martedì 4 febbraio 2014

Il falso problema del costo del lavoro

La vicenda Electrolux ha riportato alla ribalta la questione del costo del lavoro in Italia, il quale viene chiamato in causa ogni qualvolta si analizzano le problematiche relative alla nostra economia. Ma davvero il costo del lavoro rappresenta un serio ostacolo alla competitività delle nostre imprese così come viene spesso affermato?

Prima di tutto occorre definire correttamente cosa si intende per costo del lavoro perchè capita frequentemente che questo parametro venga citato scorrettamente, ad esempio quando viene rappresentato come il rapporto tra il salario netto ed il costo complessivo che una impresa sostiene nei confronti di un collaboratore (termine a me preferito rispetto a quello di 'dipendente').

Il costo del lavoro rappresenta quanto complessivamente una azienda paga per un suo collaboratore (o l'insieme di tutti). Prevalentemente si fa riferimento al costo per unità di tempo (solitamente l'ora). Comprende quindi il salario netto realmente percepito in busta paga dal lavoratore, il TFR maturato, le ritenute fiscali che l'azienda in qualità di sostituto d'imposta trattiene temporaneamente e versa poi direttamente all'erario e parimenti i contributi previdenziali e assicurativi a carico del lavoratore unitamente a quelli a suo carico da versare invece agli enti previdenziali.
Per determinare il costo orario questo ammontare va poi diviso per le previste ore lavorative concordate per lo stesso arco di tempo (anno), escludendo però le ore di ferie e festività retribuite. Supponendo quindi che un collaboratore percepisca una retribuzione lorda annua di 34.000 euro a cui supponiamo si aggiungano ulteriori oneri a carico dell'azienda per altri 6.000 euro, il costo complessivo sarà così di 40.000 euro annui. Se contrattualmente egli è previsto che debba svolgere 40 ore settimanali e 8 ore giornaliere e che annualmente i giorni lavorativi siano 230, ne deriva che il costo orario per l'azienda corrisponde a 40.000 diviso 1.840 (8 x 230), pari quindi a 21,74 €/h. Se il calcolo lo si facesse prendendo il totale del costo annuale sostenuto per tutti i collaboratori e lo si dividesse per l'ammontare delle ore lavorative complessive di tutti quanti si otterrebbe il costo del lavoro orario medio ponderato di quella specifica azienda. Si può anche effettuare il calcolo per un insieme di attività e si avrebbe così il costo medio del lavoro per un determinato settore e così via per una intera economia.

Vediamo ora di confrontare il costo medio orario del lavoro dei Paesi europei prendendo a riferimento i dati Eurostat che si riferiscono all'intera economia per il periodo 2008÷2012:


Esistono altre rilevazioni anche divise per settore ma in sostanza le differenze, almeno in proporzione, non cambiano sensibilmente la classifica dove l'Italia compare non proprio ai primi posti, come spesso viene detto, venendo dopo i Paesi scandinavi, la Germania, l'Austria, il Benelux, la Francia e anche l'Irlanda. E' interessante notare in questa tabella l'incidenza della componente non direttamente riferibile al compenso salariale sul totale del costo, ovvero gli oneri aggiuntivi a carico dell'impresa.

Se prendiamo ora a riferimento i dati Eurostat relativi all'export dei Paesi europei riferiti ai primi dieci mesi del 2013, scopriamo che i primi tre in classifica (Germania, Francia e Paesi Bassi) hanno tutti un costo medio del lavoro superiore al nostro, segno quindi che questo fattore non penalizza particolarmente le possibilità di vendita di prodotti all'estero:

 


 
Va ricordato che mediamente nel settore manifatturiero l'incidenza del costo del lavoro su quello totale di prodotto (costo di fabbrica, non al pubblico) è del 15÷20%, quindi anche riducendo del 10 o 20% il costo del lavoro (riduzione sicuramente non facilmente raggiungibile) ne conseguirebbe una riduzione del 3-4% di quello complessivo, certamente sempre interessante per l'azienda se visto come incremento del margine di profitto ma non determinante sul fronte della competitività di prodotto, competitività che come si sa comprende anche altri fattori.

Certo se il confronto avviene invece con Paesi emergenti (es.BRICS) aventi un costo del lavoro decisamente inferiore ovviamente il discorso cambia e produrre in questi Paesi prodotti con una elevata incidenza di manodopera risulta sicuramente conveniente, anche se non sempre risulta preferibile delocalizzare la produzione.

Il cuneo fiscale è la differenza tra il costo totale del lavoro e la retribuzione netta percepita dal lavoratore e viene espresso come il rapporto tra la somma delle imposte (a carico del lavoratore) e dei contributi previdenziali (sia a carico del lavoratore che dell'impresa) e il costo totale del lavoro.
La tabella seguente mostra la proporzione delle diverse componenti del costo del lavoro su dati OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) relativi all'anno 2011 dell'Italia e dei Paesi principali concorrenti:



Come si può notare ogni 100 € che il lavoratore percepisce in busta paga vi sono 30,7 € di imposte che l'azienda trattiene dalla retribuzione lorda e che poi versa al fisco. Vi sono poi 13,7 € di contributi previdenziali a carico del lavoratore che porta a 144,5 € il compenso lordo. Aggiungendo i contributi a carico dell'azienda, che in Italia sono circa 46,4 € ogni 100 € di retribuzione netta, si ottiene un costo totale di 190,8 € a fronte di 100 € di retribuzione netta percepita. Confrontando questi dati con quelli delle economie più sviluppate emerge che seppur in presenza di un cuneo fiscale relativamente alto quello italiano non è il più elevato, in Germania e Francia è maggiore sfatando così un luogo comune.

La Assolombarda ha elaborato un paio di grafici interessanti, sempre sugli stessi dati OCSE, relativi alla dinamica del cuneo fiscale per il periodo 2000÷2008 in Italia e rapportata a livello internazionale. In questo primo grafico si può notare come dopo un primo periodo in cui questo è calato è poi seguita una crescita costante:
 



Nel seguente grafico si può invece osservare come a livello internazionale siamo tra i pochi Paesi in cui negli undici anni dal 2000 al 2011 il cuneo fiscale sia aumentato mentre nella maggior parte la tendenza è stata l'opposto:
 


In conclusione è vero che il cuneo fiscale in Italia sia elevato ed è auspicabile una sua riduzione, soprattutto per consentire ai lavoratori di percepire un compenso maggiore a parità di retribuzione lorda, ma non può essere considerato come uno dei maggiori ostacoli alla competitività delle nostre imprese. Personalmente ritengo che l'attenzione rivolta sia al costo del lavoro che al cuneo fiscale derivi dal fatto che le imprese trovino più facile (o meno complicato), in particolare in periodi di recessione economica, influire su queste variabili che su altri fattori come la pressione fiscale a carico di loro stesse e il costo della burocrazia, che a mio avviso sono ben più penalizzanti nel loro insieme sulla loro capacità competitiva e alla base della scelta di delocalizzare all'estero. Non è un caso infatti che diverse aziende del nordest abbiano trasferito la produzione in Austria, attratte dalla leggera burocrazia e dalla bassa e chiara pressione fiscale piuttosto che dal costo del lavoro che come si può notare dalla prima tabella non è inferiore a quello italiano.


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