mercoledì 21 maggio 2014

I 'Cantastorie'

La campagna elettorale di queste elezioni europee sta giungendo al termine e gli argomenti discussi maggiormente sono sempre gli stessi: euro SI - euro NO e questioni di politica nazionale (scordando che non sono elezioni politiche). Di temi davvero europei c'è poco o nulla. E' insomma più un referendum pro o contro l'euro che un dibattito su cosa serve a questa Europa travolta da una crisi senza precedenti e che a fatica sta cercando di uscirne.

Gli economisti che dovrebbero analizzare il contesto economico individuando le ragioni della crisi e le vie di uscita si sono concentrati quasi unicamente sulla moneta unica servendo così ai politici su un piatto d'argento la scusa per scaricare le proprie negligenze e responsabilità per come è finito il nostro Paese.



Ve lo ricordate? Era il 10 Novembre 2011 quando uscì questo titolo sulla prima pagina de Il Sole 24 Ore, il quotidiano di Confindustria, titolo che vinse anche il premio "Ferrari" come titolo dell'anno.
Al governo c'era Berlusconi che darà le dimissioni due giorni più tardi lasciando il posto al prof.Mario Monti. Cosa è cambiato da allora? Quali riforme strutturali sono state messe in atto?
La risposta la sappiamo: molto poco. La politica non ha abbandonato quella tendenza ad occuparsi più dei propri interessi che di quelli del Paese. Ogni partito bada più a raccogliere consensi che a cercare di risollevare la situazione disastrosa nella quale ci troviamo. Se servono soldi si aumentano le tasse e la giustificazione è: "Ce lo chiede l'Europa!". Ma l'Europa non chiede nulla, semmai lo chiedono i trattati che abbiamo volontariamente sottoscritto, trattati che non dicono che dobbiamo aumentare le tasse o porre un limite alla spesa pubblica, ma che dobbiamo pareggiare le uscite con le entrate. Quindi se vogliamo aumentare la spesa pubblica occorre trovare le risorse oppure dobbiamo ridurla se si intende diminuire la pressione fiscale e spazio per farlo ce n'è, ci sono libri e libri e fiumi di inchiostro (si fa per dire) consumati in centinaia e centinaia di articoli dove vengono elencati esempi di spreco di denaro pubblico. Abbiamo pure una trasmissione satirica quotidiana (credo essere unica al mondo) che ci fornisce prove di tanti sprechi, sprechi che magari non risolveranno il problema del debito pubblico ma intanto sono indice della nostra scarsa considerazione del bene pubblico.

Alla fine problema e soluzione sembra essere al tempo stesso una sola: l'euro! La moneta che maneggiamo dal 2002 viene indicata come la causa nei nostri problemi ed il ritorno ad una propria valuta, alla vecchia lira o comunque ad una moneta tutta italiana, viene prospettata da alcuni economisti, a cui si associano molti politici, come la principale soluzione.
Ma chi sono questi economisti che tanto puntano il dito contro l'euro e quali sono le loro argomentazioni?

Claudio Borghi Aquilini 

La presentazione, per non sbagliare, la copio dal suo sito personale: "Milanese, economista ed editorialista è Professore incaricato presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano - dove insegna Economia degli Intermediari Finanziari, Economia delle Aziende di Credito ed Economia e Mercato dell'Arte."

E' oggi candidato indipendente nella lista della Lega Nord nella circoscrizione 1. Italia Nord-Occidentale.

E' anche editorialista per il quotidiano Il Giornale sul quale ha pubblicato diversi articoli critici sia verso l'euro che verso la UE ed in particolare contro la Germania, accusata di condurre una politica egemonica ai danni dei partner dell'eurozona, soprattutto dei Paesi mediterranei sostenendo una politica che li metterebbe in difficoltà.
Borghi sostiene che l'euro ha fatto bene alla sola Germania perchè avrebbe impedito che il cambio riportasse in parità la competitività della nostra economia, cioè con un cambio forzatamente fisso dovuto all'adozione della stessa moneta e un differenziale di inflazione a favore dei tedeschi, i nostri prodotti sono risultati via via sempre meno competitivi sul mercato internazionale mentre i loro al contrario hanno visto crescere la domanda incessantemente.
Sarebbe lungo da spiegare nei dettagli la inconsistenza di questa affermazione e quindi mi limito a mostrare i dati che evidenziano come le esportazioni italiane siano comunque cresciute e abbiano raggiunto livelli mai toccati prima:



Il grafico mostra i dati fino al 2005, per il 2013 l'Istat ha registrato un totale esportazioni per circa 390 miliardi, 359 miliardi sono state le importazioni a cui corrisponde quindi un saldo positivo per 30,4 miliardi di euro. Insomma l'export italiano non ha conosciuto crisi nonostante l'euro sia una moneta che nel tempo si è apprezzata rispetto alle altre valute rendendo meno convenienti le nostre merci. Sicuramente sarebbe preferibile un calo del suo valore al fine di dare una spinta ulteriore alle vendite fuori dell'eurozona ed in particolare per quei prodotti che risentono maggiormente del prezzo o anche per permettere un maggiore margine visto che in molti casi le aziende sono costrette a ridurli per tenere competitivi i propri prodotti, ma in ogni caso l'euro non ha provocato un rallentamento delle esportazioni come alcuni economisti e politici vanno sostenendo.

Quali sono allora le principali cause che hanno provocato la crisi profonda della nostra economia?
Innanzi tutto va detto che la nostra economia soffre da tempo di una bassa produttività le cui cause riguardano le imprese stesse ed in particolare:

  • Produzioni dal basso contenuto di valore aggiunto.
  • Dimensioni troppo piccole (più da microimprese) con conseguente peso eccessivo dei costi fissi e maggiore difficoltà di accesso al credito e con costi maggiori.
Poi vi sono le cause esogene e che riguardano prevalentemente:
  • L'elevata pressione fiscale.
  • Burocrazia (che comporta sia costi maggiori che ostacoli in alcune fasi dell'attività di impresa - avviamento ed espansione).
  • La difficoltà di accesso al credito e a condizioni svantaggiose rispetto a molti competitors stranieri
Pressione fiscale
Contrariamenmte a quello che afferma il prof.Borghi la pressione fiscale in Italia è aumentata a seguito dell'aumento della spesa pubblica. Lui infatti mostra spesso il grafico che indica il rapporto debito/Pil e da quello asserisce che la spesa pubblica in Italia sia diminuita mentre al contrario è aumentata in Germania, ma se guardiamo direttamente al dato riscontriamo che non è così:


Questi grafici sono tratti da uno studio pubblicato dall'Istituto Bruno Leoni e redatto dal dott.Pietro Monsurrò. Naturalmente essendo dati il prof.Borghi o altri possono sempre contestarli.
Come si può vedere la spesa pubblica in Italia, nonostante il calo del costo per gli interessi sul debito pubblico, è comunque aumentata dal 2004 al 2006 e la pressione fiscale ha seguito lo stesso andamento a partire dal 2005.
In Germania invece, contrariamente a quello che asseriscono il prof.Borghi e alcuni altri economisti, la spesa pubblica è diminuita proprio a partire dal completamento delle riforme contenute nel famoso pacchetto Hartz-Konzept, la cui attuazione è avvenuta nel triennio 2003÷2005. Per quanto riguarda invece la pressione fiscale si può vedere come in Germania sia rimasta sostanzialmente costante in rapporto al PIL. C'è però da notare che a fronte di un livello di pressione fiscale inferiore i servizi pubblici di cui godono i cittadini tedeschi sono di gran lunga maggiori di quelli che le amministrazioni pubbliche italiane offrono ai loro cittadini, basti pensare al welfare ad esempio.

Ma il prof.Borghi afferma anche una ulteriore intesattezza nei confronti della Germania sostenendo che ha disatteso i parametri di Maastricht, in particolare quello che riguarda il rapporto deficit/Pil fissato al 3%, a seguito delle riforme Hartz, ma non è così. La Germania infatti ha superato tale limite nel quadriennio 2002÷2005, quindi prima e durante l'attuazione di tali riforme, non dopo!
Tra l'altro questo e altri parametri sono stati disattesi da quasi tutti gli Stati dell'eurozona, motivo per il quale non è stata avviata alcuna sanzione nei confronti sia della Germania che degli altri.

Riprendendo la questione della spesa pubblica si può osservare dai dati presi dalla ricerca del dott.Monsurrò e riportati nella seguente figura come la spesa primaria sia aumentata a fronte di un calo della spesa per interessi sul debito pubblico, segno che non abbiamo sfruttato questo beneficio per ridurre la pressione fiscale:


Va anche menzionata l'evasione fiscale che comporta uno squilibrio nella tassazione, colpendo chi non ha la possibilità di evadere e gli onesti (cittadini e imprese).

Altro fenomeno che incide negativamente nella nostra economia è quello della corruzione che comporta disfunzioni nel regolare mercato concorrenziale avvantaggiando quelle attività che in maniera disonesta vincono gli appalti. Senza considerare che i costi ricadono poi sui cittadini, costretti a pagare più del dovuto per le opere pubbliche assegnate illegittimamente.

Il prof.Borghi più volte ha sminuito queste piaghe affermando che in fondo sia l'evasione fiscale che la corruzione erano presenti anche nei decenni passati quando l'economia era in condizioni diverse da quella di oggi. A me personalmente non pare una affermazione degna di un 'economista' che dovrebbe biasimare a gran voce ogni fenomeno distorsivo del mercato e della libera concorrenza.


Alberto Bagnai
"Professore associato di Politica economica presso il Dipartimento di Economia dell'Università Gabriele d'Annunzio di Chieti-Pescara"

Anche il prof.Bagnai è un fervente sostenitore dell'abbandono dell'euro e di un ritorno ad una propria moneta nazionale.
Molte sue argomentazioni sono simili a quelle del prof.Borghi e in particolare la sua attenzione si è spesso rivolta al ruolo della Germania e alle presunte politiche del lavoro che avrebbero, a suo dire, danneggiato i partner europei e in primis dell'eurozona.
Imputato principale a suo avviso (come del prof.Borghi) sarebbe il pacchetto Hartz-Konzept, colpevole di aver deflazionato il costo del lavoro e reso così più vantaggiosi i prodotti tedeschi.
Ma la responsabilità delle riforme Hartz è del tutto infondata in quanto riguardano quasi esclusivamente le forme contrattuali, gli uffici del lavoro (diventate agenzie), il sostentamento al reddito e infine, e forse è qui probabilmente dove lui e Borghi puntano il dito, ai contratti atipici in vigore dal 1977: i minijob e midijob. Ma se è così allora o non li ha capiti oppure dovrebbe dimostare come questa forma particolare di contratti influenzerebbe il costo dei prodotti esportati.

I minijob infatti sono contratti che trovano applicazione in attività saltuarie oppure continuative ma marginali, non si applicano infatti al personale di produzione (operai), di ufficio (impiegati) o addirittura a quadri e dirigenti. In un bene, che sia prodotto o commercializzato, non c'è quasi nulla di minijob nella componente 'costo del lavoro'. Non si capisce quindi come la cameriera al ristorante piuttosto che al Biergarten che svolge qualche ora alla settimana con un contratto minijob possa influire sul costo di produzione di una autovettura. Se Bagnai, Borghi e altri volessero maggiori conferme in merito a quali tipologie di lavoro viene proposto un contratto minijob possono andare al sito dell'agenzia federale per il lavoro:
Bundesagentur für Arbeit
intanto io posso dar loro qualche dato statistico riguardante la media delle ore settimanali svolte da coloro che hanno contratti minijob:


Come si può osservare la maggior parte effettua molto meno delle consuete 40 ore settimanali.
Nelle regolari mansioni (operaio/impiegato) le aziende assumono nè più nè meno con contratti simili a quelli in uso da noi, quindi direttamente con contratti a tempo determinato o indeterminato, a tempo pieno o part-time, con compenso mensile o a ore, oppure indirettamente attaverso le agenzie di lavoro interinale.
Mediamente le retribuzioni, nonchè il costo del lavoro, sono maggiori che nella maggior parte dei Paesi dell'eurozona (Italia inclusa):


Se poi il costo del lavoro unitario di prodotto alla fine risulta essere inferiore, questo deriva dalla maggiore produttività conseguita ed una maggiore efficienza del 'Sistema Paese'.

Se si dovesse sostenere una politica europea che tenda a convergere e quindi a ridurre le differenze tra i Paesi allora mi trova d'accordo perchè è questa la strada a mio avviso da perseguire, non quella di separarsi illudendo i cittadini che tornando alla lira (o comunque ad una propria moneta) la situazione cambi come per miracolo.

L'Europa deve proseguire il processo iniziato molti anni fa e interrotto, o comunque portato avanti con lentezza, da quando è stato introdotto l'euro arrivando ad una omogeneità delle politiche fiscali onde permettere alle imprese di un Paese di competere a pari condizioni con le altre all'interno della UE e dell'eurozona in particolare. La teoria delle aree valutarie ottimali ha senso e può essere menzionata solo finchè esistono queste differenze.
Dobbiamo andare avanti e non tornare indietro!

Le aziende italiane con molti anni di attività alle spalle ed in particolare quelle con uno spiccato orientamento all'export che conoscono quindi benefici e svantaggi delle svalutazioni questo lo hanno capito ed infatti non condividono le soluzioni prospettate da Borghi e Bagnai. Puntano invece il dito contro quelle cause che ho elencato precedentemente: pressione fiscale (da ridurre); burocrazia (da ridurre); accesso al credito (da semplificare) e alcune altre.
Se si desidera avere qualche ulteriore informazione circa la posizione degli industriali segnalo un breve documento redatto dal Centro Studi di Confindustria e che si può trovare su internet in formato Pdf:


Una uscita dall'euro non solo comporta rischi notevoli ma i vantaggi prospettati da alcuni economisti tra cui appunto i qui citati Borghi e Bagnai sono tutti da dimostrare. I presunti benefici a seguito dell'ultima svalutazione subito dopo l'uscita della lira dallo SME nel 1992 sono parziali. E' vero che per alcuni anni la bilancia dei pagamenti è andata in attivo, ma Borghi e Bagnai non citano anche altre conseguenze, ad esempio che per cause non dipendenti dalla svalutazione ma che la stessa non ha evitato si sono persi 650.000 posti di lavoro dal 1993 al 1995:


Il debito pubblico è poi passato dal 104% del PIL nel 1992 al 120% nel 1996 con conseguente aumento della spesa per gli interessi, costo che si paga 8e si è pagato!) attraverso le imposte:


Come si nota l'importo per gli interessi è diminuito fortemente in termini assoluti beneficiando proprio dell'adozione della moneta unica, uscendone siamo destinati a pagare di più visto che i mercati avranno meno fiducia nell'investire in una economia italiana separata dalle altre per moneta.

La ricetta per uscire dalla crisi e riprendere a crescere, è di ridurre e ottimizzare la spesa pubblica; ridurre la pressione fiscale ed effettuare una seria lotta alla evasione fiscale aumentando così la base imponibile; investire in ricerca, in cultura e in istruzione; semplificare (e ridurre) la burocrazia; migliorare i servizi e incentivare la concorrenza. Insomma tutte quelle riforme che l'Europa, tanto denigrata ultimamente, va ripetendo e che la nostra classe politica rimanda continuamente da oramai troppo tempo.

Borghi e Bagnai si rendano conto che l'Europa non è nostra nemica, non lo è la Germania che può essere considerata una nostra concorrente ma anche un nostro cliente, anzi, il nostro miglior cliente! Ma soprattutto non è la Germania l'unica che ha beneficiato dell'euro e peggio ancora la causa della nostra crisi. Fino al 2008 le opinioni erano ben diverse e ben pochi criticavano la moneta unica. A quel che mi risulta nemmeno Borghi e Bagnai, folgorati sulla via di Damasco solo dopo l'arrivo della crisi del 2008:


Borghi e Bagnai smentiscono che un ritorno alla lira (o comunque ad una valuta nazionale) possa generare inflazione o semmai non quel livello di iperinflazione che alcuni prospettano.
Io non so dare una risposta al riguardo perchè molto dipende dal tipo di politica monetaria che verrà attuata, però mi sembra difficile credere che in un Paese che non ha mai avuto molto a cuore il problema dell'inflazione, e difatti si è quasi sempre trovato tra quelli che hanno registrato valori tra i più alti, possa, in caso di ritorno a moneta propria, non vedere crescere i prezzi in misura rilevante.
E' mia opinione che Borghi e Bagnai non abbiano fatto delle stime circa l'aumento di base monetaria necessaria se, per contrastare il prevedibile aumento dei tassi di interesse sul debito, anzichè imporre ulteriori tasse (oramai al limite di sopportazione) si decida di 'stampare moneta'. Io qualche ricerca sul tasso di crescita negli anni della lira e dell'inflazione a due cifre l'ho fatta e credo che nell'evventualità appunto di ritorno ad una moneta nazionale quei livelli saranno sicuramente superati, almeno per i primi anni e questo ammontare di denaro non potrà non causare una salita dei prezzi.

Se nel 1992 non c'è stato aumento dell'inflazione (a seguito dell'uscita della lira dallo SME e seguente svalutazione) è perchè l'economia è entrata in recessione, la disoccupazione è aumentata dal 7 al 9%  mentre l'occupazione come visto precedentemente ha visto perdere 650.000 posti di lavoro in tre anni e il prezzo delle materie prime (petrolio in testa) si è ridotto notevolmente:


Nel 2013 abbiamo acquistato 32 miliardi di euro di petrolio e circa altrettanti di gas, se passassimo ad una moneta che si svalutasse rispetto al dollaro per ogni 10 punti percentuali di svalutazione ne deriverebbe un maggiore costo per circa 6,5÷7 miliardi di euro (o equivalenti nella futura moneta) che dovremmo pagare attraverso maggiore costo dei carburanti, bollette, tariffe per il trasporto e di molti prodotti che acquisteremo. L'Istat potrà anche rilevare un aumento contenuto del tasso di inflazione, ma in ogni caso quei miliardi li dovremo tirare fuori perchè non credo proprio che per la prima volta nella storia il governo si faccia carico di tale costo stampando moneta.

Nei molti articoli pubblicati da Borghi e Bagnai non ne ho visto uno che fornisca una qualche traccia attendibile circa le modalità di uscita dall'euro in maniera da ridurre i rischi (leggere: i costi) al minimo. A volte sembra descritta come una semplice operazione da effettuarsi in un fine settimana. Può essere che molti, io per primo, si abbia un unico neurone (come ripete spesso il prof.Bagnai indicando chi, come i sostenitori del Partito Democratico, non condividono le sue teorie) e si faccia quindi difficoltà a capire le facili soluzioni da loro prospettate, però una cosa è certa: da un economista ci si aspetta molto di più di semplici articoli nei quali sono presenti numerose imprecisioni e per un docente universitario ci si aspetta anche una disponibilità al dialogo ed al confronto, che da parte di entrambi è mancata sin da subito verso chi non ha condiviso il loro punto di vista e posto logiche e opportune obiezioni.

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