venerdì 3 febbraio 2017

Se l'Italia uscisse dall'euro, parlando di auto

Nella oramai quotidiana ed infinita discussione circa i presunti svantaggi che l'appartenenza alla moneta unica, l'euro, ci avrebbe provocato, la cui soluzione consisterebbe nel suo abbandono per tornare alla lira, i suoi sostenitori denunciano che chi non è d'accordo tenda a non voler considerare la questione del dopo e di focalizzarsi eccessivamente sull'aspetto del pericolo finanziario del durante per terrorizzare i cittadini affinché non condividano questa scelta. La tesi, se ci riflettiamo, è davvero singolare: le aziende rinuncerebbero a risollevarsi da una situazione di criticità, o nel migliore dei casi di incrementare le vendite, rifiutando questa scelta per una qualche sconosciuta motivazione.
Se fate caso, a questo confronto vengono coinvolti quasi esclusivamente politici, economisti e giornalisti. Che ci sta, ma le imprese, i manager? Perché in fondo è su di loro che ruoterebbe tutto. Se avessero ragione i fautori di tale soluzione, non sarebbero certo i politici a creare lavoro una volta che le vantaggiose conseguenze avessero effetto, o gli economisti, o i giornalisti. Sarebbero le imprese, imprese che aumentando le vendite a partire da quelle verso l'estero assumerebbero personale, il quale aumenterebbe sia il gettito fiscale che i propri consumi e di conseguenza la domanda aggregata interna, e allora le aziende assumerebbero altre persone e via così fino a raggiungere la piena occupazione!

Ma le imprese non la pensano così, anzi è dal 2012 che hanno espresso una posizione molto chiara e motivandola:


(Chi desiderasse leggere il documento, per quanto sintetico, clicchi qui)

Insomma o le aziende non sono in grado di comprendere quali vantaggi avrebbero dal seguire questa scelta o preferiscono operare in una realtà asfittica come quella in cui ci troviamo.
Oppure semplicemente hanno ragione e tale soluzione non è percorribile perché, come scritto nella analisi sintetica, molte cose sono cambiate dal secolo scorso a partire dalla fine degli anni '80 e certi meccanismi non funzionano più e optano invece per altre soluzioni, prima tra tutte la pressione fiscale che da noi si porta via due terzi del profitto lordo: 62% il Totale Tax Rate dell'Italia contro il 48,9% della Germania, 30,9% del Regno Unito, 44% degli Stati Uniti, 48,9% del Giappone, il 40,4% della Polonia e il 38,4% della Romania (dati della Banca Mondiale).
Ora spiego perché ho aggiunto gli ultimi due Paesi, Polonia e Romania.
Immaginate di avere una impresa con 50 dipendenti in produzione e che il costo annuale medio di ciascuno sia di 35.000 euro (un media bassa). Questo comporta una spesa di 1.750.000 euro l'anno per il personale. Delocalizzando l'attività in Polonia o in Romania avrete la possibilità di risparmiare annualmente rispettivamente circa 1,2 milioni e 1,4 milioni di euro. Questo stando al costo medio orario stimato da Eurostat e che ho preso dal sito dell'Istituto Federale di Statistica di Wiesbaden:


E' (purtroppo per chi non lo conosce) in tedesco perché per pigrizia - confesso - avendo disponibile questa tabella ho fatto a meno di cercarla in altra lingua, comunque in sostanza mostra il "costo del lavoro nel settore privato per ora lavorata".
Se aggiungiamo il fatto che il costo della vita e quindi anche relativo a opere edili è proporzionale, ne deriva che se in Italia per un fabbricato si dovrà spendere ad esempio 1 milione di euro, in ambedue questi Paesi il costo sarà notevolmente inferiore. Magari non un quarto o meno ma non credo di ipotizzare male se stimo un terzo. Questo significa che con 1,2÷1,4 milioni di risparmio annuo sul costo del personale avrete capacità di spendere questa cifra per un fabbricato e/o altro con un potere di acquisto 3 volte (se non di più) un corrispondente in Italia . Il resto negli anni successivi è tutto profitto.
Condiamo il tutto con il vantaggio fiscale (Total Tax Rate inferiore) ed ecco che si può comprendere come non sia sufficiente un 20, 30 o anche 40% di vantaggio conseguito una tantum sul cambio della neo valuta (la lira) per invogliare le imprese italiane a far rientrare la produzione. Trascuro l'ipotesi di dazi punitivi alla Trump perché la considero una emerita fesseria che l'attuale neo presidente USA avrà modo di verificare se deciderà di introdurli.

Ma ora desidero mostrare l'aspetto da un altro punto di vista, con l'intento di spiegare che il tema è più complesso di quello che viene rappresentato semplicisticamente da alcuni economisti pro Euroexit ed in particolare a quelli che ritengono che la Germania abbia conseguito un vantaggio proprio grazie alla moneta unica.
La prendo alla lontana, esattamente dalla Cina guardando al settore automobilistico.

Nel 2016 il mercato cinese ha visto un aumento notevole delle vetture immatricolate  superando i 28 milioni di unità (+14% rispetto al 2015). Il primo produttore è risultatato la Volkwagen con ben 3.006.408 auto immatricolate, davanti a Buick (1.229.808) e Honda (1.196.664). La FCA? Il Gruppo Fiat Chrysler Automobiles ha drasticamente ridotto le auto prodotte e vendute in Cina a marchio Fiat a beneficio dei modelli a marchio Jeep. Fiat è infatti calata ancora nel 2016 del 58,6% a sole 13.048 immatricolazioni (la fonte è questa qui).
Insomma da una parte abbiamo Volkswagen con 3 milioni di auto e dall'altra Fiat con 13.000. 

Colpa dell'euro che è sottovalutato per il made in Germany e viceversa per il made in Italy?

Assolutamente NO!

Perché i 3 milioni di auto immatricolate la Volkswagen le produce in loco attraverso la Joint Venture FAW-VW e la Shanghai Automotive Industry Corporation. La prima produce i modelli Bora, C-Trek, Golf GTI, Golfsportsvan, Jetta e altri, la seconda Lamando, Lavida, Sedan e altri.
Dati e immagini dei modelli li trovate cliccando qui.
Fiat fa lo stesso con la Joint Venture GAC-Fiat producendo i modelli Ottimo, Viaggio, Palio, Siena, Perla.
Dati e immagini dei modelli li trovate cliccando qui.

I dati dell'Istituto Federale di Statistica di Wiesbaden (l'ISTAT tedesco) ci dice che nel 2015 dalla Germania sono andate in China autoveicoli privati e commerciali (Kraftfahrzeuge e Landfahrzeuge) per un controvalore di 17.660 milioni di euro, poco più di 17 miliardi e mezzo. Se ipotizziamo un prezzo medio - per difetto - di 15 mila euro per modello (Lavida, che è la più venduta con 478.699 unità immatricolate, ha un prezzo base di 18.000 euro circa) otteniamo che ai 3 milioni di auto vendute corrisponde un volume d'affari di almeno 45 miliardi di euro!

Se ci trasferiamo dall'altra parte, negli Stati Uniti, vediamo come se da una parte le vendite di marchi tedeschi non è da primato come in Cina, dall'altra il gruppo FCA e Fiat in particolare sono anche qui molto indietro. I primi tre grandi produttori negli USA nel 2016 sono stati Chevrolet, Toyota e Honda. I tedeschi di Volkwagen sono arrivati al 13° posto con 37.229 unità immatricolate, seguiti da Mercedes-Benz (15° con 35.871 unità), BMW (16° con 32.835 unità), Audi (18° con 23.195 unità). Crysler la troviamo al 23° posto con 16.776 vetture, Fiat al 32° con 2.606 unità e Alfa Romeo al 39° con 52 unità.
Insomma Fiat è superata da marchi ben più costosi come Mercedes, BMW e Audi. Anche in questo caso una parte considerevole di vetture è prodotta o negli USA stessi o presso stabilimenti comunque nel continente (es.Messico).
I dati li trovate da questa fonte qui.
Sempre dai dati dell'Istituto Federale di Statistica tedesco si ha che nel 2015 dalla Germania sono stati prodotti e venduti negli USA veicoli per un controvalore di circa 32,4 miliardi di euro.

Ora passiamo alle considerazioni:

1) Si può ipotizzare che un abbandono dell'euro e ritorno alla lira possa influire sensibilmente su questo immenso divario? Un divario che come si può comprendere non è (solo) una questione di prezzo, ma è dovuto (anche) ad altre cause. Chi come me ha esperienza commerciale pluriennale sa bene che il prezzo è una sola delle diverse componenti che fanno il successo di un prodotto.

2) Questo esempio mostra come le vendite ed il fatturato complessivo delle aziende di una nazione non sono rappresentate dai soli dati dell'export, infatti i 3 milioni di vetture prodotte e vendute in Cina da Volkswagen non figurano (e non possono) nei dati dell'export tedesco.

3) E' conveniente per una azienda far rientrare la produzione in Italia affrontando costi maggiori di manodopera e infrastrutturali oltre a sopportare una maggiore tassazione?

Forse si replicherà trasferendoci all'interno dell'Europa e con altri prodotti, ad esempio su prodotti più tipici come quelli alimentari. Sappiamo che noi italiani facciamo ottimi salumi e formaggi ma buona parte della carne e del latte sono di importazione. Certamente un cambio che dovesse rendere più competitiva la nostra produzione farebbe diminuire l'importazione dei due prodotti ed incentivare i nostri allevamento. In parte è sicuramente così, ma attenzione che aprire e rendere conveniente un allevamento non è così facile come ipotizzarlo su carta o alla lavagna. I costi sono ingenti. Inoltre occorre tenere presente anche i limiti strutturali, nei decenni dal dopoguerra la nostra economia ha subito una profonda trasformazione con una drastica riduzione del peso del settore agricolo a favore di quello industriale il quale comunque sta subendo anch'esso da diversi anni un calo a discapito del settore dei servizi. Pensare che si possa tornare indietro anche solo in parte, ma una parte comunque rilevante, è ipotesi assai ardua. E' invece più verosimile che si possa assistere ad un limitato recupero (o incremento) della produzione autoctona e che invece si prosegua ad importare - a prezzi maggiori - gran parte del fabbisogno.

Allora che fare? Come uscire da questa difficile situazione nella quale ci troviamo? Le risposte vedremo di trovarle prossimamente. Certamente non puntando sul cambio-logo delle nostre banconote.

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