mercoledì 1 marzo 2017

Breve analisi dell'export tedesco dal 1990 al 2016

L'euro ha davvero facilitato l'export della Germania? La politica di contenimento dei salari ha generato una concorrenza sleale da parte della Germania nei confronti dei partner dell'eurozona?
Queste più che essere semplici domande sono diventate oramai delle affermazioni, talvolta presentate come veri atti di accusa verso la maggiore economia europea.
Ma è davvero così? O più semplicemente, quanto c'è di vero in queste affermazioni?
Ho preso i dati relativi al commercio estero della Germania dal 1990 al 2016 tratti dall'Ufficio Federale di Statistica (Statistisches Bundesamt), i risultati dell'analisi che ho condotto portano a pensare che non sia pienamente sostenibile la tesi che l'adesione alla moneta unica abbia favorito in misura particolare (o solo) il commercio estero della Germania, non come vorrebbero alcuni economisti come il Prof.Alberto Bagnai, che ne ha fatto una 'quasi' vocazione quella di puntare il dito accusatorio nei confronti dell'euro (a suo modo di vedere German-oriented) e della politica economica attuata in particolare dal governo Schröder durante il suo secondo mandato (2002÷2005) con la serie di riforme contenute nel pacchetto Agenda 2010. (Qui l'ultimo suo articolo in ordine di tempo).

In questa mia analisi ho preso in considerazione gli 11 principali partner commerciali della Germania del 2016 dal punto di vista delle esportazioni, nell'ordine (in blu Paesi dell'eurozona, in rosso gli altri):

  1. Stati Uniti (€ 107 mld)
  2. Francia (€ 101 mld)
  3. Regno Unito (€ 86 mld)
  4. Paesi Bassi (€ 79 mld)
  5. Cina (€ 76 mld)
  6. Italia (€ 61 mld)
  7. Austria (€ 60 mld)
  8. Polonia (€ 55 mld)
  9. Svizzera € 50 mld)
  10. Belgio (€ 42 mld)*
  11. Spagna (€ 41 mld)
*Dal 1990 al 1998 include il Lussemburgo, dal 1999 solo Belgio)

Complessivamente rappresentano 758 mld sui circa 1.207 che la Germania ha realizzato nel 2016. In generale dal 1990 al 2016 essi hanno rappresentato circa 2/3 dell'export tedesco, nello specifico essi in questo periodo hanno pesato rispetto al valore complessivo:
  • Minimo 62%
  • Massimo 69%
  • Mediana 66%
Direi che questo ci da la possibilità di procedere ad una analisi dell'andamento nel tempo dell'export tedesco anche non considerando i dati relativi alla moltitudine di Paesi che insieme costituirebbero 'solo' poco più del 30%. Insomma, ci focalizzeremo sulla prima (o quasi) fascia dell'analisi paretiana.

I dati di ciascun Paese in valore assoluto nel periodo considerato sono rappresentati in questo grafico:


Non è proprio di facile lettura, o meglio di facile analisi. Per approfondire l'andamento mi sono affidato quindi agli indici, o meglio ad un indice pari a 100 per quanto riguarda il dato iniziale, ovvero quello del valore dell'export nell'anno 1990. Per semplificare la presentazione dei risultati ho considerato intervalli di 3 anni anziché di uno:


Osservando attentamente quest'ultima tabella si possono verificare dati interessanti come ad esempio i notevoli incrementi delle esportazioni verso la Cina e la Polonia, ma anche il raffronto tra Paesi dell'area euro e gli altri. Le performances migliori sono infatti risultate quelle verso i secondi, dove oltre al dato notevole ottenuto con la Cina, passato dai 2,15 mld del 1990 ai 76,11 mld del 2016, e con la Polonia, da 3,90 mld del 1990 a 54,80 mld del 2016, si registra quello con gli Stati Uniti, passato da 24 mld del 1990 ai 107 mld del 2016. In ambito eurozona invece il risultato migliore in termini di incremento percentuale lo si registra con la Spagna ed a seguire con l'Austria con un dato 2016 di oltre 3 volte quello del 1990 ma sempre inferiore a quelli visti precedentemente.
Tra queste nazioni il dato peggiore, sempre in termini percentuali, dopo il Belgio (che assieme ai Paesi Bassi merita una particolare considerazione) lo registra proprio l'Italia. Il dato relativo alle nostre esportazioni verso la Germania (o viceversa le importazioni tedesche dall'Italia) vede che dal 1990 il nostro Paese ha esportato in Germania beni per 26.674 milioni di euro e nel 2016 ben 51.774 milioni di euro, pari ad un incremento del 94%.
A onor del vero va comunque riconosciuto che durante il periodo che va dal rientro nello SME (1996) ed in particolare dall'adozione della moneta unica (1999) ad oggi la bilancia commerciale tra Italia e Germania è a loro favore ma questo dipende in buona parte anche dalla tipologia di prodotti scambiato:


Ho scritto che per Belgio e Paesi Bassi c'è una particolare considerazione da fare, infatti entrambi sono oggetto di dati alterati per il cosiddetto Rotterdam Effect:


In pratica una merce che è destinata in un Paese dell'Unione Europea (es.Germania) oppure in partenza da questi verso nazione extra UE ma che transita dal porto di un Paese terzo (appunto Paesi Bassi o Belgio), secondo le normative doganali nel primo caso la merce viene registrata come importata dal Paese che la riceve per primo presso il porto di sbarco anche se non il destinatario finale e viene registrata come esportazione dal medesimo verso il Paese effettivamente destinatario. Viceversa se dalla Germania ad esempio viene spedita una merce verso gli USA via porto di Rotterdam, i Paesi Bassi registreranno tale merce come importata dalla Germania ed esportata verso gli USA, non è quindi registrata come esportata direttamente dalla Germania verso gli USA. Per questa ragione i dati di commercio estero di questi Paesi intermediari vedono valori decisamente elevati rispetto alle dimensioni della propria economia.

Anche la Polonia merita una specifica osservazione. Le ragioni che risiedono nel notevole trend di crescita degli scambi con la Germania sono relativi alla consistente delocalizzazione di attività produttive di aziende tedesche in Polonia per beneficiare delle condizioni favorevoli che questo Paese ha offerto all'indomani del crollo della Cortina di Ferro. Infatti si noti l'incremento che vi è stato dal 1993 al 1996 e a seguire. Ad oggi la Polonia assieme alla Repubblica Ceca hanno nella Germania il partner principale, con i primi che con i tedeschi scambiano il 27% circa dell'ammontare complessivo di commercio estero ed i secondi il 32%.

Per il resto, se prendiamo l'andamento del cambio dollaro USA contro euro:


e lo usiamo per analizzare l'andamento dell'export con gli Stati Uniti, si può osservare che nel periodo 2001÷2008, ovvero quando il cambio è passato da 0,85 a 1,57 USD per 1 euro, le esportazioni tedesche verso oltreoceano sono cresciute del 5% appena, ma le importazione sono cresciute anche meno, solo 1%!
Insomma, il notevole apprezzamento della moneta unica europea (85%) ha sicuramente frenato l'incremento dell'export verso gli USA ma al tempo stesso non ha incrementato le importazioni. Meriterebbe quindi una analisi più approfondita visto che in questo caso il cambio non ha dato i risultati che molti economisti si sarebbero aspettati.

Se facciamo la stessa analisi con la Cina prendendo il cambio Yuan (o Renminbi) con l'euro (si noti l'andamento del tutto simile con quello precedente del dollaro):


possiamo notare come nel periodo 2001÷2004, quando l'euro si è apprezzato di oltre il 50%, le esportazioni tedesche verso la Cina sono comunque passate da 12.118 milioni di euro del 2001 a 20.992 milioni del 2004, ovvero un incremento del 73% mentre le importazioni sono cresciute del 64%: da 19.942 milioni a 32.791 milioni.

Il caso svizzero poi pone ulteriori dubbi circa l'effettiva influenza del cambio sul commercio estero, o comunque sulla sua entità:


Dal 1999 al 2007, quando il cambio dell'euro con il franco svizzero non ha visto variazioni di rilievo, le esportazioni tedesche verso la Svizzera hanno visto un incremento del 83% mentre le importazioni del 142%, poi dal 2008, quando la moneta svizzera si è deprezzata continuamente, l'export è cresciuto del 39% e l'import del 47%. Insomma il calo del 60% circa del franco svizzero ha visto da una parte un calo delle esportazioni tedesche ma dall'altra ha dato una spinta meno che proporzionale alle importazioni.

Terminando con la sterlina britannica:


vediamo che dal 2000 al 2009, a fronte di un apprezzamento dell'euro sulla sterlina di oltre il 50%, le esportazioni tedesche in UK sono comunque cresciute del 30% e le importazioni di appena il 13%.

In definitiva è certamente vero che il cambio svolga una certa influenza negli scambi commerciali ma questa è alla luce di analisi empiriche come queste meno di quanto molti economisti ritengono.

Per quanto riguarda la tanto citata moderazione salariale, è vero che nei primi anni 2000 vi è stato un accordo tra imprese e sindacati con lo scopo di ridurre l'incidenza del costo del lavoro attraverso un aumento dei salari in misura inferiore alla produttività, ma questa misura non ha influito sensibilmente sulla dinamica dei prezzi dei prodotti esportati, infatti se prendiamo sempre i dati dell'Ufficio Federale di Statistica ed in particolare l'indice dei prezzi dei prodotti esportati (Ausfuhrpreise) delle principali categorie merceologiche, si vede come l'andamento non registra una sensibile variazione sia durante l'attuazione delle riforme Hartz (2003÷2005) che in seguito:


L'unica categoria che segna un calo è quella dei prodotti di ingegneria meccanica, elettrotecnica e autoveicoli (Machinenbauerzeugnisse, elektrotechnische Erzeugnisse und Fahrzeuge), sicuramente una delle principali se non la principale, ma dal 2007 il trend è comunque tornato a crescere, seppur lentamente.
In ogni caso non è che negli anni che vanno dal 1989 al 1999 (gli anni ancora del Deutsche Mark) l'andamento fosse molto diverso. La cosiddetta moderazione salariale del 2003 ha quindi sì ridotto il costo del lavoro ma a beneficio più dei margini di profitto aziendali che sui prezzi finali dei prodotti, se non parzialmente evitandone un aumento maggiore. L'analisi storica dell'economia tedesca insegna che è un loro dogma il contenimento dei prezzi, non è una novità introdotta con la partecipazione alla moneta unica.
In ogni caso le ragioni del successo dell'export tedesco non possono essere licenziate con la sola motivazione dell'euro e della moderazione salariale, moderazione che recentemente non è più in corso dati i crescenti aumenti salariali conseguenti anche all'introduzione del salario minimo a € 8,50 dal 2015 e da quest'anno a € 8,84, che hanno avuto come conseguenza un sensibile aumento del costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP, in tedesco Lohnstückkosten).


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