sabato 22 marzo 2014

Euro SI, euro NO

E' conveniente uscire dalla moneta unica? E' preferibile invece rimanervi? Per me è come domandare se è preferibile vivere da soli o in coppia. Se con la persona con cui si intende convivere c'è sintonia, si condividono gran parte degli interessi, c'è intesa e reciproco rispetto (al di là di normali litigi e incomprensioni non importanti) è sicuramente la soluzione preferibile. Ma se al contrario vi sono numerosi dissensi, intolleranza e personalità troppo differenti allora è chiaro che è meglio stare soli.

Per quanto una relazione tra Stati sia differente rispetto a quello tra due persone rimane comunque un punto in comune, se tra di essi c'è interesse a costruire una comunità basata su una certa omogeneità di valori, di interessi e in questo caso legislativa e fiscale, si hanno certamente dei vantaggi, ma se prevalgono le differenze culturali, il sospetto, gli egoismi e la diffidenza allora è bene che ciascuno prosegua indipendentemente.

Detto questo l'Unione Europea, nata prima come Comunità Europea nel lontano 1957, nonostante i passi avanti compiuti da allora ad oggi verso un processo di piena integrazione, è ancora lontana dal raggiungere l'obiettivo di intenti iniziale. I cittadini europei non sentono ancora quei vantaggi che erano stati prospettati a suo tempo, non conoscono appieno la sua struttura organizzativa, le sue istituzioni, le funzioni, e spesso vengono disinformati sia dagli organi di (dis)informazione e sia da molti politici nazionali i quali cercano di scaricare sull'Europa responsabilità che sono invece proprie.
Con la crisi economica è andata aumentando la diffidenza verso le istituzioni comunitarie, accusate di curare gli interessi di presunti gruppi di potere e non del benessere dei cittadini.

Purtroppo alcune recenti decisioni e prese di posizione adottate in sede europea, in particolare a seguito della crisi del 2008, non fanno altro che alimentare queste accuse. Va però detto che le decisioni più importanti e criticate non sono state prese dalle istituzioni europee in senso stretto, ovvero dalla Commissione Europea o dal Parlamento Europeo, ma dal Consiglio Europeo quindi dai rispettivi capi di Stato e di Governo dei Paesi aderenti.

Ad essere messa maggiormente in discussione oggi è la moneta unica, l'euro, accusata di essere alla base della crisi del sistema economico in molti Paesi. Ma è davvero così?
Per quanto la sua introduzione sia stata avventata, in quanto doveva essere anticipata da una maggiore integrazione politica e fiscale, l'euro rimane comunque una moneta, ovvero una unità di conto che mette a confronto sullo stesso piano diversi livelli di competitività senza la possibilità di affidarsi al cambio per compensare eventuali deficit. Il cambio tra due valute permette infatti di riequilibrare temporaneamente diverse dinamiche tra i Paesi mentre quando questi condividono un'unica moneta è necessario che non vi siano diversità nella politica fiscale per permettere alle aziende di competere alla pari e dove la differenza la fa l'efficienza.

Svalutare una valuta, oppure un suo deprezzamento, può rendere più competitive le merci ma al tempo stesso più onerose le importazioni, soprattutto quelle relative alle materie prime delle quali nel nostro caso non se ne può fare a meno. I benefici sono poi limitati nel tempo, per questo motivo è una non soluzione. Le soluzioni durature sono quelle strutturali.
Altro aspetto negativo di una eccessiva frequenza di svalutazioni riguarda i tassi di interesse più onerosi sui prestiti in denaro perchè chi investe dall'estero vuole che il rendimento tenga conto del fattore cambio. Chi investe dal proprio Paese vuole invece che tenga conto del tasso di inflazione per non perdere potere di acquisto e in un Paese che non ha mai considerato culturalmente l'aumento dei prezzi come un importante fattore negativo per l'economia non è difficile supporre che in caso di ritorno ad una moneta nazionale si assista ad un rialzo dei prezzi considerevole.

L'euro ed i vincoli di bilancio concordati per entrare a farne parte hanno dato enormi vantaggi che non siamo stati capaci di sfruttare in pieno. Primi tra tutti il calo dell'inflazione e una moneta stabile che favorisce gli investimenti, fattori che si sono riflessi sui tassi di interesse riducendoli progressivamente, sia quelli sul debito pubblico sia quelli per i prestiti privati:




 
Anche sul fronte dell'occupazione il periodo che ha preceduto l'adozione dell'euro ha mostrato un calo del tasso di disoccupazione, tasso che contrariamente a quanto alcuni ritengono è sempre stato alto quando avevamo la lira:






Questo indice di recente è salito più per colpa di una crisi che ha altre cause rispetto alla moneta, cause che se non rimosse non si risolveranno la questione del lavoro e della crescita.
L'euro non ha infatti alcuna responsabilità in quanto il problema riguarda la scarsa domanda interna, non quella estera che nel tempo è sempre cresciuta tanto che l'Italia registra un tasso di incremento delle esportazioni secondo solo alla Germania:


Occorre quindi analizzare e rimuovere le vere cause che hanno portato questo calo dei consumi interni se si vuole tornate a crescere e le imprese lo hanno ribadito in numerose occasioni quello che è il loro punto di vista:

  • Riduzione della pressione fiscale
  • Semplificazione della burocrazia
  • Riduzione dei tempi della Giustizia civile
  • Più efficienza nei servizi pubblici
  • Miglioramento delle vie di comunicazione (soprattutto nel meridione)
In tutto questo l'euro, inteso come moneta troppo forte sul mercato, viene dopo. Certamente sarebbe auspicabile avere una valuta deprezzata di un 20÷30% rispetto alla quotazione odierna sulle altre valute ed in particolare sul dollaro per aumentare la competitività dei nostri prodotti, ma questo non rappresenta l'ostacolo principale che rimane fondamentalmente il basso margine di profitto. Aumentare le vendite grazie ad un calo del tasso di cambio non risolverebbe questo problema, aumenterebbe temporaneamente le vendite ma non darebbe alle imprese quella capacità competitiva per confrontarsi adeguatamente con quelle straniere che contano su una tassazione minore e costi legati all'apparato burocratico decisamentre inferiori, dove per burocrazia non si intende semplicemente apporre 15 firme anzichè una, ma una serie di adempimenti che comportano costi e tempi. Non poter disporre di un margine adeguato comporta infatti deficit competitivi notevoli in quanto le imprese non hanno a disposizione le stesse possibilità di investimento (come anche di retribuire adeguatamente i lavoratori) dei concorrenti stranieri.

Il Prodotto Interno Lordo pro capite italiano (1) ha subito un rallentamento della crescita a decorrere dall'adozione dell'euro, ma la causa non è questa, bensì il calo progressivo dei consumi (2) derivante dall'aumento della pressione fiscale (3) a sua volta dovuta all'aumento della spesa pubblica (4):

 








Possiamo sicuramente decidere di lasciare l'euro per tornare ad una moneta nazionale, ma pensare che questa via da sola risollevi l'economia, riduca la pressione fiscale, aumenti i redditi e i consumi, ridia slancio alle nostre imprese, è assolutamente deleterio e significherebbe non aver capito le cause della difficoltà della nostra economia. La moneta poi non è una macchina del tempo, tornare alla lira non significa fare un balzo indietro di venti o trent'anni. Questo per rispondere a chi ritiene possibile tornare all'epoca in cui il Paese cresceva a ritmi soddisfacenti semplicemente cambiando politica monetaria, sebbene non fosse all'epoca tutto rose e fiori.

Le cause della nostra perdita di competitività vanno ricercate anche nella mancata comprensione della sfida che la globalizzazione del mercato ci ha riservato dopo il crollo ideologico ben rappresentato da quello del Muro di Berlino e l'affacciarsi di Paesi prima assenti o pressochè tali come Cina, Brasile e Turchia oltre a quelli legati all'ex COMECON.
Una sfida che ha indotto molte imprese a delocalizzare, soprattutto per quelle attività legate a produzioni dall'alto contenuto di manodopera e dal basso valore aggiunto, attirate dai bassi costi del lavoro, dalla bassa pressione fiscale (talvolta anche da incentivi fiscali) e dalla burocrazia semplice. Quelle tra queste che hanno mantenuto la produzione in Italia hanno subito sempre più la competizione di concorrenti che possono contare su costi decisamente inferiori.

Uno degli errori più grossi e ahimè diffuso oggi è quello di confrontare le produzioni italiane con quelle realizzate nei maggiori Paesi OCSE: USA, Giappone, Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna. Questo è dal mio punto di vista sbagliato in quanto le nostre aziende si difendono più che egregiamente contro questi competitors, mentre sono le produzioni realizzate nei Paesi emergenti (es.BRICS, Europa orientale) a metterle in seria difficoltà, in particolare per prodotti di bassa qualità dove il fattore determinante è il prezzo.

 



Tornare ad una nostra moneta nazionale non permetterebbe alle nostre aziende di competere con produzioni realizzate in Paesi dai costi dei fattori notevolmente inferiori. Dobbiamo puntare invece sulla ricerca, sull'innovazione, sulla qualità, contando su un fattore che abbiamo sempre dimostrato di possedere più di altri: la creatività.

Poi sicuramente l'Europa deve fare anch'essa la sua parte, ovvero gli Stati devono spingere verso una maggiore integrazione politica, prendere in considerazione maggiormente il tema della crescita e quello dell'occupazione e non solo quello del bilancio pubblico, sebbene rimanga anch'esso un obiettivo importante perchè comporta comunque costi sulla collettività in termini di interessi da pagare, cioè costi che sottraggono a famiglie e imprese capacità di spesa e di investimento.


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