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martedì 3 maggio 2016

L'illusione della svalutazione monetaria

Supponete di avere una azienda con 50 dipendenti. Ipotizzate che il costo del lavoro annuo medio di ciascuno di essi sia di 40 mila euro (un po' basso ma per questo esempio può andare bene) quindi annualmente la vostra azienda sosterrà un costo complessivo di 2 milioni di euro per il fattore lavoro.

Nel settore manifatturiero l'incidenza del costo del lavoro sul fatturato varia da settore a settore e da azienda a azienda, ma mediamente questo oscilla tra il 12 ed il 18%, per il nostro esempio prendiamo il dato medio secondo le statistiche, ovvero il 15%. Questo significa che nel caso della azienda in questione il fatturato annuo per dipendente sarà di circa 267 mila euro e quello complessivo di poco più di 13 milioni di euro.

Si ipotizzi ora che io vi venga a trovare e vi suggerisca di delocalizzare la vostra attività in un Paese dove:

costo del lavoro + tassazione + livello dei prezzi in generale

siano tutti favorevoli. Un Paese a caso:


ad esempio in Polonia, o ancora meglio in Romania o anche in Bulgaria dove il costo medio orario del lavoro è rispettivamente di 5 e 4 euro (8,60 in Polonia) contro i 28 in Italia (fonte Eurostat).
Se sceglieste la Bulgaria il costo annuo per il personale passerebbe dagli attuali 2 milioni a circa 286 mila euro con un risparmio quindi di poco più di 1,7 milioni di euro!
Con questo importo risparmiato è possibile poi pagarsi il capannone (sia esso da costruire o già pronto da acquistare) considerando che il livello dei prezzi è proporzionalmente inferiore, magari non 1/7 come il costo del lavoro ma comunque non molto diverso. Di conseguenza se in Italia la realizzazione di un fabbricato costerebbe 1 milione, in Bulgaria potreste cavarvela con 150 mila o 200 mila euro. E ogni anno successivo conseguireste maggiori profitti per 1,7 milioni di euro grazie al risparmio sul costo del lavoro, pari al 13% del fatturato.

Se poi aggiungiamo che la tassazione sugli utili in Bulgaria è decisamente inferiore, credo che la cosa si faccia davvero interessante (tratto da una recente pubblicazione Eurostat):


Insomma, risparmiereste 1,7 milioni di euro all'anno (13% del fatturato), paghereste complessivamente molte meno tasse e ogni spesa effettuata in quel Paese (vedi fabbricato) costerebbe molto meno che qui in Italia. Siete convinti?

Probabilmente chi avrà letto qualche libro (o blog) di economisti che propongono soluzioni avventate come quella "dell'uscita dall'euro e conseguente svalutazione" vi lascerà perplessi sull'accettare la mia proposta. In tal caso queste che seguono sarebbero le considerazioni che vi formulerei.

Ritornare ad una valuta nazionale che subisca un deprezzamento iniziale (o chiamiamola anche svalutazione) consistente, diciamo un 30% rispetto a quelle di riferimento (in primis dollaro USA), vi consentirebbe di aumentare la competitività sui mercati internazionali. Un generico prodotto che vendete a 100 euro, all'indomani di questa svalutazione per un cliente straniero è come se costasse 70 euro (o neo-lire supponendo che il cambio sia alla pari tra la nuova lira e l'euro) o comunque il 30% in meno rispetto a prima. Sicuramente avrete un incremento nelle vendite all'estero, magari non del 30% ma comunque si può ipotizzare un incremento apprezzabile.
Ma allora perché le imprese italiane guardano con scarso interesse a questa soluzione?
Intanto per quanto esposto prima è facile intuire quanto sia conveniente delocalizzare rispetto a questa soluzione che consentirebbe sì, di divenire più competitivi sul mercato internazionale aumentando le vendite, ma pur sempre in una realtà dove i profitti sarebbero tassati sempre in egual misura. Si è visto nell'esempio iniziale che solo grazie al differenziale sul costo del lavoro i profitti potrebbero aumentare del 13%, cosa che non sarebbe raggiungibile nella seconda situazione: aumenterebbe il fatturato (estero!) ma i margini crescerebbero di poco.

In secondo luogo c'è da considerare il fatto che ad ogni impresa interessa relativamente poco il fatturato in una zona specifica (in questo caso all'estero), specialmente se la quota di questo sul totale è meno della metà.
Per un imprenditore è determinante stabilire le ripercussioni sull'intero mercato di vendita (nazionale ed estero)!
Chi vi ha mostrato centinaia di volte i grafici del saldo commerciale italiano a seguito dell'ultima svalutazione della lira nel 1992, non vi ha però mostrato quello sull'andamento dell'occupazione in Italia nel triennio successivo, dove si sono persi circa 850 mila posti di lavoro sebbene le vendite all'estero si siano incrementate.

Ma un altro aspetto che lascia perplessi gli imprenditori sulla soluzione uscire dall'euro è che i vantaggi di questa sarebbero temporanei, dopo qualche anno verrebbero meno.
Io ho cercato di rappresentare la dinamica degli eventi post-svalutazione con questo esempio che ho chiamato "La settimana della svalutazione". Supponete di essere l'amministratore delegato di una azienda:

Domenica: Governo e Banca Centrale annunciano l'uscita dall'euro.

Lunedì: la neo-lira viene scambiata subito al 30% meno della parità nominale iniziale con le altre maggiori valute ed il vostro direttore commerciale vi comunica esultando che le vendite sul mercato estero sono cresciute sensibilmente.

Martedì: il vostro buyer vi comunica che i vostri fornitori di beni e servizi hanno aumentato i listini. Questo perché i prodotti di importazione sono aumentati così come il costo dell'energia.

Mercoledì: il vostro direttore finanziario vi comunica che le banche hanno aumentato i tassi di interesse debitore con conseguente aggravio degli oneri finanziari.

Giovedì: i sindacati chiedono un aumento delle retribuzioni per compensare quello dei prezzi in generale causato dalla svalutazione, aumento (si legga inflazione) che non sarà del 30% ma in ogni caso tale da far perdere sensibilmente il potere di acquisto.

Venerdì: vostro malgrado vi troverete costretti ad aumentare i listini di vendita (nazionale ed estero) dei vostri prodotti iniziando così ad annullare parte del vantaggio competitivo conseguito, processo questo che proseguirà per qualche tempo fino a ritrovarvi nella medesima situazione di partenza.

Questo molto schematicamente e senza considerare quale effetto avrà la svalutazione sulle vendite interne, che solitamente portano ad un crollo e quindi complessivamente a conseguenze più negative che positive essendo il mercato interno quello prevalente. Come avvenuto nel 1992.

giovedì 17 dicembre 2015

Bagnai unter alles!

Alberto Bagnai è un economista nonché docente universitario un po' singolare: non ama confrontarsi con chi non la pensa come lui e soprattutto non ama le osservazioni che mettano in dubbio le sue tesi. Francamente trovo singolare questo suo modo di fare, per quanto legittimo, soprattutto in considerazione che la maggior parte degli economisti ben più titolati di lui (vedi anche coloro che hanno conseguito ambiti riconoscimenti come il Nobel) si mostrano sempre disponibili verso tutti. Alla fine chi ci rimette però è lui stesso e coloro che lo seguono acriticamente ritenendo che quel che afferma sia del tutto inopinabile. Non certo chi ha la maturità di verificare altre fonti, altri punti di vista, potendo così realizzare che non tutto ciò che costui scrive (o afferma) sia veritiero.



Errare humanum est, perseverare autem diabolicum

Leggendo il suo articolo (QED61: Black Monday?)
pubblicato il 13 Dicembre sul suo blog, Goofynomics, ci si può imbattere in una delle oramai vetuste quanto inesatte affermazioni ripetute migliaia di volte:


Davvero il governo Monti, insediatosi a metà Novembre del 2011, è il principale fautore della politica di rigore varata a seguito della crisi che ha coinvolto i nostri titoli di Stato a metà del 2011? Politica che secondo un economista come Bagnai avrebbe avuto come unico effetto quello di deteriorare la domanda interna? Io ricordo di aver assistito ad un film diverso, oppure differiscono le nostre interpretazioni. Io rammento che per l'intero primo semestre di quell'anno il governo in carica, il governo Berlusconi quater, si prodigò per rassicurare gli italiani che l'economia italiana era in buona salute. I ristoranti erano pieni e difficilmente si trovava posto sui voli turistici (4 Novembre 2011).

Agli inizi di Agosto congedò la stampa augurando a tutti buone ferie e dando appuntamento alla fine del mese. Peccato che non si rese conto che il 4 Agosto 2011 il differenziale tra i tassi di interesse sui titoli decennali italiani e tedeschi aveva raggiunto i 390 punti base (3,90%) e la BCE di Trichet e Draghi (subentrante) inviò Venerdì 5 Agosto una lettera di richiamo alla realtà al governo italiano avvisandolo che per calmierare la febbre sui nostri titoli era necessario che il governo effettuasse delle misure sia di contenimento della spesa pubblica che di efficientamento nel mercato del lavoro. In assenza di provvedimenti la BCE non sarebbe intervenuta acquistando sul mercato secondario i nostri titoli del debito.
Venerdì 12 Agosto 2011 Berlusconi e Tremonti si ripresentarono in conferenza stampa illustrando una manovra da ben 45 mld di euro (!), metà con efficacia nel 2012 e la restante nel 2013.


Questo non servì per far tornare la tranquillità in quanto per l'intero secondo semestre i mercati temettero per una rottura dell'eurozona e di conseguenza abbandonarono gli investimenti sui titoli sovrani dei Paesi in crisi (Italia, Grecia, Spagna e Portogallo in primis) per trasferirli sui titoli più sicuri ancorché con rendimenti inferiori, in particolare quelli tedeschi e francesi.

A Novembre il governo Berlusconi perse la maggioranza alla Camera e la conseguenza furono, data l'imminente richiesta di una mozione di sfiducia, le dimissioni dell'intero governo dopo aver ricevuto rassicurazioni da parte del Presidente Napolitano di non andare subito alle urne ma di verificare la possibilità di formare un governo dalle larghe intese composto da cosiddetti tecnici ma sostenuto comunque dalla politica. Ed ecco il governo Monti, il quale contrariamente a quanto si recita non fece altro che confermare la pesante manovra varata dal suo predecessore. Il governo Monti varò anch'esso interventi alla spesa ma la parte maggioritaria la si deve attribuire all'accoppiata Berlusconi-Tremonti i quali sono meno oggetto di critica per il semplice motivo che la loro manovra, varata nell'Agosto del 2011, era riversata sugli esercizi successivi (2012 e 2013) cioè quando loro non erano più al governo.
Chi lo desidera può riservarsi un quarto d'ora per ascoltare dalla viva voce di Berlusconi i contenuti di codesta manovra.


E' nato prima l'uovo o la gallina?

Il prof.Bagnai torna poi per l'ennesima volta a puntare il dito contro la Germania sostenendo che l'euro avrebbe favorito le loro esportazioni a discapito di tutti gli altri in quanto l'euro, non rivalutandosi come avrebbe fatto presumibilmente una moneta tutta tedesca come il vecchio Deutsche Mark, avrebbe reso i loro prodotti più competitivi in termini relativi rispetto a quelli realizzati negli altri Paesi dell'eurozona. Questo è vero, certo, ma solo in parte, in minima parte, e vediamo il perché.
Prima di avere una domanda crescente di moneta, o meglio di valuta a livello internazionale, occorre che i prodotti siano venduti e per essere venduti devono prima soddisfare i consumatori. Ad inizio millennio, ovvero ad inizio era euro, lo sanno oramai anche le capre che l'economia tedesca era affetta da carenza di competitività tanto che proprio gli economisti la definirono la "malata d'Europa".
In un contesto come quello l'euro non poteva fare nulla a favore dei prodotti tedeschi, occorreva prima far si che fossero più competitivi e solo dopo, a seguito di una crescita delle vendite a cui non sarebbe seguita quella dei rapporti di cambio dell'euro con le altre valute (quantomeno non proporzionalmente), i prodotti tedeschi avrebbero beneficiato di una specie di 'bonus'. Cioè se con il vecchio marco i prodotti tedeschi fossero risultati più cari (esempio rispetto al prezzo espresso in dollari) di una determinata percentuale, il fatto che l'euro non rivalutandosi allo stesso modo (ma meno) avrebbe rincarato in misura inferiore i prezzi valutati in altra valuta (dollaro) e quindi i prodotti risulterebbero per l'appunto favoriti. Ma nei fatti è stato davvero così?

Se osserviamo l'andamento del cambio euro/dollaro dal 1999 vediamo che dal 2002 al 2008 l'euro si è apprezzato progressivamente, tranne una interruzione nel 2005, da 0,88 USD per 1 euro a ben 1,56 USD sempre per 1 euro, un apprezzamento di circa il 77%!


Ora guardiamo l'andamento delle esportazioni della Germania nel medesimo periodo. Come si può verificare sono passate da 651 mld del 2002 a 786 mld di euro nel 2005 (+21%) ed a 984 mld nel 2008 a cui corrisponde un ulteriore +25% rispetto al 2008 e un +51% dal 2002. Insomma a fronte di un incremento del 51% delle esportazioni il cambio è cresciuto del 77%!


Sicuramente si obietterà che l'incremento dell'export ha riguardato prevalentemente lo scambio con i Paesi dell'eurozona, ma non è così! Se si scende nei dettagli i Paesi che acquistano di più il "made in Germany" sono dopo la Francia, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Cina. Ma per dare dati precisi le vendite tedesche verso l'eurozona sono state nel 2002 di 276 mld di euro e nel 2008 hanno raggiunto quota 418 mld, quindi con incremento del 51%. Per differenza, verso i Paesi sia europei non facenti parte dell'area euro che extra europei, l'export è passato da 374 mld a 566 mld, quindi con un incremento sempre del 51%. Insomma, sicuramente l'unione monetaria ha favorito in parte la competitività dei prodotti tedeschi in quanto è venuto a mancare l'effetto cambio ma sostenere che questo è stato l'elemento determinante per la crescita delle esportazioni tedesche è eccessivo visto che l'incremento dell'export tedesco ha riguardato in egual misura i Paesi che non hanno adottato l'euro.

La (favola della) 'politica mercantilista'

Nel j'accuse contro la Germania non poteva mancare la solita stupidaggine della 'politica mercantilista' che avrebbe perseguito il Paese della Merkel allo scopo di 'fregare il vicino', meglio conosciuto nella versione originale inglese 'beggar thy neighbour'.
Io di tesi assurde se ho sentite diverse ma questa le batte davvero tutte! Il mercantilismo in sostanza è un tipo di politica economica tesa a favorire le esportazioni creando allo stesso tempo barriere alle importazioni in maniera da raggiungere un surplus commerciale e quindi accrescere la posizione economica dello Stato rispetto agli altri. Questo tipo di politica ha caratterizzato alcune economie del XVI ed in particolare il XVII secolo, principalmente quelle di Francia e Gran Bretagna ma anche molti Comuni italiani. Non volendo entrare nei dettagli suggerisco a chi lo desiderasse di informarsi presso fonti autorevoli (esempio L'enciclopedia Treccani: il mercantilismo). Una volta chiara la definizione si può passare ad analizzare la politica economica della Germania da fine secolo scorso ad oggi e verificare se questa ha delle attinenze con la dottrina mercantilista per il semplice fatto che di recente ha raggiunto valori sempre crescenti di avanzo delle partite correnti, ottenuto grazie ad un incremento delle esportazioni in misura maggiore rispetto alle importazioni.

Che questo sia stato conseguito in virtù di una politica che avrebbe penalizzato le importazioni e al contrario favorito le esportazioni, politica che avrebbe avuto come nodo centrale la dinamica dei salari e nello specifico come la definisce qualcuno una 'deflazione salariale', è una fesseria che si può smentire facilmente ricostruendo gli avvenimenti dall'unione monetaria ad oggi.

Per cominciare si osservi l'andamento della produttività tedesca per ora lavorata (in tedesco: Arbeitsproduktivität je geleisteter Erwerbstätigenstunde) del settore industriale manifatturiero (in tedesco: Verarbeitendes Gewerbe) dal 1999 al 2014 nel seguente grafico da me costruito con dati dell'Ufficio Federale di Statistica di Wiesbaden:


La pubblicazione dalla quale sono stati presi i dati è questa:


Come si nota la produttività cresce sensibilmente a partire dal 2002 per poi decrescere con l'arrivo della crisi del 2008, andamento logico considerando che la produttività generalmente è direttamente legata alla produzione, ovvero cresce all'aumentare della produzione realizzata e viceversa.

Ora si guardi l'andamento dei salari e retribuzioni lorde nominali per ora lavorata (in tedesco: Bruttolöhne und -gehälter je geleisteter Arbeitnehmerstunde) nel settore manifatturiero sempre per lo stesso periodo:


L'incremento è stato sempre crescente sebbene contenuto, non si notano riduzioni o incrementi nulli come l'affermazione 'deflazione salariale' lascerebbe intendere. E' vero che i valori riguardano i compensi lordi nominali e quindi occorre tenete conto dell'aumento dei prezzi per verificare se il potere di acquisto sia cresciuto, calato o rimasto costante. Nel periodo 2002÷2008 (quello principalmente incriminato a detta del prof.Bagnai e di chi accusa la Germania di concorrenza sleale) i salari sono cresciuti mediamente del 2% all'anno, un po' di più di quello dei prezzi pertanto si può ragionevolmente affermare che nel settore manifatturiero i salari sono cresciuti, seppur di poco, in termini reali. In altri settori, come quello dei servizi, vi possono essere stati andamenti diversi ma in quello manifatturiero come si è visto non è stato così e quindi è del tutto privo di fondamento affermare che vi sia stato un comportamento in qualche modo lesivo della Germania nei confronti dei partner dell'area euro. Il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP), che è il parametro più significativo per determinare la competitività, ha registrato un andamento migliore più per l'aumento della produttività che per un contenimento dell'incremento del costo del lavoro, la cosiddetta moderazione salariale, che sicuramente c'è stata ma per ragioni non certo imputabili ad una politica complottista.


Il prof.Bagnai in un articolo del 2012 con conteggi fatti in proprio ha stimato un calo delle retribuzioni in termini reali di circa il 6% dal 2003 al 2009. In quella analisi lui però ha preso dati complessivi dei lavoratori occupati in tutti i settori come fa notare lui stesso ("...occupati dipendenti - in inglese Total employees") e non nel solo settore manifatturiero, quello cioè più significativo nel fare confronti internazionali sulla competitività delle merci scambiate (che influenza significativa ha un calo delle retribuzioni nel settore delle costruzioni?). In ogni caso va anche fatto presente all'esimio docente di Economia dell'Università di Chieti e Pescara che un calo del 6% (ammesso, ma per quanto prima dimostrato non concesso, che ci sia stato) del livello delle retribuzioni in termini reali, non determina un incremento sensibile della competitività in quanto il costo del lavoro nel settore manifatturiero rappresenta generalmente una quota tra il 15 ed il 20% del costo totale di prodotto. Questo significa che anche a fronte di un'incidenza del 20% del costo del lavoro su quello totale, con un calo del 6% il prodotto finale costerebbe circa l'1,2% in meno!
Credo che l'impresa otterrebbe ben maggiori vantaggi delocalizzando la produzione in un Paese dove il costo non sia il 6% inferiore ma molto meno, ad esempio un quarto (V.Repubblica Ceca e/o in Polonia):


Merita una osservazione anche l'analisi dei settori merceologici che caratterizzano il confronto tra Paesi a livello di commercio estero. Se ad esempio Italia e Germania si confrontassero con prodotti del tutto simili e comunque nel medesimo settore merceologico potrei concordare sul fatto che un calo del CLUP anche lieve potrebbe fare la differenza, ma se la quota prevalente delle esportazioni italiane e tedesche si riferiscono a differenti settori merceologici non vedo come il Paese che riduce lievemente la componente del lavoro, che come visto prima rappresenta una quota contenuta sul totale, possa conseguire un vantaggio rilevante.



Va poi precisato che la cosiddetta 'moderazione salariale', che c'è stata solo parzialmente, non deriva da una intenzione di compiere una concorrenza scorretta verso i partner dell'eurozona, ma per recuperare competitività che nei primi anni 2000 era affetta da crisi profonda. Le aziende necessitavano di abbattere i costi e molte di lavoro hanno delocalizzato la produzione all'estero, prevalentemente nei Paesi dell'est Europa, e per evitare una profonda emorragia imprese e sindacati si sono accordati di recuperare competitività sacrificando il legame tra l'aumento delle retribuzioni a quello della produttività, ma lasciando che quest'ultima crescesse a tassi maggiori onde, come poi è avvenuto e come sopra è riportato, ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto a fronte dei principali concorrenti internazionali della Germania: Stati Uniti e Cina. Se infatti verso i prodotti cinesi la concorrenza può avvenire solo sul fronte della qualità e del vantaggio tecnologico, verso quelli statunitensi il confronto riguarda anche il prezzo e dato che il costo del lavoro negli Stati Uniti è inferiore a quello delle economie più avanzate europee e della Germania stessa, ecco l'esigenza di trovare una soluzione per ridurlo.
Si noti ad esempio come la maggior parte delle esportazioni di Polonia e Repubblica Ceca sono verso la Germania, in larga parte però di aziende controllate da capitale tedesco.

Non va poi trascurato il fatto che nonostante una crescita più moderata nel tempo dei salari, ad oggi il costo del lavoro orario in Germania è maggiore che da noi, ciò significa che a parità di altri fattori produrre un bene da noi è più conveniente dello stesso realizzato in Germania.
Questo gli imprenditori italiani lo sanno ed è per questo che non aderiscono alla invocazione di economisti come Bagnai di uscire dall'euro per uscire dalla crisi, ma desiderano poter operare in un contesto simile a quello dei loro competitors tedeschi sul piano dell'efficienza dei servizi, delle vie di comunicazione, dell'apparato pubblico e del livello della pressione fiscale!

Tornando alla Germania si afferma poi che questa 'moderazione salariale' abbia compresso la domanda interna e quindi le importazioni e che anche la spesa pubblica si sia ridotta. Bene, mentre per questa seconda categoria si può concordare, la spesa pubblica privata è cresciuta costantemente, anche se in misura contenuta, anno dopo anno:



Sinceramente ritengo preferibile una crescita lenta ma costante nel tempo dei consumi privati come quella tedesca piuttosto che a 'scatti', alimentata come accaduto da bolle speculative che possono prima o poi determinare effetti negativi, specialmente se provocati da shock finanziari come quello del 2008.

Il prof.Bagnai dovrebbe mostrare un po' di umiltà e confrontarsi con gli imprenditori, soprattutto coloro che operano sui mercati internazionali, così saprebbe quali sono i veri ostacoli alla nostra competitività. Altro che euro(pa)!

Gli imprenditori italiani, e veneti in particolare, non sono quelli che lui descrive:



ma sono questi:




e qui il discorso di apertura del suo presidente in occasione della 70° Assemblea Generale tenutasi a Verona il 09 Novembre 2015:



Costoro ogni giorno lavorano dall'alba al tramonto con dedizione, spirito di sacrificio e ottimismo (l'essenza di ogni imprenditore) e non credono che la via per migliorare la competitività passi attraverso un ritorno al passato, non tanto ad una propria valuta ma ad una cultura che è invece alla base delle difficoltà che ci caratterizzano oggi.

martedì 4 febbraio 2014

Il falso problema del costo del lavoro

La vicenda Electrolux ha riportato alla ribalta la questione del costo del lavoro in Italia, il quale viene chiamato in causa ogni qualvolta si analizzano le problematiche relative alla nostra economia. Ma davvero il costo del lavoro rappresenta un serio ostacolo alla competitività delle nostre imprese così come viene spesso affermato?

Prima di tutto occorre definire correttamente cosa si intende per costo del lavoro perchè capita frequentemente che questo parametro venga citato scorrettamente, ad esempio quando viene rappresentato come il rapporto tra il salario netto ed il costo complessivo che una impresa sostiene nei confronti di un collaboratore (termine a me preferito rispetto a quello di 'dipendente').

Il costo del lavoro rappresenta quanto complessivamente una azienda paga per un suo collaboratore (o l'insieme di tutti). Prevalentemente si fa riferimento al costo per unità di tempo (solitamente l'ora). Comprende quindi il salario netto realmente percepito in busta paga dal lavoratore, il TFR maturato, le ritenute fiscali che l'azienda in qualità di sostituto d'imposta trattiene temporaneamente e versa poi direttamente all'erario e parimenti i contributi previdenziali e assicurativi a carico del lavoratore unitamente a quelli a suo carico da versare invece agli enti previdenziali.
Per determinare il costo orario questo ammontare va poi diviso per le previste ore lavorative concordate per lo stesso arco di tempo (anno), escludendo però le ore di ferie e festività retribuite. Supponendo quindi che un collaboratore percepisca una retribuzione lorda annua di 34.000 euro a cui supponiamo si aggiungano ulteriori oneri a carico dell'azienda per altri 6.000 euro, il costo complessivo sarà così di 40.000 euro annui. Se contrattualmente egli è previsto che debba svolgere 40 ore settimanali e 8 ore giornaliere e che annualmente i giorni lavorativi siano 230, ne deriva che il costo orario per l'azienda corrisponde a 40.000 diviso 1.840 (8 x 230), pari quindi a 21,74 €/h. Se il calcolo lo si facesse prendendo il totale del costo annuale sostenuto per tutti i collaboratori e lo si dividesse per l'ammontare delle ore lavorative complessive di tutti quanti si otterrebbe il costo del lavoro orario medio ponderato di quella specifica azienda. Si può anche effettuare il calcolo per un insieme di attività e si avrebbe così il costo medio del lavoro per un determinato settore e così via per una intera economia.

Vediamo ora di confrontare il costo medio orario del lavoro dei Paesi europei prendendo a riferimento i dati Eurostat che si riferiscono all'intera economia per il periodo 2008÷2012:


Esistono altre rilevazioni anche divise per settore ma in sostanza le differenze, almeno in proporzione, non cambiano sensibilmente la classifica dove l'Italia compare non proprio ai primi posti, come spesso viene detto, venendo dopo i Paesi scandinavi, la Germania, l'Austria, il Benelux, la Francia e anche l'Irlanda. E' interessante notare in questa tabella l'incidenza della componente non direttamente riferibile al compenso salariale sul totale del costo, ovvero gli oneri aggiuntivi a carico dell'impresa.

Se prendiamo ora a riferimento i dati Eurostat relativi all'export dei Paesi europei riferiti ai primi dieci mesi del 2013, scopriamo che i primi tre in classifica (Germania, Francia e Paesi Bassi) hanno tutti un costo medio del lavoro superiore al nostro, segno quindi che questo fattore non penalizza particolarmente le possibilità di vendita di prodotti all'estero:

 


 
Va ricordato che mediamente nel settore manifatturiero l'incidenza del costo del lavoro su quello totale di prodotto (costo di fabbrica, non al pubblico) è del 15÷20%, quindi anche riducendo del 10 o 20% il costo del lavoro (riduzione sicuramente non facilmente raggiungibile) ne conseguirebbe una riduzione del 3-4% di quello complessivo, certamente sempre interessante per l'azienda se visto come incremento del margine di profitto ma non determinante sul fronte della competitività di prodotto, competitività che come si sa comprende anche altri fattori.

Certo se il confronto avviene invece con Paesi emergenti (es.BRICS) aventi un costo del lavoro decisamente inferiore ovviamente il discorso cambia e produrre in questi Paesi prodotti con una elevata incidenza di manodopera risulta sicuramente conveniente, anche se non sempre risulta preferibile delocalizzare la produzione.

Il cuneo fiscale è la differenza tra il costo totale del lavoro e la retribuzione netta percepita dal lavoratore e viene espresso come il rapporto tra la somma delle imposte (a carico del lavoratore) e dei contributi previdenziali (sia a carico del lavoratore che dell'impresa) e il costo totale del lavoro.
La tabella seguente mostra la proporzione delle diverse componenti del costo del lavoro su dati OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) relativi all'anno 2011 dell'Italia e dei Paesi principali concorrenti:



Come si può notare ogni 100 € che il lavoratore percepisce in busta paga vi sono 30,7 € di imposte che l'azienda trattiene dalla retribuzione lorda e che poi versa al fisco. Vi sono poi 13,7 € di contributi previdenziali a carico del lavoratore che porta a 144,5 € il compenso lordo. Aggiungendo i contributi a carico dell'azienda, che in Italia sono circa 46,4 € ogni 100 € di retribuzione netta, si ottiene un costo totale di 190,8 € a fronte di 100 € di retribuzione netta percepita. Confrontando questi dati con quelli delle economie più sviluppate emerge che seppur in presenza di un cuneo fiscale relativamente alto quello italiano non è il più elevato, in Germania e Francia è maggiore sfatando così un luogo comune.

La Assolombarda ha elaborato un paio di grafici interessanti, sempre sugli stessi dati OCSE, relativi alla dinamica del cuneo fiscale per il periodo 2000÷2008 in Italia e rapportata a livello internazionale. In questo primo grafico si può notare come dopo un primo periodo in cui questo è calato è poi seguita una crescita costante:
 



Nel seguente grafico si può invece osservare come a livello internazionale siamo tra i pochi Paesi in cui negli undici anni dal 2000 al 2011 il cuneo fiscale sia aumentato mentre nella maggior parte la tendenza è stata l'opposto:
 


In conclusione è vero che il cuneo fiscale in Italia sia elevato ed è auspicabile una sua riduzione, soprattutto per consentire ai lavoratori di percepire un compenso maggiore a parità di retribuzione lorda, ma non può essere considerato come uno dei maggiori ostacoli alla competitività delle nostre imprese. Personalmente ritengo che l'attenzione rivolta sia al costo del lavoro che al cuneo fiscale derivi dal fatto che le imprese trovino più facile (o meno complicato), in particolare in periodi di recessione economica, influire su queste variabili che su altri fattori come la pressione fiscale a carico di loro stesse e il costo della burocrazia, che a mio avviso sono ben più penalizzanti nel loro insieme sulla loro capacità competitiva e alla base della scelta di delocalizzare all'estero. Non è un caso infatti che diverse aziende del nordest abbiano trasferito la produzione in Austria, attratte dalla leggera burocrazia e dalla bassa e chiara pressione fiscale piuttosto che dal costo del lavoro che come si può notare dalla prima tabella non è inferiore a quello italiano.