mercoledì 20 settembre 2017

Bagnai, gli ingegneri e...la Volkswagen!

Mi sono divertito a leggere alcuni articoli che il prof.Alberto Bagnai ha dedicato nel suo blog ad un certo Michele Corvo, ingegnere, reo di aver esposto in un primo commento alcune osservazioni in merito ad un articolo dello stesso Bagnai riguardante i dati sulla disoccupazione. Nello specifico, in questo articolo vengono evidenziate le categorie dei lavoratori part-time, gli inattivi e tra di essi gli scoraggiati, dati che poi Bagnai ha raccolto e messo a confronto tra Paesi diversi. In questo affronto commento l'ing.Corvo (se davvero si chiama così) sottopone alcune considerazioni da un punto di vista prettamente razionale, da ingegnere insomma.
Questa la sequenza della simpatica querelle:

  1. L'articolo da cui tutto scaturì (nei commenti, quello di Michele Corvo)
  2. La replica di Bagnai all'onta subita (con uno dei suoi QED* autoprodotti)
  3. A sostegno di Bagnai arriva Schulz (non Martin, candidato per la SPD alla cancelleria della Repubblica Federale di Germania, ma Charles, con il suo più famoso personaggio: Charlie Brown)
  4. Bagnai replica ad un nuovo villipendio commento di Michele Corvo
  5. Bagnai racconta la sua versione sulla concorrenza Fiat-Volkswagen (ai tempi dell'Italia da bere - non della sola Milano)
*QED = Quod Erat Demonstrandum

A me ora interessa soltanto muovere qualche affronto considerazione circa l'ultima analisi, quella sulla tesi di Bagnai secondo la quale le vendite a livello internazionale delle autovetture Fiat e Volkswagen durante i 'favolosi anni della lira' erano condizionate prevalentemente dall'andamento del tasso di cambio Deutsche Mark - Lira.
Personalmente non nego di certo che il cambio possa aver influito sull'andamento delle vendite, ma mi limito a far notare all'esimio economista dell'Università di Pescara che ridurre il tutto ad un grafico che pone questo aspetto come determinante lo ritengo un po' eccessivo. Questo sulla base di un - oramai vago - ricordo dei tempi degli studi universitari (di economia, non di ingegneria) in cui ci fu assegnato da un docente un case study proprio sulla Volkswagen, prima come esercizio di ricerca e raccolta dati e informazioni da svolgersi singolarmente e poi proseguito in aula. L'obiettivo era ricostruire le vicende che attraversò la casa di Wolfsburg analizzando le cause della crisi dei primi anni '70 ed il come essa sia riuscita ad uscirne attraverso un profondo cambiamento sul finire di quel decennio.

Non ho comunque intenzione di riassumere gli eventi, voglio infatti parlare della Volkswagen (e non solo) attuale e di come l'andamento delle valute incida meno oggi rispetto al passato a causa di quel fenomeno che abbiamo sentito menzionare spesso ma che non sempre viene compreso bene: la globalizzazione.

Il gruppo Volkswagen
Sappiamo che Volkswagen non è solo il nome di una casa automobilistica, la capostipite con sede a Wolfsburg nella Bassa Sassonia, ma rappresenta un gruppo di aziende:


Nel 2016 il gruppo ha realizzato un fatturato complessivo di 217.267 milioni di euro (+1,9% sul 2015) con un profitto netto pari a 5.379 milioni di euro, questo a fronte di un volume totale di vendite di oltre 10 milioni di veicoli, per la precisione 10.391.113 (10.405.092 quelle prodotte), segnando un +3,8% rispetto all'anno precedente.
Tanto per avere un termine di paragone il gruppo Volkswagen fattura più del PIL della Grecia o del Portogallo ed è simile a quello della Finlandia.

A titolo di curiosità, questi i dati di vendita 2016 dei marchi principali:


E questa la ripartizione geografica delle vendite conseguite:


Ma il dato che desidero sottolineare è questo, il numero di stabilimenti dell'intero gruppo per area geografica:



120 stabilimenti produttivi, di cui 68 per le autovetture:


Queste due cartine ci suggeriscono quanto sia cambiata la geografia del gruppo dal punto di vista della produzione, produzione che solo alcuni decenni or sono era concentrata in Europa. Oggi il gruppo ha stabilimenti in 20 Paesi in Europa ed in 11 tra Asia, America e Africa occupando complessivamente 626.715 dipendenti.

Ma per riagganciarmi agli articoli del prof.Bagnai ed alle argomentazioni espresse occorre considerare ancora un aspetto, anzi due.

Economia di scala e di scopo (o di gamma)
Il primo concetto è abbastanza conosciuto: ad un aumento del volume di produzione - generalmente - i costi unitari si riducono per effetto di una maggiore distribuzione di quelli fissi, ma anche in parte di quelli variabili. Se ciò non avviene ne deriva una economia di scala decrescente e questo è dovuto a fattori terzi che comportano una inefficienza.
Va comunque precisato che non bisogna confondere con l'economia di scala una riduzione dei costi unitari dovuta al semplice maggiore utilizzo della capacità produttiva verso il livello ottimale oppure di una maggiore produttività dovuta ad un migliore utilizzo degli impianti riducendo sprechi di vario genere. Questa, l'economia di scala, la si otttiene aumentando sì, il volume di produzione, ma a parità di livello di efficienza.
Ad esempio, se ho 10 macchinari e ne uso 7, non è che se aumenta la produzione e ne utilizzo 9 i costi unitari diminuiscono per effetto di una economia di scala, questa semmai la si ottiene se da 10 macchinari ne aggiungo uno (o più) e li utilizzo tutti.
Parlando in questo caso di Volkswagen, questa ha potuto ridurre i costi unitari di produzione grazie (anche) all'aumento dei volumi di vendita e quindi di produzione che si sono raggiunti nel tempo.

L'economia di scopo, il cui termine - infelice - è la traduzione letterale del concetto espresso in lingua inglese economies of scope (o anche scope economies), rappresenta quella particolare riduzione dei costi derivante dalla produzione congiunta di beni diversi anziché separatamente, utilizzando i medesimi fattori produttivi (personale, impianti).
Questa forma di 'economia' è diventata sempre più importante, soprattutto in campo automobilistico per la quantità di risorse finanziarie impiegate. Basti pensare che le aziende tedesche (Opel esclusa), o sarebbe meglio dire i gruppi automobilistici tedeschi, nel loro insieme fatturano complessivamente poco più del nostro export totale: nel 2016 circa 450 mld di euro.
Chi è appassionato di motori, o se è un ingegnere (categoria a quanto pare non tanto gradita al prof.Bagnai), avrà sentito parlare delle piattaforme in campo automobilistico, che semplificando sono la definizione tecnica di quello che noi chiamiamo comunemente linee di assemblaggio. Le piattaforme quindi sono quell'insieme di attrezzature che vengono usate per assemblare le varie parti di un veicolo.
Se inizialmente associamo ad ogni modello di autoveicolo una specifica piattaforma di assemblaggio, è intuibile quanto utile possa essere avere una singola piattaforma con la quale si possano assemblare modelli diversi. Negli anni tutte le case automobilistiche hanno investito ingenti somme di denaro per piattaforme sempre più universali. Chi ha seguito anni or sono l'interesse della FCA di Marchionne per la Opel, avrà probabilmente letto che una delle ragioni era proprio quella che la casa di Rüsselsheim am Main aveva delle piattaforme compatibili con molti modelli Fiat e questo poteva permettere all'azienda ex torinese di poter usare gli stabilimenti per i propri modelli, oltre che per quelli Opel, senza la necessità di dover costruire nuove linee o stabilimenti. Personalmente ritengo infatti che questa fosse la ragione principale, cioè una questione diciamo tecnica più che economica dato che Opel non ha mai brillato per profittabilità.

Ebbene, di recente il gruppo Volkswagen ha investito alcune decine di miliardi (ho letto addirittura una sessantina) per una piattaforma all'avanguardia ed estremamente versatile in grado di produrre una gamma diversificata di autovetture Volkswagen, Audi, Škoda e Seat: la MQB-Plattoform, dove MQB sta per Modularer Querbaukasten:

MQB-Plattform

MQB-Plattform

Questi i risultati stimati ottenibili dall'utilizzo della piattaforma MQB della Volkswagen:


Una nota, tratta dal bilancio 2016 del gruppo, riporta che alla fine del 2016 sono state prodotte attraverso questa piattaforma ben 8 milioni di autovetture!

Un esempio dello sfruttamento di questa versatilità conseguita dall'uso di innovative piattaforme è lo stabilimento di Bratislava della Volkswagen Slovakia dove lavorano ben 11.542 dipendenti che assemblano le Volkswagen Touareg, Up! ed E-up!, l'Audi Q7, la Porsche Cayenne, la Škoda Citigo e la Seat Mii. Nel 2016 sono state prodotte circa 388.000 vetture, per la maggior parte vendute al di fuori della Slovacchia, con un fatturato di 7,6 miliardi di euro.

Un altro stabilimento di dimensioni del tutto simili e che occupa 11.631 dipendenti è a Győr (Ungheria), dove viene prodotta la serie Audi A3.

Ora, si capisce perché quando sorrido quando sento parlare taluni personaggi di quanto potrebbe perdere il gruppo Volkswagen (come le altre case automobilistiche tedesche) e viceversa guadagnarne FCA se uscissimo dall'euro e si tornasse tutti alle singole valute? E poi, FCA nel suo complesso o la sola produzione in territorio nazionale (oramai in minoranza) di un gruppo oramai formalmente straniero?
Sorrido anche quando sento affermare di una presunta competitività conquistata dal gruppo Volkswagen grazie ad una fantomatica deflazione salariale avvenuta in Germania e che avrebbe comportato un dumping competitivo, soprattuto quando poi leggo dal bilancio del gruppo 2016 che le spese per i salari del personale sono ammontate a quasi 30 miliardi di euro, ai quali si aggiungono 7 miliardi di oneri sociali e contributivi:


a fronte di quasi 620.000 dipendenti:


Il che comporta un salario medio lordo annuale di 48.000 euro e considerando che molti dipendenti sono distribuiti in vari Paesi dal basso costo della vita e quindi del salario rispetto a quello tedesco, è difficile pensare che in Germania quello sia il compenso medio.
Rimango poi perplesso quando sento menzionare a vanvera la moderazione salariale in Germania, avvenuta a partire dagli inizi di questo decennio non per pagare poco il lavoro ma per frenarne la crescita considerando che ad oggi il costo orario del lavoro nel settore manifatturiero in Germania si aggira sui 38 euro, valore da sempre più alto tra i principali Paesi esportatori, che si riduce a 33 euro includendo i servizi. Per l'Italia, tanto per fare un confronto, sono entrambi attorno ai 27 euro:

Costo unitario del lavoro (fonte Statistisches Bundesamt su dati Eurostat)

Insomma, quando leggo che si invoca l'uscita dall'euro per recuperare competitività grazie al deprezzamento della lira rispetto all'euro, o all'eventuale neo marco tedesco, rimango basito e sorrido al pensiero che facilmente il giorno dopo (il deprezzamento) è invece probabile che il prezzo di una auto tedesca addirittura scenda!

Come può essere possibile?

Diciamo che chi ha riflettuto leggendo quanto sopra riportato facile che lo abbia già intuito. Se l'auto è stata assemblata ad esempio in Ungheria, con componenti anch'essi prodotti per la maggior parte non in Germania, Ungheria che al momento ha il fiorino e non l'euro e se la lira dovesse sì, deprezzarsi nei confronti dell'euro (o del neo marco tedesco), ma apprezzarsi rispetto alla valuta ungherese, beh...la Audi A3 prodotta a Győr costerebbe paradossalmente meno!


Ma la realtà è che qualsiasi azienda che abbia stabilimenti in vari Paesi non ha un listino per ciascuno di essi, semmai ha in qualche modo prezzi che tengono conto del potere di acquisto nei Paesi dove è presente come vendite, ma la differenza non corrisponde a quella sui costi di produzione. Questo significa che in caso di uscita dall'euro dell'Italia, la Volkswagen potrà anche mantenere i listini inalterati. Ad esempio un'auto che oggi costa 20 mila euro, in caso di ritorno alla lira verrebbe inizialmente 20 mila lire dato che la conversione euro-lira avverrebbe alla pari, e a fronte di un deprezzamento ad esempio della neo lira del 20% rispetto all'euro la casa di Wolfsburg può decidere di mantenere quel prezzo e non portarlo a 24 mila lire come l'effetto cambio suggerirebbe.

Un esempio lo si può fare con la Nuova Polo 1.0 MPI Comfortline BMT 55kW/75CV benzina, che in Italia di listino è pari a € 12.670,67 (IVA esclusa) mentre in Slovacchia costa (o parte da) € 10.990,00.
Come si nota la differenza ammonta a circa il 15%, nulla esclude che questo possa essere anche lo 'sconto' che la casa tedesca decida di applicare per mantenere la stessa competitività in Italia in caso di ritorno alla  lira.
La morale è che io non mi affiderei più a queste soluzioni legate ai cambi della valuta, in passato avevano una loro indiscutibile influenza, ma oggi l'hanno meno ed ancora meno in futuro a fronte di una sempre più diffusa globalizzazione.
E il prof.Bagnai dovrebbe ascoltare anche le argomentazioni tecniche, oltre che prettamente economiche, potrebbe così apprendere che in molti casi, come quello della Volkswagen, la riduzione del costo unitario di prodotto si ottiene più attraverso incrementi di produttività via economie di scala e di scopo, oppure delocalizzando la produzione dove il costo del lavoro (e non solo quello) è decisamente inferiore, rispetto nel comprimere i salari in casa, il cui scopo semmai è di indurre meno delocalizzazioni piuttosto che realizzare fantomatici dumping.

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