mercoledì 14 settembre 2016

La riforma Fornero era davvero necessaria?

Nonostante siano passati 5 anni e mezzo dalla riforma Fornero che ha riformato il sistema pensionistico, è ancora viva la discussione tra coloro che la difendono e quelli che la criticano.
La domanda, anzi le due domande, alle quali desidero dare risposta è: "Era davvero necessaria quella riforma ed in quei termini?"
Dal mio punto di vista era sì necessario provvedere a correggere le regole in vigore in quel momento, in considerazione delle proiezioni a medio-lungo termine del tasso di invecchiamento della popolazione e dell'aumento (fortunatamente) della longevità, ma non era però necessario procedere con una riforma dai contenuti urgenti e drastici.

Il contesto storico (2011)
Per comprendere le ragioni che hanno portato a quella riforma così urgentemente, occorre riepilogare brevemente la situazione che c'era nel 2011. Dal mese di Luglio di quell'anno i mercati hanno cominciato a mostrare nervosismo riguardo alla prospettiva di una crisi dell'eurozona, crisi che avrebbe potuto portare anche ad una sua dissoluzione. Sebbene qui talvolta la si vuole ricordare come una fase in cui solo l'Italia sarebbe stata 'sotto attacco', in realtà vi fu un gruppo di Paesi che vide perdere la fiducia sia da parte degli investitori internazionali che di molti loro residenti, i quali, per timore di possibili ripercussioni sui loro capitali finanziari, hanno iniziato a trasferirne in misura sempre crescente verso mercati più sicuri. In pratica si è assistito così ad una fuga, sia di capitali da parte dei residenti come degli investitori, dai cosiddetti Paesi PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) verso quelli 'core', Germania in primis, e questo è stato alla base dell'aumento del differenziale dei rendimenti dei titoli di Stato, differenziale definito dall'oramai noto termine inglese spread. Dal mese di Luglio infatti lo spread tra titoli di Stato dei Paesi PIIGS e quelli tedeschi è andato via via aumentando, non solo sulla scadenza principale (10 anni) ma anche per i titoli con scadenza a breve e medio termine (entro 12 mesi e 3-5 anni). Man mano che ci si avviava verso la fine dell'anno cresceva il timore di una disgregazione dell'eurozona e quindi si assistette all'acuirsi della crisi con la pressione sui titoli di Stato dei Paesi cosiddetti periferici.

Cosa c'entra questo con la riforma delle pensioni?
Per comprendere il legame occorre partire un po' lontani e dalla crisi sui mercati finanziari.
Si deve tenere presente da cosa è composto il rendimento di una obbligazione sovrana emessa da un governo. Per le scadenze a medio e lungo termine, ogni obbligazione prevede una cedola che rappresenta il premio che periodicamente l'emittente riconosce ai creditori a fronte del prestito ricevuto ed è espresso in termini percentuali. Il valore nominale dell'obbligazione è normalmente di 100 euro e rappresenta il prezzo che l'emittente (il governo) pagherà al possessore una volta giunta a scadenza. Dato che le obbligazioni vengono collocate mediante asta, il prezzo di aggiudicazione può essere diverso da quello nominale (€ 100,00) e quindi il rendimento nominale (al lordo delle imposte) sarà diverso da quello rappresentato dalle cedole: maggiore se il prezzo di collocamento è minore di quello nominale (es.98,00 euro) e viceversa minore se collocato ad un prezzo maggiore (es. 101,00 euro).
Lasciamo da parte lo spread per il momento, perché fuorviante, e focalizziamo l'attenzione sul rendimento, il quale in pratica rappresenta il costo complessivo che l'emittente (il governo in questo caso) dovrà pagare al creditore affinché costui sia disposto a prestargli denaro. Se un investitore a fronte di un debitore che gode di alta affidabilità è disposto a concedere credito ad un tasso supponiamo del 2% annuo, nei confronti di un altro meno affidabile vorrà un compenso maggiore che includa appunto il maggior rischio. Questo rendimento comprenderà quindi il valore della cedola e del differenziale di prezzo tra quello di assegnazione e quello nominale. Se ad esempio il governo che gode di minore fiducia emette titoli con cedola 1% e l'investitore è disposto a prestare denaro ad un tasso non inferiore del 4%, allora il prezzo che sarà disposto ad offrire per acquistare l'obbligazione sarà sicuramente inferiore a 100 euro, ovvero il valore nominale. Se invece il governo emettesse lo stesso titolo con cedola al 4%, probabilmente l'investitore offrirà in asta un prezzo vicino a quello nominale.

Tutto questo cosa comporta? E quale legame con le pensioni?
Ancora un po' di pazienza. Ci avviciniamo ora a spiegare cosa accadde verso la fine del 2011 e alle ragioni per cui si rese necessario procedere alla riforma del sistema pensionistico così urgentemente, ragioni che fanno capo all'obiettivo di contenimento della spesa pubblica.
Più ci si avvinava alla fine dell'anno e più gli investitori perdevano fiducia in una tenuta dell'eurozona e abbandonavano sempre più i cosiddetti PIIGS per dirottare gli investimenti verso Paesi più sicuri. In quel contesto, per proseguire a finanziarsi, il nostro governo, come quelli degli altri Paesi sotto pressione, era costretto ad accettare condizioni sempre più onerose. Queste condizioni erano espresse da cedole con tassi di interesse più elevati ed allo stesso tempo, per quanto visto sopra, a collocare i titoli a prezzi sempre inferiori al prezzo nominale. Le differenze di prezzo furono più consistenti per i BOT che non hanno cedola ed il rendimento è quindi rappresentato dalla sola differenza tra prezzo di aggiudicazione e quello nominale.
Come si può notare da questa tabella, tratta dal sito internet del Dipartimento del Tesoro, i rendimenti dei BOT sono cresciuti notevolmente nell'ultimo bimestre del 2011 arrivando a toccare il 6%:


Perché ho voluto illustrare questo fatto? Perché questo rappresenta la crisi finanziaria che ha coinvolto il nostro governo (Berlusconi prima e poi Monti) e le difficoltà di ottenere credito dai mercati che nutrivano sempre meno fiducia nei nostri confronti.
Se il Tesoro necessita ad esempio di 5 miliardi per pagare BOT giunti a scadenza ed eventualmente coprire anche parte del deficit di bilancio, in normali condizioni provvederà ad emettere almeno 50 milioni di BOT  (o qualcosa di più) del prezzo nominale di 100 euro cadauno. Se però il mercato è disposto a prestare denaro a fronte di un rendimento del 6% (quello dell'ultimo bimestre 2011) vi sono due alternative:

- Il Tesoro, sapendolo in anticipo, emette il 6% in più di BOT (53 milioni anziché 50) così da conseguire i 5 miliardi di euro che gli servono;
- Il Tesoro non aumenta il numero e deve accontentarsi di ricevere un importo inferiore del 6% rispetto al previsto, ovvero 4,7 miliardi anziché 5.

In entrambi i casi si hanno problemi di finanza pubblica: nel primo caso si avrà un rapido aumento del debito pubblico, nel secondo si registrerà un 'buco' nel bilancio e difficoltà a coprire tutte le spese previste.
Questo è quello che si trovò ad affrontare il governo Monti quando a Novembre del 2011 sostituì quello Berlusconi, dimissionario. Questo perché i rendimenti salirono improvvisamente su tutte le scadenze, non solo per i BOT.

La Banca Centrale Europea aveva varato già nel 2010 il piano SMP (Securities Markets Programme) con il quale si impegnava ad acquistare sul mercato secondario titoli di Stato dei governi in difficoltà, così da tenere per quanto possibile bassi i rendimenti, in cambio però di azioni da parte dei governi stessi per riformare la spesa e contenere i deficit entro i limiti previsti dai trattati: le famose riforme strutturali!
Questo fu quello che la stessa BCE chiese per mano di Trichet e Draghi con la famosa lettera inviata all'allora governo Berlusconi nell'agosto del 2011. In pratica: "Noi (BCE) siamo pronti ad aiutarvi ma dovete procedere con riformare diversi settori per migliorare la vostra condizione".
Il governo Berlusconi varò una prima manovra con efficacia sul fronte del bilancio però dal 2012 e i mercati non lo considerarono sufficiente. Così in seguito il governo Monti si trovò ad affrontare una elevata sfiducia e per porre rimedio dovette mettere mano con urgenza ai conti pubblici.
Dovendo affrontare una correzione sensibile alla spesa pubblica così, in tempi brevi, non ebbe tempo né modo di farlo su più voci, ma bisognava puntare su quelle più elevate e la più alta è appunto quella previdenziale che costa complessivamente oltre 300 miliardi di euro l'anno.

Posticipando la pensione a centinaia di migliaia di lavoratori cambiando le regole, lo Stato (via INPS) avrebbe conseguito un risparmio. Coloro quindi che erano in procinto di terminare la loro attività lavorativa per ottenere la prevista pensione se la sono vista rinviare di alcuni anni. Introducendo queste norme da subito però hanno comportato un serio problema a quanti, convinti di poter accedere alla pensione nel giro di pochi mesi, avevano rassegnato le dimissioni. Costoro si sono trovati infatti a perdere il lavoro una volta arrivati a scadenza ma senza il diritto alla pensione perché nel frattempo la riforma Fornero aveva cambiato le regole.

Molto si è speso a tale riguardo sul tema dei cosiddetti esodati (senza lavoro e senza pensione) e la stessa ex ministra Elsa Fornero ha ripetutamente affermato che non aveva avuto percezione che il numero di costoro potesse essere così elevato, d'altronde la stima era sconosciuta anche al nostro ente previdenziale, l'INPS.
Non consci della portata di questo fenomeno, il governo Monti ha quindi proseguito e chiesto al Parlamento l'approvazione urgente del testo di legge onde tagliare la spesa previdenziale in tempi brevi e riconquistare fiducia verso i mercati.

Ora nuovamente le domande:
"Era davvero necessario procedere così urgentemente? Non era possibile rivedere i parametri di anzianità ma iniziare con un po' più di calma, ad esempio dopo due o tre anni?"

Dal punto di vista dei conti pubblici ritengo personalmente di sì, che era possibile, la situazione era sì seria ma non drammatica. Per quanto riguarda i mercati, a loro interessa avere risposte concrete, fatti, atti certi come lo è una legge approvata dal Parlamento e se la sua introduzione decorre immediatamente o dopo appunto due o tre anni in un campo come quello previdenziale dove l'arco di tempo da prendere in considerazione è comunque di medio-lungo termine, non fa una differenza rilevante. Sono poi convinto che anche la Commissione Europea e la stessa Banca Centrale Europea alla fine avrebbero comunque accettato una riforma meno frettolosa nella sua applicazione.

Ma analizziamo i primi effetti della riforma Fornero prendendo in esame il bilancio sociale dell'INPS del 2012.
Questa tabella mostra le nuove pensioni erogate nel 2011, quindi prima che entrasse in vigore la riforma:


Come si vede il numero delle nuove prestazioni è stato di 260.202, per una spesa annualizzata di 6 miliardi e 158 milioni di euro.
Vediamo ora le prestazioni concesse nel 2012, dopo l'introduzione della riforma Fornero:


Queste sono risultate 247.506 per un costo annuo di 5 miliardi e 664 milioni. Insomma mezzo miliardo circa in meno rispetto al 2011.
Una riduzione di spesa previdenziale si registra dal 2013, anche se qui andrebbe analizzata quella effettivamente dovuta alla riforma Fornero. In ogni caso non rilevando risultati sensibili già nel 2012 c'è appunto da chiedersi se non si poteva implementare con un po' più di calma, evitando così il fenomeno degli esodati.


Se poi si guarda il Documento di Economia e Finanza del 2013 redatto dal governo Monti, la spesa previdenziale nonostante la riforma Fornero risulta essere comunque in aumento fino al 2015 per poi proseguire con andamenti altalenanti fino ad una riduzione prevista nel 2045.


Insomma la riforma era necessaria, ma non la sua modalità di introduzione così urgente dato che non si riscontrano risparmi cospicui nel breve termine rispetto a quella che vi sarebbe stata senza la stessa, mentre invece si è creato così facendo il triste fenomeno degli esodati.
E' plausibile che tra i possibili interventi, quello sulle pensioni fosse quello meno oggetto di resistenze e quindi pressioni sul Parlamento, oltre a poter dare da solo un risultato consistente dato che assieme a quella sanitaria rappresenta la voce di spesa pubblica maggiore.
In definitiva, la definizione data dai sindacati ai pensionati quale 'bancomat pubblico' non è poi così inconsistente, la spesa previdenziale è talvolta usata per fare cassa e/o correggere errori da parte dei governi.

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