giovedì 18 maggio 2017

Spesa pubblica, pressione fiscale e inflazione

E già...si stava meglio quando avevamo la lira, la sovranità monetaria e tutti vivevamo felici e contenti. Escludendo però terrorismo e anni di piombo, mafia, sequestri di persona, rivendicazioni sociali e sindacali ed emigrazione di massa. Fenomeni questi che hanno sì caratterizzato soprattutto un periodo lontano ma pur sempre durante e poco dopo il famoso Miracolo Economico. Una breve considerazione sull'argomento l'avevo già scritta 3 anni fa qui.
Che si stava meglio alcuni decenni or sono mi sa molto di nostalgico e poco di realistico. Così, di primo acchito, mi verrebbe da proporre a chi sostiene questo di sostenere il medesimo stile di vita che la maggior parte delle famiglie aveva durante gli anni '50, '60 e '70 e poi verifichiamo se costoro che oggi lamentano di non arrivare alla fine del mese continuano a dirlo. Pensiamo a quante famiglie avevano all'epoca un televisore in casa, una lavastoviglie, una lavatrice. Oppure con quale frequenza acquistavano abbigliamento, calzature o arredamento. Quante famiglie prendevano un volo aereo per trascorrere anche un solo weekend in una città straniera, che so...Parigi, Londra.
Insomma, prima di lamentarsi occorre fare un confronto tra la quantità di beni che oggi ci possiamo comunque permettere rispetto a quelli che si potevano permettere i nostri genitori o i nostri nonni con i compensi di allora.
Con questo non si vuole sostenere che oggi non vi sia una situazione di insoddisfazione da parte di molte famiglie, ma occorre però portare la questione su un piano realistico e soprattutto comprenderne le cause.

Oggi si punta (troppo) spesso il dito contro cause che però non vengono supportate da sufficienti elementi a sostegno di queste tesi. Questa settimana ad esempio l'ISTAT ha diffuso due dati macroeconomici riguardanti l'andamento della nostra economia: la crescita del Prodotto Interno Lordo nel primo trimestre di quest'anno e l'andamento - in crescita - delle nostre esportazioni. Nel dettaglio, il PIL, sebbene quale stima preliminare, è aumentato in tale periodo dello 0,2%(*) rispetto al precedente e dello 0,8% rispetto allo stesso trimestre del 2016 (dato tendenziale). La variazione acquisita per quest'anno è dello 0,6%, cioè significa che se i prossimi 3 trimestri vedessero una crescita in termini percentuali - rispetto al periodo precedente - uguale a quella avuta nel 2016 il PIL a fine 2017 vedrebbe una crescita appunto dello 0,6% rispetto al 2016, anno in cui però il PIL è cresciuto del 1% rispetto al 2015, quindi la crescita sarebbe inferiore a quella avuta l'anno scorso e questo comporta che ora serva una spinta alla nostra economia.

(*) Il dato, è bene ricordarlo, è quello corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato cioè è un dato più statistico che reale (grezzo). Intendo dire che la stima della ricchezza prodotta è stata rettificata in funzione ad esempio dei giorni lavorativi di calendario e depurata degli effetti stagionali (attraverso calcoli specifici). E' un po' come se ad una azienda che fattura 1 milione di euro in un trimestre, l'Istituto di Statistica facesse rilevare che quel trimestre ha avuto due giorni in più di calendario rispetto al trimestre precedente e che quindi stima che il fatturato, tenendo conto di questa differenza, fosse non di 1 milione bensì di 967.742 euro se quel trimestre anziché essere stato di 60 giorni lavorativi ne ha avuti 62. L'azienda ha fatturato comunque 1 milione, al di là di quello che la statistica poi rileva per ragioni che qui non è il caso di approfondire - sebbene facilmente intuibili - e su quella cifra paga le sue fatture ed in caso di utili le imposte previste, non sul fatturato 'rettificato'.
In ogni caso i dati che prendiamo in considerazione non sono quelli grezzi (il milione di euro fatturati dalla nostra azienda) ma quelli elaborati dai vari istituti nazionali di statistica (es.i 967.742 euro) ed è a quelli che dobbiamo fare riferimento.

Il secondo dato che l'ISTAT ha diffuso in settimana riguarda il nostro commercio estero, con le esportazioni cresciute nel primo trimestre di quest'anno del 3% rispetto al precedente, mentre le importazioni sono aumentate un po' di più: 3,3%.
Confrontando questi due dati viene da chiedersi: come mai a fronte di un aumento così sensibile delle esportazioni, il PIL vede invece un incremento così basso?
Una prima risposta è già contenuta nel dato riguardante il commercio internazionale: le esportazioni sono cresciute sì del 3% ma le importazioni del 3,3%, questo comporta che il contributo alla crescita del PIL sia negativo essendo dato dalle esportazioni nette: export - import.
Questo però non implica che le nostre imprese facciano fatica a vendere i loro prodotti oltre confine dato che l'andamento delle nostre esportazioni è sempre in crescita ed a tassi apprezzabili. Quindi chi punta il dito contro l'euro quale causa della bassa crescita economica, in quanto ostacolerebbe le esportazioni, afferma una cosa non sostenuta dai fatti.

Se il commercio estero non rappresenta il problema, allora dovremo guardare alla domanda interna, cioè ai consumi dei residenti:


Già guardando a questo grafico, che l'ISTAT mette a disposizione assieme ad alcuni altri nella propria pagina internet iniziale, si vede come il commercio al dettaglio sia decisamente fiacco, per usare un eufemismo.
Insomma, se invece di chiamare in causa fattori esogeni provassimo ad ipotizzare che la ragione sia interna?

Riprendiamo la parte iniziale di questa analisi, benché controversa, ovvero che si stava meglio negli anni della lira e facciamo una breve analisi economica.
Prendendo le tabelle ISTAT a disposizione e riguardanti la contabilità nazionale a partire dal 1980 vediamo come le entrate fiscali fossero decisamente inferiori rispetto al PIL di quanto lo sono oggi:


Questa crescita, diversamente da quanto affermato spesso, non dipende né dall'ingresso nella moneta unica né dal divorzio tra Banca d'Italia e Ministero del Tesoro, divorzio che ha portato sì un incremento della spesa per interessi sul debito pubblico, ma la sua incidenza è stata relativa in quanto questa risiede prevalentemente nell'aumento della spesa pubblica. Infatti se prendiamo sempre i dati ISTAT di contabilità nazionale e guardiamo al rapporto tra spesa pubblica complessiva, al netto e non della spesa per interessi, vediamo come questa sia aumentata in rapporto al PIL:


Come si può notare dalla tabella la spesa per interessi è aumentata notevolmente ma in ogni modo la spesa pubblica è cresciuta anch'essa sensibilmente, da un 37% del PIL nel 1980 fino addirittura al 44% toccato nel 1993. Aggiungendo quella per interessi si può verificare come si superi il 50% della ricchezza prodotta (PIL) arrivando a toccare, proprio nel 1993, il 57%.

Un governo, si sa, si finanzia attraverso le entrate fiscali e quando queste non coprono interamente il fabbisogno, attraverso un prestito emettendo in cambio obbligazioni. Prima del divorzio Banca d'Italia - Ministero del Tesoro, il governo si rivolgeva ai risparmiatori emettendo titoli di breve durata, i Buoni Ordinari del Tesoro, che avevano scadenza a 3, 6 e 12 mesi, il cui rendimento era dato dalla differenza tra prezzo nominale e quello di aggiudicazione. Il governo poi stabiliva un prezzo minimo di collocamento, al disotto del quale non era disposto a vendere. Questo permetteva di fissare un tetto al costo, cioè al compenso concesso all'acquirente. I titoli invenduti erano acquistati dalla nostra banca centrale ad un prezzo prefissato. Questo meccanismo ha però comportato una crescita dei prezzi (inflazione) che penalizzava maggiormente i cosiddetti redditi vincolati o fissi, crescita che è andata a toccare anche le due cifre percentuali. La lira era sempre oggetto di deprezzamento sui mercati e questo comportava un aumento della spesa per l'acquisto delle materie prime generando altra inflazione. La nostra banca centrale faceva fatica a contenere il cambio entro margini di oscillazione accettabili e questo a prescindere dall'adesione allo SME o altro. Ad esempio si vedano i prestiti richiesti e concessi a livello internazionale negli anni '70 alla nostra banca centrale per sostenere la debolezza della lira, tra cui quello famoso del 1974 concesso dalla Deutsche Bundesbank di 2 miliardi di dollari di allora ipotecando da parte nostra oltre 500 tonnellate di oro:


Nel 1974 l'Italia ebbe, questo per i cosiddetti sovranisti, piena sovranità in quanto gli accordi di Bretton Woods erano cessati nel 1971 e nel 1973 l'Italia uscì dal Serpente Monetario iniziato appena un anno prima (lo SME vedrà poi la sua luce nel 1979). La causa principale fu la crisi petrolifera del 1973 che portò ad un notevole aumento dei prezzi del petrolio.
Questo per dire che una sovranità monetaria non garantisce da forti shock economici.

Dopo il divorzio del 1981 la Banca d'Italia non è più tenuta a comprare i titoli invenduti del governo e questo lo spinge ad accettare il costo di mercato, ovvero ad emettere titoli che abbiano rendimenti in linea con quelli di mercato. La spesa per interessi dal 1981 aumentò ma al tempo stesso la quantità di moneta non crebbe più come prima andando così a calmierare l'inflazione. Ma come visto prima non è questa la ragione primaria che ha fatto aumentare il nostro debito pubblico, bensì l'aumento della spesa pubblica e solo secondariamente quella per interessi. L'aumento del livello del debito ha toccato livelli di allarme per gli investitori che richiedevano tassi di rendimento sempre maggiori. Questo è stato poi evitato in gran parte grazie all'adesione alla moneta unica che offre agli investitori una garanzia circa la nostra solvibilità data dal rispetto alle regole di bilancio che l'Unione Europea si è data. Questo lo si può verificare confrontando i rendimenti dei titoli di Stato di quei governi il cui rating è simile a quello sui nostri, ad esempio l'India che nonostante una crescita più sostenuta (+1,6% nel 2016), un debito del 70% sul PIL ed un deficit del 3,5%, deve concedere un premio pari a 3 punti e mezzo percentuali in termini reali, cioè al netto dell'inflazione, sui titoli decennali contro il nostro 0,25% circa.

Pressione fiscale e inflazione
Come visto l'aumento della pressione fiscale è stato causato in primo luogo da quello della spesa pubblica e secondariamente, contribuendo comunque sensibilmente, a quello per interessi dato che il governo non è in grado di coprire l'intera spesa con le sole entrate fiscali e né può pensare di far pagare agli investitori una porzione rilevante di essa (a prescindere dai vincoli dei trattati europei).
L'aumento della spesa pubblica complessiva comporta quindi un aumento della pressione fiscale ed un aumento di questa genera inflazione semplicemente perché imprese e lavoratori autonomi, più liberi di modificare i prezzi di vendita di beni e servizi, riversano su questi l'incremento di oneri fiscali. I lavoratori dipendenti hanno per definizione una maggiore rigidità, soprattutto in presenza di una situazione non positiva di crescita economica, in questo caso infatti le imprese tra riduzione dei profitti netti e aumento dei costi causati da quello dei listini dei fornitori saranno meno disponibili a concedere aumenti salariali ai propri collaboratori.

Prendendo i dati ISTAT sui prezzi per famiglie di impiegati ed operai nel periodo considerato sopra (1980-2000) si può osservare come questi siano aumentati proporzionalmente in coincidenza dell'incremento di spesa pubblica e pressione fiscale:


Questo effetto porta ad un ulteriore impoverimento del potere di acquisto delle famiglie, già penalizzate da una maggiore pressione fiscale conseguente una maggiore spesa pubblica. Nel corso del tempo si giunge così ad una crescita sempre minore dei consumi interni, i quali non vengono compensati dalle vendite all'estero (esportazioni), il che comporta una riduzione degli investimenti privati da parte delle aziende dato che non c'è ragione di incrementare la capacità produttiva, la produttività così non migliora e l'intera economia non cresce più a livelli tali da assorbire la nuova forza lavoro (giovani).

Si tenga poi conto che nella stima del Prodotto Interno Lordo viene inclusa anche la cosiddetta economia sommersa, ovvero quella che da un certo punto di vista produce reddito ma che essendo sconosciuto al fisco non viene tassato e quindi non contribuisce alla spesa, la quale grava così sui contribuenti onesti. L'incidenza di questa non è irrilevante, ad esempio nell'anno 2014 è stata del 13% del PIL:


Questo significa che la stima della pressione fiscale risulta per definizione alterata in quanto essa dovrebbe essere rapportata al PIL conseguito regolarmente. Se ad oggi questa risulta essere del 43% sul PIL 'viziato' da un 13% di sommerso, ne deriva che realmente, ovvero su chi le imposte le versa, questa risulta essere praticamente del 50%. Con un livello tale e qualità dei servizi ottenuti in cambio inferiore a quelli che Paesi con spesa inferiore o uguale hanno, ne deriva che essa rappresenta una zavorra dalla quale occorre liberarci, diversamente l'economia non potrà vedere crescite adeguate nonostante i risultati a livello internazionale.

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