Stimmzettel) di questo genere:


Egli dovrà esprimere due tipi di voto (Stimme): il primo (Erststimme) per un candidato (nella sezione a sinistra) per l'elezione diretta (Direktmandat) di colui che otterrà più voti in quella circoscrizione. Il secondo voto (Zweitstimme) per il partito (nella sezione a destra). I due voti possono naturalmente riguardare candidati e partiti che non sono tra loro legati, quindi è possibile esprimere preferenza ad esempio per il candidato della SPD a sinistra e per il partito della CDU (o altri) a destra.

Modalità di assegnazione dei seggi
La modalità di assegnazione dei seggi si divide in due parti fondamentali, con la prima vengono assegnati 299 seggi ai candidati che ad ogni circoscrizione ottengono più voti, mentre per la parte rimanente (almeno altrettanti 299) in base ai voti espressi ai partiti nel secondo voto (Zweitstimme).
Prima di procedere con l'assegnazione del numero dei seggi spettanti a ciascun partito, occorre eliminare quelli che non hanno superato la soglia di sbarramento del 5%(*).

(*)Clausola di eccezione: la soglia di sbarramento può essere annullata se un partito ottiene almeno 3 mandati diretti, cioè se almeno 3 suoi candidati ottenessero il maggior numero di consensi nelle rispettive circoscrizioni attraverso il primo voto (Erststimme), il partito verrebbe inserito nella distribuzione dei seggi con una quota pari alla percentuale ottenuta con il secondo voto (Zweitstimme).

Per il calcolo dei seggi spettanti ad ogni partito che abbia superato la soglia di sbarramento (o che quest'ultima non venga applicata in quanto ha ottenuto 3 mandati diretti) si esegue una serie di passaggi che hanno una qualche complessità, questo perché il principio cardine di questo sistema elettorale è il massimo rispetto della proporzione dei seggi assegnati con quello dei voti ottenuti.
Questa fase vede conteggiati solo i secondi voti (Zweitstimme) dati al partito. Nelle elezioni del 2013 le percentuali furono le seguenti:


Da questo risultato emerge che i partiti che hanno ottenuto l'accesso alla assegnazione dei seggi in Parlamento (almeno 299) sono: CDU/CSU (o Union), SPD, (Die) Linke e Bündnis 90/Die Grünen (o semplicemente Grüne).
A questo punto si procede all'aggiornamento delle percentuali una volta esclusi i voti dati ai partiti che non hanno però superato la soglia prevista.

Processo e calcolo di assegnazione dei seggi con eventuale aggiunta del loro numero
Come scritto prima, il numero dei seggi dovrebbe essere complessivamente di 598, e questo corrisponde al numero legale (e minimo), però nel processo di assegnazione questo può essere soggetto ad incremento, vediamo perché e come.
Ogni Land ha un numero preciso di seggi assegnati in base alla popolazione, il calcolo di quelli da distribuire ai vari partiti si basa sul metodo cosiddetto Sainte-Laguë/Schepers (o del quoziente).
Seguendo questo metodo ed includendo gli arrotondamenti può capitare che serva incrementare il numero dei seggi che a quel Land sono assegnati inizialmente. Vediamo di fare un esempio prendendo in considerazione i risultati avuti nelle elezioni del 2013 nel Land dello Schleswig-Holstein, quello più a nord, al confine con la Danimarca:


I seggi di base assegnati a questo Land sono 22, per un momento non si consideri il numero effettivo di 24 riportato in tabella (inges. --> ingesamt) perché si vedrà qui di seguito la ragione di questo incremento. Intanto calcoliamo la percentuale di riferimento sottraendo quella complessiva dei partiti non ammessi, dal totale:
100 - 14,7 (Sonstige, cioè altri - quelli esclusi) = 85,3%
Se partiamo da 22 seggi complessivi da distribuire e andiamo ad assegnare quelli spettanti ad ogni partito otterremmo:
  • Union 39,2 / 85,3 x 22 = 10,1 arrotondato a 10
  • SPD 31,5 /85,3 x 22 = 8,1 arrotondato a 8
  • Bündnis 90/Die Grünen 9,4 / 85,3 x 22 = 2,4 arrotondato a 2
  • Die Linke 5,2 / 85,3 x 22 = 1,3 arrotondato a 1
Nota: in realtà il calcolo viene effettuato con i voti effettivi, io per semplicità l'ho fatto usando le percentuali.

Se sommassimo i seggi ottenuti giungeremmo a 21 complessivi, quindi non ai previsti 22 e questo per effetto degli arrotondamento che sono stati sempre per difetto (se > 0,5 l'arrotondamento è per eccesso, se < 0,5 per difetto e se esattamente 0,5 a seconda della convenienza per rispettare il numero previsto complessivo). Dato che non è ammessa l'assegnazione di un numero inferiore a quello stabilito di base, occorre aumentarlo fino a quando ai voti conseguiti corrisponderanno in proporzione per ciascun partito il numero di seggi assegnati. In questo caso il risultato richiesto è ottenuto incrementando il totale di 2 seggi, cioè a 24:
  • Union 39,2 / 85,3 x 24 = 11,0 arrotondato a 11
  • SPD 31,5 / 85,3 x 24 = 8,9 arrotondato a 9
  • Bündnis 90/Die Grünen 9,4 / 85,3 x 24 = 2,6 arrotondato a 3
  • Die Linke 5,2 / 85,3 x 24 = 1,5 arrotondato a 1
Vi sono altri casi che richiedono un incremento del numero totale di seggi che vengono assegnati alla fine ad un Land. Ad esempio, se nel caso sopra la CDU (Union) avesse ottenuto un numero di candidati eletti direttamente con il primo voto (Erststimme) in proporzione maggiore rispetto ai voti ottenuti con il secondo voto (Zweitstimme) (esempio 11 su 22 seggi, cioè il 50% e quindi > 39,2% che diventa 46% una volta esclusi i voti dei partiti che non hanno superato la soglia di sbarramento) si sarebbe proceduto ad un aumento per rispettare comunque la proporzione tra i partiti.

Una volta effettuata questa distribuzione Land per Land il risultato finale deve rispettare la proporzione dei voti ottenuti complessivamente dai partiti, nel caso delle elezioni del 2013 questo ha portato ad un totale di 631 seggi (totale federale --> Bundesgebiet), ovvero 33 seggi aggiuntivi:


Verifichiamo. Partiamo dal calcolare la percentuale di voti complessivi dei partiti che hanno superato la soglia: 100 - 15,8 (cioè il totale di quelli che non ce l'hanno fatta) = 84,2%. Ora calcoliamo i seggi spettanti a ciascuno in base alla percentuale di voti ottenuti rispetto al totale di quelli ammessi:
  • Union 41,5 / 84,2 x 631 = 311,0 arrotondato a 311
  • SPD 25,7 / 84,2 x 631 = 192,6 arrotondato a 193
  • Bündnis 90/Die Grünen 8,4 / 84,2 x 631 = 63,0 arrotondato a 63
  • Die Linke 8,6 / 84,2 x 631 = 64,4 arrotondato a 64
Che corrisponde ai seggi assegnati riportati nella tabella.

Conclusione
Per affermare che la legge che si vuole adottare sia quella alla tedesca occorre che:
  • il Paese sia suddiviso in 315 circoscrizioni elettorali (metà del numero complessivo dei deputati)
  • agli elettori venga consegnata una scheda elettorale divisa in due parti, con la prima si dà la preferenza ad un candidato mentre con la seconda ad un partito (o lista)
  • venga stabilita una soglia di sbarramento per i partiti, eventualmente superabile in caso di numero minimo di mandati diretti (come nel caso tedesco)
  • ad ogni circoscrizione venga eletto il candidato che ottiene il maggior numero di voti attraverso la prima parte mentre con la seconda parte venga assegnata la quota di seggi spettante ad ogni partito che abbia superato la soglia prevista
Di certo di tedesco avrebbe ben poco se limitato semplicemente al fattore proporzionale con soglia di sbarramento.

Personalmente sarei propenso per un sistema maggioritario ma se non condiviso dalla maggioranza, tra quello tedesco vero e quello interpretato preferisco il primo, almeno metà degli eletti lo sarebbero con mandato diretto.

giovedì 18 maggio 2017

Spesa pubblica, pressione fiscale e inflazione

E già...si stava meglio quando avevamo la lira, la sovranità monetaria e tutti vivevamo felici e contenti. Escludendo però terrorismo e anni di piombo, mafia, sequestri di persona, rivendicazioni sociali e sindacali ed emigrazione di massa. Fenomeni questi che hanno sì caratterizzato soprattutto un periodo lontano ma pur sempre durante e poco dopo il famoso Miracolo Economico. Una breve considerazione sull'argomento l'avevo già scritta 3 anni fa qui.
Che si stava meglio alcuni decenni or sono mi sa molto di nostalgico e poco di realistico. Così, di primo acchito, mi verrebbe da proporre a chi sostiene questo di sostenere il medesimo stile di vita che la maggior parte delle famiglie aveva durante gli anni '50, '60 e '70 e poi verifichiamo se costoro che oggi lamentano di non arrivare alla fine del mese continuano a dirlo. Pensiamo a quante famiglie avevano all'epoca un televisore in casa, una lavastoviglie, una lavatrice. Oppure con quale frequenza acquistavano abbigliamento, calzature o arredamento. Quante famiglie prendevano un volo aereo per trascorrere anche un solo weekend in una città straniera, che so...Parigi, Londra.
Insomma, prima di lamentarsi occorre fare un confronto tra la quantità di beni che oggi ci possiamo comunque permettere rispetto a quelli che si potevano permettere i nostri genitori o i nostri nonni con i compensi di allora.
Con questo non si vuole sostenere che oggi non vi sia una situazione di insoddisfazione da parte di molte famiglie, ma occorre però portare la questione su un piano realistico e soprattutto comprenderne le cause.

Oggi si punta (troppo) spesso il dito contro cause che però non vengono supportate da sufficienti elementi a sostegno di queste tesi. Questa settimana ad esempio l'ISTAT ha diffuso due dati macroeconomici riguardanti l'andamento della nostra economia: la crescita del Prodotto Interno Lordo nel primo trimestre di quest'anno e l'andamento - in crescita - delle nostre esportazioni. Nel dettaglio, il PIL, sebbene quale stima preliminare, è aumentato in tale periodo dello 0,2%(*) rispetto al precedente e dello 0,8% rispetto allo stesso trimestre del 2016 (dato tendenziale). La variazione acquisita per quest'anno è dello 0,6%, cioè significa che se i prossimi 3 trimestri vedessero una crescita in termini percentuali - rispetto al periodo precedente - uguale a quella avuta nel 2016 il PIL a fine 2017 vedrebbe una crescita appunto dello 0,6% rispetto al 2016, anno in cui però il PIL è cresciuto del 1% rispetto al 2015, quindi la crescita sarebbe inferiore a quella avuta l'anno scorso e questo comporta che ora serva una spinta alla nostra economia.

(*) Il dato, è bene ricordarlo, è quello corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato cioè è un dato più statistico che reale (grezzo). Intendo dire che la stima della ricchezza prodotta è stata rettificata in funzione ad esempio dei giorni lavorativi di calendario e depurata degli effetti stagionali (attraverso calcoli specifici). E' un po' come se ad una azienda che fattura 1 milione di euro in un trimestre, l'Istituto di Statistica facesse rilevare che quel trimestre ha avuto due giorni in più di calendario rispetto al trimestre precedente e che quindi stima che il fatturato, tenendo conto di questa differenza, fosse non di 1 milione bensì di 967.742 euro se quel trimestre anziché essere stato di 60 giorni lavorativi ne ha avuti 62. L'azienda ha fatturato comunque 1 milione, al di là di quello che la statistica poi rileva per ragioni che qui non è il caso di approfondire - sebbene facilmente intuibili - e su quella cifra paga le sue fatture ed in caso di utili le imposte previste, non sul fatturato 'rettificato'.
In ogni caso i dati che prendiamo in considerazione non sono quelli grezzi (il milione di euro fatturati dalla nostra azienda) ma quelli elaborati dai vari istituti nazionali di statistica (es.i 967.742 euro) ed è a quelli che dobbiamo fare riferimento.

Il secondo dato che l'ISTAT ha diffuso in settimana riguarda il nostro commercio estero, con le esportazioni cresciute nel primo trimestre di quest'anno del 3% rispetto al precedente, mentre le importazioni sono aumentate un po' di più: 3,3%.
Confrontando questi due dati viene da chiedersi: come mai a fronte di un aumento così sensibile delle esportazioni, il PIL vede invece un incremento così basso?
Una prima risposta è già contenuta nel dato riguardante il commercio internazionale: le esportazioni sono cresciute sì del 3% ma le importazioni del 3,3%, questo comporta che il contributo alla crescita del PIL sia negativo essendo dato dalle esportazioni nette: export - import.
Questo però non implica che le nostre imprese facciano fatica a vendere i loro prodotti oltre confine dato che l'andamento delle nostre esportazioni è sempre in crescita ed a tassi apprezzabili. Quindi chi punta il dito contro l'euro quale causa della bassa crescita economica, in quanto ostacolerebbe le esportazioni, afferma una cosa non sostenuta dai fatti.

Se il commercio estero non rappresenta il problema, allora dovremo guardare alla domanda interna, cioè ai consumi dei residenti:


Già guardando a questo grafico, che l'ISTAT mette a disposizione assieme ad alcuni altri nella propria pagina internet iniziale, si vede come il commercio al dettaglio sia decisamente fiacco, per usare un eufemismo.
Insomma, se invece di chiamare in causa fattori esogeni provassimo ad ipotizzare che la ragione sia interna?

Riprendiamo la parte iniziale di questa analisi, benché controversa, ovvero che si stava meglio negli anni della lira e facciamo una breve analisi economica.
Prendendo le tabelle ISTAT a disposizione e riguardanti la contabilità nazionale a partire dal 1980 vediamo come le entrate fiscali fossero decisamente inferiori rispetto al PIL di quanto lo sono oggi:


Questa crescita, diversamente da quanto affermato spesso, non dipende né dall'ingresso nella moneta unica né dal divorzio tra Banca d'Italia e Ministero del Tesoro, divorzio che ha portato sì un incremento della spesa per interessi sul debito pubblico, ma la sua incidenza è stata relativa in quanto questa risiede prevalentemente nell'aumento della spesa pubblica. Infatti se prendiamo sempre i dati ISTAT di contabilità nazionale e guardiamo al rapporto tra spesa pubblica complessiva, al netto e non della spesa per interessi, vediamo come questa sia aumentata in rapporto al PIL:


Come si può notare dalla tabella la spesa per interessi è aumentata notevolmente ma in ogni modo la spesa pubblica è cresciuta anch'essa sensibilmente, da un 37% del PIL nel 1980 fino addirittura al 44% toccato nel 1993. Aggiungendo quella per interessi si può verificare come si superi il 50% della ricchezza prodotta (PIL) arrivando a toccare, proprio nel 1993, il 57%.

Un governo, si sa, si finanzia attraverso le entrate fiscali e quando queste non coprono interamente il fabbisogno, attraverso un prestito emettendo in cambio obbligazioni. Prima del divorzio Banca d'Italia - Ministero del Tesoro, il governo si rivolgeva ai risparmiatori emettendo titoli di breve durata, i Buoni Ordinari del Tesoro, che avevano scadenza a 3, 6 e 12 mesi, il cui rendimento era dato dalla differenza tra prezzo nominale e quello di aggiudicazione. Il governo poi stabiliva un prezzo minimo di collocamento, al disotto del quale non era disposto a vendere. Questo permetteva di fissare un tetto al costo, cioè al compenso concesso all'acquirente. I titoli invenduti erano acquistati dalla nostra banca centrale ad un prezzo prefissato. Questo meccanismo ha però comportato una crescita dei prezzi (inflazione) che penalizzava maggiormente i cosiddetti redditi vincolati o fissi, crescita che è andata a toccare anche le due cifre percentuali. La lira era sempre oggetto di deprezzamento sui mercati e questo comportava un aumento della spesa per l'acquisto delle materie prime generando altra inflazione. La nostra banca centrale faceva fatica a contenere il cambio entro margini di oscillazione accettabili e questo a prescindere dall'adesione allo SME o altro. Ad esempio si vedano i prestiti richiesti e concessi a livello internazionale negli anni '70 alla nostra banca centrale per sostenere la debolezza della lira, tra cui quello famoso del 1974 concesso dalla Deutsche Bundesbank di 2 miliardi di dollari di allora ipotecando da parte nostra oltre 500 tonnellate di oro:


Nel 1974 l'Italia ebbe, questo per i cosiddetti sovranisti, piena sovranità in quanto gli accordi di Bretton Woods erano cessati nel 1971 e nel 1973 l'Italia uscì dal Serpente Monetario iniziato appena un anno prima (lo SME vedrà poi la sua luce nel 1979). La causa principale fu la crisi petrolifera del 1973 che portò ad un notevole aumento dei prezzi del petrolio.
Questo per dire che una sovranità monetaria non garantisce da forti shock economici.

Dopo il divorzio del 1981 la Banca d'Italia non è più tenuta a comprare i titoli invenduti del governo e questo lo spinge ad accettare il costo di mercato, ovvero ad emettere titoli che abbiano rendimenti in linea con quelli di mercato. La spesa per interessi dal 1981 aumentò ma al tempo stesso la quantità di moneta non crebbe più come prima andando così a calmierare l'inflazione. Ma come visto prima non è questa la ragione primaria che ha fatto aumentare il nostro debito pubblico, bensì l'aumento della spesa pubblica e solo secondariamente quella per interessi. L'aumento del livello del debito ha toccato livelli di allarme per gli investitori che richiedevano tassi di rendimento sempre maggiori. Questo è stato poi evitato in gran parte grazie all'adesione alla moneta unica che offre agli investitori una garanzia circa la nostra solvibilità data dal rispetto alle regole di bilancio che l'Unione Europea si è data. Questo lo si può verificare confrontando i rendimenti dei titoli di Stato di quei governi il cui rating è simile a quello sui nostri, ad esempio l'India che nonostante una crescita più sostenuta (+1,6% nel 2016), un debito del 70% sul PIL ed un deficit del 3,5%, deve concedere un premio pari a 3 punti e mezzo percentuali in termini reali, cioè al netto dell'inflazione, sui titoli decennali contro il nostro 0,25% circa.

Pressione fiscale e inflazione
Come visto l'aumento della pressione fiscale è stato causato in primo luogo da quello della spesa pubblica e secondariamente, contribuendo comunque sensibilmente, a quello per interessi dato che il governo non è in grado di coprire l'intera spesa con le sole entrate fiscali e né può pensare di far pagare agli investitori una porzione rilevante di essa (a prescindere dai vincoli dei trattati europei).
L'aumento della spesa pubblica complessiva comporta quindi un aumento della pressione fiscale ed un aumento di questa genera inflazione semplicemente perché imprese e lavoratori autonomi, più liberi di modificare i prezzi di vendita di beni e servizi, riversano su questi l'incremento di oneri fiscali. I lavoratori dipendenti hanno per definizione una maggiore rigidità, soprattutto in presenza di una situazione non positiva di crescita economica, in questo caso infatti le imprese tra riduzione dei profitti netti e aumento dei costi causati da quello dei listini dei fornitori saranno meno disponibili a concedere aumenti salariali ai propri collaboratori.

Prendendo i dati ISTAT sui prezzi per famiglie di impiegati ed operai nel periodo considerato sopra (1980-2000) si può osservare come questi siano aumentati proporzionalmente in coincidenza dell'incremento di spesa pubblica e pressione fiscale:


Questo effetto porta ad un ulteriore impoverimento del potere di acquisto delle famiglie, già penalizzate da una maggiore pressione fiscale conseguente una maggiore spesa pubblica. Nel corso del tempo si giunge così ad una crescita sempre minore dei consumi interni, i quali non vengono compensati dalle vendite all'estero (esportazioni), il che comporta una riduzione degli investimenti privati da parte delle aziende dato che non c'è ragione di incrementare la capacità produttiva, la produttività così non migliora e l'intera economia non cresce più a livelli tali da assorbire la nuova forza lavoro (giovani).

Si tenga poi conto che nella stima del Prodotto Interno Lordo viene inclusa anche la cosiddetta economia sommersa, ovvero quella che da un certo punto di vista produce reddito ma che essendo sconosciuto al fisco non viene tassato e quindi non contribuisce alla spesa, la quale grava così sui contribuenti onesti. L'incidenza di questa non è irrilevante, ad esempio nell'anno 2014 è stata del 13% del PIL:


Questo significa che la stima della pressione fiscale risulta per definizione alterata in quanto essa dovrebbe essere rapportata al PIL conseguito regolarmente. Se ad oggi questa risulta essere del 43% sul PIL 'viziato' da un 13% di sommerso, ne deriva che realmente, ovvero su chi le imposte le versa, questa risulta essere praticamente del 50%. Con un livello tale e qualità dei servizi ottenuti in cambio inferiore a quelli che Paesi con spesa inferiore o uguale hanno, ne deriva che essa rappresenta una zavorra dalla quale occorre liberarci, diversamente l'economia non potrà vedere crescite adeguate nonostante i risultati a livello internazionale.

martedì 16 maggio 2017

Anti-euro, game over!

Quello che fatti recenti hanno sentenziato è che l'Unione Europea e l'eurozona, seppur con i propri problemi da risolvere, non si disgregherà e potrà proseguire il suo cammino. Chi l'accusa(va) di essere la causa della situazione di bassa crescita e disoccupazione invocando la sua dissoluzione (in particolare l'eurozona) dovrà farsene una ragione.
L'elezione di Emmanuel Macron alla presidenza francese la dice lunga, dato che il suo programma era esplicitamente europeista e dove lui chiede una modifica dei trattati o comunque della politica sia economica che sociale dell'Unione Europea. Più attenzione alla gente, all'occupazione, alla crescita, ma senza chiedere semplicemente più facoltà di spesa, soprattutto a deficit. Al contrario, lui ha scritto chiaramente che intende procedere a riforme dell'assetto pubblico per giungere a risparmi, o meglio ad una ottimizzazione della spesa. Insomma: spendere sì, ma con giudizio.
E' favorevole ad un ministero superpartes all'interno dell'Unione Europea che abbia poteri di veto sui bilanci dei singoli Stati, in cambio egli propone di dotare uno specifico Parlamento dell'eurozona di un bilancio dedicato e più cospicuo per attuare investimenti mirati.
E' favorevole ad una politica fiscale uniforme ed una condivisione dei rischi riguardanti i debiti dei vari governi.
Al momento è solo, vero, ma c'è da aspettarsi che alle prossime elezioni per il Parlamento riuscirà ad avere attorno a sé il consenso necessario per l'attuazione del programma.

Dall'altra parte abbiamo la cancelliera Merkel, che forte della recente vittoria nel Land più popoloso della Germania, è sempre più lanciata verso il quarto mandato. Assieme a lei vi sarà con ogni probabilità l'attuale Ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, contestato all'estero ma molto stimato in Patria.
La politica tedesca sull'Europa quindi non cambierà, ma sbagliano coloro che pensano che sia divergente da quella prospettata dal neo Presidente francese. Anzi, sia Angela Merkel che Schäuble hanno accolto con entusiasmo l'elezione di Macron e hanno espresso desiderio di instaurare subito tavoli di trattative per proporre riforme all'attuale assetto dell'Unione.

Qui da noi, ma non è diverso da quanto accade anche in altri Paesi, le critiche sia all'Europa che all'euro sono andate via via affievolendosi tanto che i consensi stanno lentamente aumentando. Questo di certo non implica che non vi siano problemi da risolvere, anzi, solo uno sprovveduto può pensare che vada bene così, ma altra cosa è pensare che la soluzione sia la disgregazione dell'eurozona se non dell'intera Unione Europea. Anche chi propone il solo abbandono dell'euro non sa di cosa sta parlando, perché ciò - ammesso che sia possibile - non implicherebbe liberarsi dai vincoli di bilancio che valgono non perché si è adottato l'euro, ma in quanto si sono sottoscritti dei trattati. Abbandonare l'euro ed i vincoli di bilancio significa in sostanza abbandonare l'Unione Europea, chi afferma che desidera solo la prima parte mente, sapendo di mentire, agli elettori.
L'Italia ora deve approfittare subito della situazione e partecipare ai dibattiti per migliorare la governance europea, senza limitarsi a chiedere semplicemente più deficit.

La Germania, tanto per essere chiari, non è contraria né lo è mai stata ad un allentamento dei vincoli di bilancio, ma vuole però essere sicura che i vari governi non ne approfittino. Le rigidità chieste ed ottenute con i vari trattati, per ultimo il Fiscal Compact, hanno avuto questo significato: se da una parte vuoi essere padrone della tua spesa, ebbene allora la fai con le tue sole risorse!
Se invece sei disposto ad accettare una supervisione di un organismo sovranazionale che possa impedire spese inopportune, allora siamo favorevoli a concedere margini di manovra (leggi spesa a deficit) e trasferimenti attraverso il bilancio comune.
Chi ha letto alcuni interventi dello stesso Schäuble sa che egli addirittura non è contrario in linea di principio ad una condivisione dei rischi, ad una messa in comune del debito di ciascuno Stato, ma vuole prima di tutto essere sicuro che vengano messe in atto delle regole che impediscano ad un governo di approfittarne per farne cattivo uso, ad esempio per scopi elettorali. Schäuble ha affermato che prima occorre ridurre il livello di alcuni debiti (tra cui il nostro) per metterli in sicurezza, poi predisporre regole che tutti siano tenuti a rispettare e solo a quel punto si può parlare di condivisione. Condivisione che comunque potrà avvenire attraverso ad esempio un meccanismo come il fondo salvastati ESM, questo perché la Costituzione tedesca al momento impedisce di garantire debiti esteri ed una sua modifica richiederebbe un iter complesso e consensi ben difficili da ottenere.

Altra ragione per cui l'Unione Europea sta vincendo sui populismi è rappresentata dai dati macroeconomici recenti, che vedono il PIL dell'eurozona a 19, e della UE nel suo complesso a 28, crescere nel primo trimestre di quest'anno dello 0,5% rispetto al trimestre precedente, più di Gran Bretagna (+0,3%) e Stati Uniti (+0,2%):


Il tasso di disoccupazione è in continua discesa, sebbene non in tutti i Paesi:


mentre quello dell'occupazione continua a salire, puntando a raggiungere l'obiettivo stabilito per il 2020:


La crisi è oramai superata e se in alcuni Paesi, come Francia e Italia, l'economia ancora non ha raggiunto ritmi sufficienti a ridurre l'alto livello di disoccupazione, questo non dipende né dalla moneta unica né tantomeno dalla appartenenza all'Unione Europea. Le cause vanno quindi cercate al proprio interno, questo Macron per la Francia lo ha capito e scritto, da noi invece si è ancora legati alla cultura che per crescere occorre aumentare la spesa pubblica, soprattutto a deficit.
Saprà il governo Gentiloni oggi e chi verrà l'anno prossimo cogliere l'opportunità del momento ed aggiungersi all'asse franco-tedesco per dire la nostra sul futuro della UE contribuendo a dare una svolta o si limiteranno, come fatto in passato, a proposte spot e quasi sempre dedicate alle regole di bilancio, puntualmente bocciate, per poi andare a Bruxelles per firmare quelle altrui?

sabato 6 maggio 2017

Veneti, tra 'fiction' e realtà

Si è conclusa da meno di una settimana la fiction andata in onda su Rai1 "Di Padre in Figlia", ambientata nella città di Bassano del Grappa e dintorni con qualche divagazione nella città di Padova, ed oggi casualmente mi sono imbattuto in un articolo critico (per usare un eufemismo) pubblicato prima che andasse in onda la quarta ed ultima puntata sul quotidiano L'Arena ad opera di un certo Stefano Lorenzetto, giornalista semi-sconosciuto che scrive principalmente per un quotidiano ancora meno conosciuto: "La Verità", fondato e diretto da Maurizio Belpietro (l'unico che è conosciuto).


Quello che ha attirato la mia attenzione e la mia ilarità nel leggere il mucchio di scemenze da lui riportate nell'articolo, non è il giudizio sulla fiction prodotta da Rai Fiction, bensì la visione che lui dà del Veneto, dei veneti e dalla loro Storia. Partiamo appunto dal riportare ciò che ha scritto:


(...) di emancipazione». Ah, ecco, era la festa di Liberazione della donna.
M’è venuta voglia di darci un’occhiata. Dico subito che se il regista Riccardo Milani mi avesse interpellato, da veneto gli avrei suggerito d’intitolare la fiction Di graspa in sgnapa. Purtroppo non è stato ben consigliato dall’ideatrice del soggetto, Cristina Comencini, nonostante costei sia la madre di Carlo Calenda, uno che di imposte sugli spiriti e di bollini dell’Utif dovrebbe intendersi parecchio, essendo il ministro dello Sviluppo economico.
Trattasi infatti di sceneggiato ad alto tasso alcolemico girato a Bassano del Grappa. Tutto ruota attorno alla distilleria della famiglia Franza, o Spagna (avrebbe potuto anche chiamarsi così: Ivana, la cantante, è veronese in fin dei conti), purché se magna. Vi predominano la cultura materialista, bere e mangiare innanzitutto, e il culto delle cose: la villa disegnata dal geometra («’arda che casetta!»), la prima lavastoviglie, il tostapane, il frullatore, la televisione Brionvega e l’ammiraglia da sióri del capofamiglia, una patetica Fiat 130 che usava solo il presidente Sandro Pertini, sostituita a metà sceneggiato da una Mercedes color merdolina di marziano. Per i fortunati lettori che non si sono sorbiti questa brodaglia, riassumo le vicende dei Franza, baciapile da messa ultima. Mi fermo ai tre protagonisti principali, onde non deprimere il loro sensorio.
Giovanni Franza (Alessio Boni) è un prepotente che pensa solo alle vinacce da trasformare in 6.000 bottiglie di graspa per la piena produzione. Sbraita in dialetto. Impreca perché la moglie gli scodella solo femmine e tarda a dargli un erede maschio. Frega il suo socio. Apre un negozio all’amante dopo essersene procurata un’altra più giovane. Si preoccupa delle tendenze sessuali del figlio adolescente («senti un po’, te, sarai mica vergine?») e si dimostra rincuorato dalla diplomatica risposta dell’imbranato: «Braooo Antonio, te devi divertire, no’ pensare a l’amore, a ’sta età, poi». Sprona il rampollo a frequentare i postriboli («non andare dalle vecchie, una brava ed esperta sì, ma vecia no, per carità!»). Progetta d’intestargli l’azienda, mentre il poverino vorrebbe seguire in riva al Gange la sorella gemella, che lo ha avviato alla droga.
La moglie Franca Franza (Stefania Rocca) è un’ignorante mite e sottomessa. Prima di partorire deve andare a recuperare il marito in un bordello dove si sta rilassando con Pina, l’amante preferita. Passa le giornate a consigliarsi con la predetta Pina, divenuta nel frattempo sua amica nonché titolare, ora che ha finito di esercitare il meretricio, di un negozio di modista che il porcaccione le ha aperto a titolo di buonuscita. Non sapendo né leggere né scrivere, dalla medesima si fa anche compilare le lettere d’amore che poi non ha il coraggio di spedire a una vecchia fiamma, Jorge, conosciuto quando da giovanissima era emigrante in Brasile. Infine, al primo viaggio di Jorge in Italia, consuma con lui travolgenti amplessi in un alberghetto di Marostica.
La primogenita Maria Teresa Franza (Cristiana Capotondi) è una ragazza timida e ingenua, ma assai determinata. Contro la volontà del padre padrone va a studiare a Padova e si laurea in chimica con 110 e lode. Ha un problema enorme: biblicamente parlando, non ha mai conosciuto uomo. Ma il genitore non le crede e ordina un’invasiva ispezione corporale alla levatrice che l’ha fatta venire al mondo.
Se negli anni Settanta l’illibatezza non era ancora considerata una colpa inescusabile, lo è invece nell’Italia del terzo millennio, e soprattutto dalle parti di Viale Mazzini, ove è noto che la castità mal si concilia con il casting. Perciò l’immacolata Maria Teresa si risolve infine a chiedere «un favore, una cortesia» a Giuseppe Nunzio (Corrado Fortuna), operaio pugliese immigrato al Nord, abituato a mostrarsi con il creapopoli al vento: «Io non voglio più. Sì, insomma, questa cosa che io non l’ho mai fatto... Mi aiuti?». Vi sembra una gentilezza che un generoso lettore dell’Unità possa rifiutarle? «Ti aiuto», risponde infatti di slancio. Bene, anche questa è fatta, come diceva l’imperatore Giuseppe II in Amadeus.
Sgangheratezze a parte, non si capisce perché Di padre in figlia si apra con il logo della Regione Lazio e i titoli di coda comincino con la scritta «Si ringrazia Regione Veneto assessorato alla Cultura e assessorato al Turismo». Esorto il governatore leghista Luca Zaia a visionare ciò che ha approvato. Le assicuro, presidente, che raramente mi è capitato di veder spargere sui suoi corregionali, in 103 minuti, un quantitativo così massiccio di guano: i piccioni di piazza San Marco non ci riuscirebbero, tutti insieme, manco nell’arco di un anno. Moltiplicando per quattro puntate, fanno quasi sette ore di televisione, con un’audience altissima (si sa che quella roba là piace a miliardi di mosche).
Io vivo in questa regione da 12 anni prima che lei nascesse, caro Zaia, e ne conservo un ricordo assai diverso rispetto a quello offertoci dalla Rai con l’incauto patrocinio della Regione Veneto. L’epoca narrata da questa fiction è stata, per quelli della mia generazione, un’età dell’oro, seppur segnata da una povertà decorosa. Ci si allenava alla disciplina dei desideri. Si frequentava la parrocchia per imparare a stare nel mondo. Si discuteva in modo appassionato su tutto. Ci si divertiva con poco. Si trovava la morosa guardandola in viso anziché in foto su Facce e bocche. Si faceva apprendistato. Si mettevano a frutto i talenti. Si trovava lavoro a 18 anni. Si conquistava l’indipendenza economica a 22 e ci si sposava a 25. Nella vita si celebrava un solo matrimonio e con una sola moglie e i figli nascevano tutti dalla stessa madre, non si ordinavano per corrispondenza.
Sia chiaro, io non ce l’ho con la Rai, che continua a fare il suo mestiere come l’ha sempre fatto, cioè male, alimentando il più vieto luogocomunismo e replicando all’infinito la fola dei veneti ignoranti, ubriaconi, disonesti, ebeti, bigotti, ipocriti, retrivi, razzisti, evasori fiscali. Ormai ci ho fatto il callo e mi annoia commentare la nuova grossolana mistificazione, scaturita stavolta dall’esile ingegno della Comencini, una signora che di me e dei miei fratelli di sangue non sa niente e alla quale non si attaglia neppure un po’ il titolo dello sceneggiato che ha partorito, Di padre in figlia, visto che nulla, ma proprio nulla, ha preso dal babbo Luigi, un regista di capacità introspettive e di sottigliezze psicologiche a lei ignote.
No, io ce l’ho con la Nardini, «la prima grappa d’Italia» stando al claim degli stacchi pubblicitari, che ha abiurato la sua storia, cominciata nel 1779, sponsorizzando uno sceneggiato nel quale sono stati distillati poca testa, molta coda e zero cuore, lo stesso che a me si stringe perché fu la graspa del primo cicinin fattomi assaggiare da mio nonno.
Io ce l’ho con i Poli, che hanno prestato la distilleria affinché vi si officiasse questo spregevole sacrilegio, ammainando per due settimane la loro insegna per inalberare quella fasulla della ditta Franza & figlio, e se credono che io possa tornare a bere anche un solo sorso della loro Sarpa, beh, se lo possono scordare.
Io ce l’ho con la stolidità del sindaco di Bassano che ha autorizzato l’uso del Ponte degli alpini, pari solo a quella del segretario locale del suo stesso partito, il Pd, il quale è arrivato a dire che Di padre in figlia «è un veicolo promozionale unico per la città e per il nostro territorio, un volano per il turismo, per i prodotti tipici», e anche, aggiungerei, il modo migliore per dare ragione a chi vi tratta da bifolchi asserviti agli schei.
Io ce l’ho con la Vicenza film commission, afflitta da un autolesionismo così infantile da essersi inventata la movie map della miniserie tv, e che ora vuole conferire la cittadinanza onoraria al regista.
Io ce l’ho con la curia di Vicenza e con il parroco della chiesa di San Giovanni Battista, che hanno lasciato ambientare nella casa di Dio varie scene della pagliacciata, inclusa quella in cui la signora Franza, durante la messa di capodanno, si mette al collo un foulard rosso, il segnale convenuto per confermare all’amante brasiliano che sarebbe disposta a scappare con lui in Sudamerica.
Io ce l’ho con l’Università di Padova per aver posto l’aula magna di Palazzo del Bo e la cattedra che fu di Galileo Galilei al servizio di un’impresa artistica così miserabile.
Che poi questa banalissima sagra degli sfasciafamiglie si rivela pure poco originale: la distilleria Sorelle Franza, che sarà magnificata come simbolo di riscatto nell’ultima puntata martedì prossimo, esiste nel Nordest già da mezzo secolo, ed è quella che Benito Nonino ha lasciato costruire alla moglie Giannola e alle tre eredi, Cristina, Antonella ed Elisabetta.
In tutto lo sceneggiato c’è una sola scena autoironica, ancorché involontaria. È quella in cui una troupe del telegiornale ferma i fedeli che escono dalla chiesa dopo la messa domenicale per interrogarli sulla legge che ha introdotto il divorzio in Italia. «Ma siete della Rai?», chiede tutta eccitata la sposina, pronta a lasciare il marito nella puntata successiva. Ma perché, non si vede? Davvero tonte, queste venete.
(di Stefano Lorenzetto e tratto dal sito L'Arena)

Ripeto, lungi da me contestare l'opinione sua personale della fiction, che può essere piaciuta o meno, ma per gli argomenti da lui utilizzati per le pesanti critiche e la sua visione dei veneti e della loro Storia qualche replica mi sento di muoverla.
A suo avviso questa fiction rappresenterebbe i veneti come (cito testualmente): "ignoranti, ubriaconi, disonesti, ebeti, bigotti, ipocriti, retrivi, razzisti, evasori fiscali".
Innanzi tutto una premessa: la fiction narra la vicenda di una famiglia che risiede in una località che oggi conta circa 43.000 abitanti ma che all'epoca in cui è ambientata ne contava poco più della metà:


Dato che le vicende si svolgono praticamente sempre li, tranne qualche divagazione a Marostica e a Padova, e coinvolgono si e no tre famiglie (i Franza, quella del sindaco e quella del concorrente Sartori) non capisco perché le stesse dovrebbero coinvolgere una intera regione. Cioè non capisco perché un cittadino di Rovigo o di Verona si dovrebbero sentire chiamato in causa dalla sceneggiatura più di un bresciano o di un bergamasco come lo è l'interprete maschile principale, l'attore Alessio Boni.
Ma tralasciamo questo punto. Andiamo sulle presunte rappresentazioni che caratterizzerebbero la maggior parte dei veneti.

Ubriaconi
Chi ha visto l'intera fiction senza prima darci dentro con la grappa può testimoniare che di alcolizzati ce n'è uno solo: Filippo (interpretato da Domenico Diele) e figlio del sindaco, ma delle famiglie Franza e Sartori che producono distillati e contano insieme 8 componenti neppure uno. Gli unici altri che vengono rappresentati sono il gruppo ristretto di partecipanti agli incontri degli alcolisti anonimi.
Francamente non vedo come la sceneggiatura possa dare ad intendere che i veneti siano un popolo di alcolizzati, considerando che sono semmai i dati ufficiali che dicono che il Veneto è la regione ai primi posti per consumo di alcolici e, ahimé, per il suo abuso:


Questo non lo dice Cristina Comencini, lo dice l'ISTAT!

Analfabeti
Nella fiction c'è un solo personaggio che è del tutto analfabeta: Franca Franza, interpretata da Stefania Rocca. Il cattivo marito, interpretato da Alessio Boni, i loro quattro figli, i componenti delle famiglie Sartori (i concorrenti) e Biasolin (quella del sindaco) sono tutti alfabetizzati. Lo è persino la ex prostituta, la "Pina", interpretata dalla bassanese Francesca Cavallin. Non mi sembra una proporzione tale da portare ad una generalizzazione, tenuto conto che storicamente nel periodo in cui è ambientata la fiction (dai primi anni '50 a metà degli '80 del secolo scorso) non erano pochi gli analfabeti:


Razzisti
Nella fiction si ascolta solo una volta un termine usato in maniera dispregiativa verso i cittadini meridionali e pronunciata da un veneto doc e prontamente chiamato a scusarsi dall'amata Maria Teresa, sufficiente questo per generalizzare? Non certo più della realtà rammentando i "Forza Etna" o "Forza Vesuvio" scritti ed urlati spesso nei decenni passati. Ma anche recentemente non si è da meno:


La sceneggiatura poi rappresenta l'unico esponente 'terrone' positivamente, tant'è che alla fine sposa la protagonista principale femminile Maria Teresa, interpretata dalla brava Cristiana Capotondi.

Evasori
Forse a Lorenzetto è sfuggito che l'unica vicenda in cui si svolge un reato di evasione fiscale riguarda il figlio di Giovanni Franza, Antonio e interpretato da Roberto Gudese, dove la ragione non risiede nel fare più schei bensì nel non ammettere al padre che l'affare con il cliente inglese è andato perso e quindi per non sentirsi un fallito ai suoi occhi ha pensato di affidarsi ad un personaggio poco raccomandabile rappresentato da un cittadino campano. Ecco, forse qui c'è l'unico luogo comune della fiction a mio parere!
Comunque che nel Veneto vi sia evasione fiscale non lo dice questo episodio della famiglia Franza all'interno della fiction (l'unico!), lo dicono i dati della Guardia di Finanza e la cronaca stessa che a Lorenzetto forse sfugge. Però al bar a Lorenzetto sarà capitato almeno una volta di ascoltare questa vicenda, non fosse altro perché riguarda un famoso imprenditore che risiede nella sua stessa provincia:


Lorenzetto comunque prosegue prendendosela con coloro che sono a suo dire il vero oggetto delle sue critiche: la regione Veneto perché ha patrocinato la fiction, la curia, l'Università di Padova, il sindaco di Bassano del Grappa e altri. Insomma ce n'è per tutti.
Ma per cosa? Per aver realizzato, o contribuito a farlo, una fiction, cioè in italiano una finzione?
Perché nella sceneggiatura c'è un po' di tutto quello che ha caratterizzato e caratterizza la nostra società?
Perché è ambientata in una cittadina del Veneto? Che se l'attività scelta dalle (brave) sceneggiatrici è quella della distilleria di Grappa non è che hai tanta scelta.
Perché si vede un ponte storico simbolo della città che potrebbe portare molti forestieri a venire a Bassano per visitarlo lasciando (finalmente) per una volta i centri commerciali?
Oppure perché la fiction è piaciuta commuovendo alcuni tra gli oltre 6 milioni e mezzo di telespettatori? Praticamente un numero che Lorenzetto non ha raccolto in tutta la tua carriera tra i suoi lettori.

Caro Lorenzetto, qui di fiction, cioè di finzione vera, autentica, di irreale, c'è solo la tua lettura del Veneto che tu pretendi di conoscere meglio del governatore Zaia, regione sicuramente virtuosa grazie ai suoi abitanti ma comunque caratterizzata anche dai vizi che è la realtà stessa ad affermarlo, non la serie televisiva diretta da Riccardo Milani.

venerdì 5 maggio 2017

La legittima difesa in Germania

Ieri in una trasmissione televisiva Matteo Salvini citava come esempio positivo la legge in vigore in Germania riguardo la legittima difesa criticando severamente allo stesso tempo la proposta di modifica di legge appena approvata alla Camera.
Egli ha citato due articoli del codice penale tedesco che concederebbe maggiore libertà, o se vogliamo più garanzie, agli aggrediti di quanto lo facciano le attuali norme italiane nonché quelle in corso di approvazione.
Andiamo allora a vedere cosa prevede il codice penale tedesco per verificare se quanto Salvini sostiene corrisponde al vero.

Il codice penale della Germania (Strafgesetzbuch) regolamenta la legittima difesa (Notwehr) e una situazione di emergenza (Notstand) in quattro articoli, due per il primo titolo e due per la secondo, dal 32 al 35. Dato che i testi originali in tedesco non sono lunghi li riporterò per intero così da dare modo di verificare la corretta (mia) interpretazione.

Art.32 Notwehr (Legittima difesa)
  1. Wer eine Tat begeht, die durch Notwehr geboten ist, handelt nicht rechtswidrig.
  2. Notwehr ist die Verteidigung, die erforderlich ist, um einen gegenwärtigen rechtswidrigen Angriff von sich oder einem anderen abzuwenden.
Il primo comma dice genericamente che chi commette una azione (considerata) di legittima difesa non è perseguibile legalmente.
Il secondo comma specifica che la legittima difesa è quella necessaria forma di difesa secondo le norme vigenti per evitare una aggressione a sé stessi o ad altri.

Art.33 Überschreitung der Notwehr (Eccesso di legittima difesa)

Überschreitet der Täter die Grenzen der Notwehr aus Verwirrung, Furcht oder Schrecken, so wird er nicht bestraft.

Questo articolo recita che a fronte di un eccesso di legittima difesa causato da una situazione concitata durante la reazione stessa, oppure di paura o di spavento, questo eccesso non sarà perseguibile.
In pratica se si viene aggrediti all'improvviso e questa mette a repentaglio la propria incolumità si ha il diritto di difendersi e se la reazione dovuta a spavento, ad una fase concitata o dal timore reale dovesse risultare eccessiva, questa non sarà punita. Naturalmente i fatti dovranno comunque essere provati nella sede opportuna (durante il processo).

(Nota: occorre specificare che a fronte di questo testo generico esiste comunque un apposito approfondimento che è sottoposto a chi studia giurisprudenza e che illustra più dettagliatamente i limiti ed il concetto stesso di legittima difesa nonché il suo eccesso.)

Art.34 Rechtfertigender Notstand (giustificata emergenza)

Wer in einer gegenwärtigen, nicht anders abwendbaren Gefahr für Leben, Leib, Freiheit, Ehre, Eigentum oder ein anderes Rechtsgut eine Tat begeht, um die Gefahr von sich oder einem anderen abzuwenden, handelt nicht rechtswidrig, wenn bei Abwägung der widerstreitenden Interessen, namentlich der betroffenen Rechtsgüter und des Grades der ihnen drohenden Gefahren, das geschützte Interesse das beeinträchtigte wesentlich überwiegt. Dies gilt jedoch nur, soweit die Tat ein angemessenes Mittel ist, die Gefahr abzuwenden.

Chi, in una situazione imminente di inevitabile pericolo di vita, incolumità fisica, violenza carnale, privazione della libertà (sequestro), attacco al proprio patrimonio o altro bene protetto per legge, reagisce per difendersi dal pericolo verso di sé o altri non è punibile se dalla valutazione degli interessi in conflitto, specialmente dei beni colpiti o del livello dell'immediato pericolo, prevale la difesa dell'interesse tutelato. Tuttavia questo vale solamente se l'azione è appropriata per scongiurare il pericolo.

(Nota: questo articolo sancisce sicuramente il diritto di difesa della propria incolumità e dei propri beni ma include anche in qualche modo un criterio implicito di proporzionalità. Per esempio non è che a fronte del tentativo di scongiurare il furto della propria autovettura sia concesso usare un'arma da fuoco).

Art.35 Entschuldigender Notstand (Impunibilità dovuta ad emergenza)

  1. Wer in einer gegenwärtigen, nicht anders abwendbaren Gefahr für Leben, Leib oder Freiheit eine rechtswidrige Tat begeht, um die Gefahr von sich, einem Angehörigen oder einer anderen ihm nahestehenden Person abzuwenden, handelt ohne Schuld. Dies gilt nicht, soweit dem Täter nach den Umständen, namentlich weil er die Gefahr selbst verursacht hat oder weil er in einem besonderen Rechtsverhältnis stand, zugemutet werden konnte, die Gefahr hinzunehmen; jedoch kann die Strafe nach § 49 Abs. 1 gemildert werden, wenn der Täter nicht mit Rücksicht auf ein besonderes Rechtsverhältnis die Gefahr hinzunehmen hatte.
  2. Nimmt der Täter bei Begehung der Tat irrig Umstände an, welche ihn nach Absatz 1 entschuldigen würden, so wird er nur dann bestraft, wenn er den Irrtum vermeiden konnte. Die Strafe ist nach § 49 Abs. 1 zu mildern.
Il primo comma ripete in qualche modo quanto è riportato nel precedente articolo aggiungendo che l'impunibilità include l'intervento a favore di familiari o comunque di parenti.
Prosegue però precisando che non vale (e quindi si è punibili) se le circostanze di pericolo sono state da lui causate oppure potevano essere previste, in caso la pena può essere scontata nel caso le circostanze non erano proprio del tutto prevedibili.
Il secondo comma specifica che se chi reagisce ha commesso un errore di valutazione ed il fatto rientra nel comma precedente, è punibile solo se tale errore poteva essere evitato.

(Nota: questo articolo come il precedente riguarda casi particolari, quali ad esempio quello di due alpinisti ambedue in pericolo di vita e che può solamente risolversi a favore di uno di loro con il taglio della corda oppure nel caso di naufragio se per salvarsi si è costretti a gettare un'altra persona in mare).


Considerazioni
Come si può notare, il testo degli articoli è alquanto generico ed occorrerebbe quindi approfondire le specifiche parti consultando i testi appositi, ma si intuisce già come il codice tedesco ponga meno vincoli all'aggredito, in particolare al principio di proporzionalità dell'azione difensiva che almeno da quello che si apprende leggendo questi quattro articoli è meno rigido, se non quasi assente, di quello previsto esplicitamente dal nostro Codice Penale all'articolo 52:

"Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa."

Come si vede la parte iniziale è del tutto simile a quello previsto dal codice tedesco tranne l'ultima frase (qui in grassetto).