martedì 21 marzo 2017

Le dimensioni contano...in economia

Già durante il periodo dei miei studi universitari (fine anni '80), contrariamente a quanto si andava affermando per la maggiore, io ero perplesso se non proprio scettico sul cosiddetto "modello Nord-Est", ovvero quella particolare struttura di buona parte della nostra economia basata su piccole e medie aziende capaci proprio grazie alle loro ridotte dimensioni di risultare più flessibili e di adeguarsi più velocemente alle mutate situazioni di mercato. Questo è sicuramente vero, rispetto ad una grande industria con una struttura rigida ed allargata quanto a management, una piccola realtà con al vertice l'imprenditore che decide su tutto risulta più reattiva nel prendere decisioni a fronte di particolari condizioni del mercato.

Ma è un vantaggio che non compensa gli aspetti che invece sono peggiorativi rispetto alle imprese di più grandi dimensioni, cioè per alcuni aspetti di breve termine quella piccola è in vantaggio ma nel medio-lungo periodo essa si trova inadeguata a competere con le maggiori. Intanto per una questione tipicamente strutturale: una azienda con pochi addetti, per quanto abbia un prodotto valido, non può essere presente però in tutti i mercati, in tutti i continenti. Si prenda ad esempio una realtà produttiva con 10, 20 o anche 30 dipendenti, farà fatica ad avere un organico che possa presenziare adeguatamente il territorio nazionale, quello continentale e quello extra continentale, cosa che può fare invece meglio quella con 100, 200 o 300 dipendenti.

Si obietterà (comprensibilmente) che questa è una osservazione banale e che anche le grandi aziende sono nate come piccole attività, che poi nel tempo sono cresciute e che lo stesso può avvenire per quelle che sono appunto piccole oggi. Si, vero, ma è questo il punto che voglio sottolineare: è proprio il modello Nord-Est che per sua logica si autolimita, cioè è caratterizzato da una cultura che pone dei limiti propri alla sua crescita. Questa tipologia di impresa ruota attorno alla figura del suo o dei suoi (solitamente pochi) fondatori ed a costui/costoro è legato lo sviluppo, sviluppo che difficilmente potrà risultare alla lunga vincente. Ricordo che già all'epoca (anni '80) era diffusa la questione ad esempio del passaggio generazionale, i cui dati statistici evidenziavano come se tra la prima e la seconda generazione l'azienda poteva non risentire del passaggio, già dalla seconda alla terza potevano verificarsi invece dei sensibili contraccolpi. Abbiamo avuto diversi esempi di aziende che fin quando il suo fondatore aveva le redini in mano della sua attività, questa risultava competitiva e poteva confrontarsi anche con realtà decisamente più grandi nello scenario internazionale. Si pensi ad esempio a ditte come la Zanussi (oggi gruppo Electrolux) e la sua controllata Selèco; la Mivar per il settore delle radio prima e dei televisori poi: buona qualità di prodotti ma non capace di stare al passo con l'evoluzione tecnologica. Anche questa è una caratteristica che vede penalizzata la piccola azienda: poca capacità di investimento in Ricerca & Sviluppo ed in una fase storica contrassegnata dalla tecnologia questo diventa un handicap non da poco. Se ne possono fare molti di riferimenti e tutti caratterizzati più o meno dallo stesso destino legato, come visto, da quello del suo fondatore ed eventualmente dalle prime generazioni successive.

La differenza con l'estero è che altrove i fondatori spesso si sono affidati prima o poi a manager ai quali hanno lasciato la direzione. Per citare casi noti, le tedesche Bosch e Siemens diventate entrambe multinazionali, con la prima che è diretta da manager ma il cui azionariato rimane comunque nelle mani della famiglia Bosch principalmente attraverso la loro fondazione e una parte di quote possedute direttamente.
La seconda invece ha una storia ancora più vecchia della Germania stessa (1871 l'anno dell'unificazione), fondata dall'ingegner Ernst Werner von Siemens e dai suoi fratelli nel 1847 a Berlino (allora capitale della Prussia) e oggi la più grande multinazionale d'Europa per fatturato e dipendenti e la cui famiglia Siemens detiene oggi circa il 6% dell'azionariato, del quale il 28% è nelle mani di residenti tedeschi ed il resto a stranieri con complessivamente un 64% circa rappresentato da investitori istituzionali, un 20% da privati a cui sommare il 6% della famiglia Siemens ed un rimanente 10% non definito (dati finanziari aggiornati all'agosto 2016).

La citazione di realtà tedesche è fatta a proposito perché anche in Germania vi è una notevole presenza di piccole e medie imprese ma con la differenza che per il mercato internazionale si distingue nettamente la tipologia di aziende coinvolte.


Come si vede dalla tabella tratta dall'Ufficio Federale di Statistica (ripartizione in percentuale del fatturato 2014 per dimensione delle aziende: KMU = piccole e medie; Großunternehmen = grandi aziende), in Germania vi è da una parte un elevato numero di piccole e medie imprese (KMU - kleine und mittlere Unternehmen), ma dall'altra se si guardano i diversi settori si nota come la presenza sia marcata in quello delle costruzioni (Baugewerbe), turistico (Gastgewerbe) e dei servizi (Dienstleistungen) mentre in quelli restanti prevalgono quelle di maggiori dimensioni.
Mentre quindi per la Germania il commercio estero coinvolge poco più del 80% aziende di grandi dimensioni e solo il rimanente piccole e medie imprese, per il caso italiano abbiamo una situazione ben diversa, citando i dati ISTAT 2014 all'interno del Rapporto sulla Competitività 2017:

"Se la partecipazione delle imprese italiane agli scambi internazionali è estesa in termini di attori, è molto più limitata in termini di concentrazione: nel 2014 in Italia i primi venti esportatori rappresentavano il 13 per cento delle esportazioni dell'industria, meno dei primi 5 esportatori di Francia o Germania. Inoltre, coerentemente con le caratteristiche di elevata frammentazione del sistema industriale italiano, le imprese esportatrici si caratterizzano per una dimensione relativamente ridotta: le micro (da 1 a 9 addetti) e le piccole (da 10 e 49 addetti) imprese rappresentavano rispettivamente circa il 65 e il 29 per cento del totale delle imprese esportatrici."

Chiaro? Le piccole e medie imprese italiane rappresentavano insieme nel 2014 ben l'84% delle imprese esportatrici, praticamente quasi l'esatto opposto della realtà tedesca! E la differenza si vede dai dati dell'export, con la Germania che nel 2016 ha toccato i 1.200 mld di euro mentre l'Italia registra poco più di un terzo.


I vantaggi competitivi di una grande azienda rispetto ad una media o addirittura ad una piccola sono molteplici, dalla capacità di raggiungere livelli di produttività maggiori grazie ad economie di scala, a quello di procurarsi finanziamenti a migliori condizioni, la possibilità di essere presenti prontamente e capillarmente in ogni mercato favorevole. Si pensi ad esempio ad una piccola realtà con le sue limitate capacità di poter passare da un continente all'altro rispetto a quella grande per cogliere così le opportunità di Paesi caratterizzati da fasi di elevato sviluppo economico.
Va comunque detto che le imprese italiane nonostante tutto si difendono comunque bene sullo scenario internazionale, infatti se si prendono in considerazione le quote di export per continente la differenza tra Germania e Italia non è rilevante. Ad esempio i tedeschi esportano in UE poco meno del 60% del totale contro il nostro 56% (dati 2016 per entrambi - Fonte Statistisches Bundesamt e Istat). La differenza quindi la fanno i numeri assoluti, più che le percentuali.

Oggi più che 30 anni fa è necessario che il nostro sistema produttivo sia caratterizzato da imprese dalle dimensioni decisamente più grandi, in grado quindi di potersi confrontare in ogni area geografica ed in ogni settore che con la globalizzazione diventa sempre più competitivo. E' ora insomma di incorniciare e di appendere alla parete dei ricordi la 'fabrichetta del sciur Brambilla'.

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