lunedì 15 giugno 2015

La Produttività, questa sconosciuta

Raccolgo l'invito, quasi una intimazione considerata la sollecitazione ripetutamente reiterata, del prof.Antonio M.Rinaldi di scrivere un articolo nel quale esprimere le mie considerazioni riguardanti l'euro, la crisi e le soluzioni per uscirne, in alternativa all'abbandono della moneta unica ed il conseguente ritorno alla lira, ipotesi da lui ampiamente condivisa ed auspicata.
Premetto che io rifiuto le categorizzazioni pro- o antieuro così come pro- o antilira, qui non è questione di essere pro o contro qualcosa, ma di comprendere se un eventuale cambiamento di moneta possa risolvere quantomeno in parte la situazione di crisi e di difficoltà economica nella quale si trova ad essere in maniera particolare il nostro Paese che da decenni registra una crescita inferiore rispetto alle nazioni più industrializzate.
La scelta poi non è tra euro e lira in quanto l'euro l'abbiamo già, non è quindi oggetto di scelta, ma di definire se la moneta unica sia la responsabile principale di questa situazione asfittica della economia italiana ed un ritorno alla lira, ovvero ad una moneta nazionale, sia la soluzione.

Personalmente credo di no e questo perché la causa principale della debole crescita dell'economia italiana ha motivazioni di carattere strutturale.
Innanzi tutto occorre vedere la provenienza della crisi, che sostanzialmente è una crisi da domanda. Una crisi dal mercato interno o da domanda estera? I dati sono inequivocabili e dicono che è la domanda aggregata interna la causa della nostra debole crescita. Questo grafico che è costruito prendendo una serie di dati ISTAT mostra chiaramente che l'adozione della moneta unica non ha ostacolato le nostre esportazioni che, periodo di recessione del 2009 escluso, sono sempre cresciute:


I dati si fermano al 2011 ed io ho scelto comunque questi perché mettono insieme i valori complessivi, quelli dell'eurozona a 15 e verso la sola Germania. Dal 1999 (anno di definizione dei cambi delle singole valute nazionali verso l'euro) e/o dal 2001 (anno di circolazione dell'euro) le nostre esportazioni sono costantemente salite in riferimento alle tre aree qui prese in considerazione. Ad oggi il dato complessivo sfiora i 400 miliardi di euro e questo nonostante il PIL sia diminuito, segno che non è il cliente straniero che latita, ma quello italiano.
Le ragioni della debole domanda interna sono molteplici e personalmente vorrei iniziare partendo da una variabile che a mio avviso non è considerata sufficientemente, ma che invece ne è la principale causa: la produttività!

La produttività in linea generale rappresenta la quantità di produzione (o di output) realizzata a fronte dei fattori della produzione (capitale e lavoro) utilizzati. In genere in macroeconomia è determinata dal rapporto tra valore aggiunto (o PIL) e il monte ore impiegato per ottenerlo. Il suo significato è fondamentale perché rappresenta l'ammontare di produzione, espresso in moneta locale o altra valuta, realizzata per una unità di tempo pari all'ora.
La tabella seguente è tratta dagli ultimi dati OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) disponibili e relativi all'anno 2012 di una serie di Paesi che io ho selezionato dall'elenco disponibile:


Nella prima colonna è riportato il PIL in dollari statunitensi (per un confronto omogeneo), nella seconda il numero medio di ore lavorate in un anno da un lavoratore a tempo pieno, nella terza il numero complessivo di occupati, e qui già sarebbe possibile notare una curiosità se si è in possesso del dato sulla popolazione: in Italia la percentuale degli occupati sul totale della popolazione in età lavorativa è più bassa che in altri Paesi e questo non riguarda solo l'ultimo periodo, caratterizzato da una riduzione degli occupati causa la crisi, ma anche gli anni in cui l'economia era in crescita. Inoltre si può notare come il numero di ore lavorate in Italia sia maggiore rispetto a quelle in Germania o in Francia.
Le ultime due colonne però ci offrono i dati più interessanti. Nella penultima è riportata la produttività in termini di PIL per ora lavorata calcolata a prezzi correnti in dollari statunitensi e nell'ultima colonna il raffronto della produttività Paese per Paese con il dato degli Stati Uniti, Paese che registra il dato più elevato dopo l'Irlanda.
Come si può vedere l'Italia non brilla per produttività registrando un valore decisamente più basso rispetto agli USA e anche rispetto a Germania e Francia. Si tenga presente il dato del Giappone, simile ed inferiore a quello italiano.

In definitiva cosa ci dice il dato della produttività in penultima colonna? Ci dice in pratica che per ogni ora lavorata in Italia si producono 46,7 USD di PIL (o di valore aggiunto) a fronte dei 58,3 della Germania, i 59,5 della Francia e i 64,1 degli Stati Uniti. Prendendo in considerazione anche la seconda colonna si può giungere alla conclusione che in Italia si lavora mediamente ad esempio di più che in Germania per produrre però meno in termini di ricchezza.

Cosa implica una bassa produttività? La principale conseguenza riguarda il fatto che a fronte di una minore ricchezza prodotta vi sia una minore ricchezza da distribuire traducibile in un basso livello di reddito per i lavoratori. Difatti prendendo a riferimento sempre dati OCSE relativi ai redditi medi dell'anno 2012, calcolati a prezzi costanti del 2013 (per un confronto omogeneo con la tabella della produttività che riporta dati del 2012) e a parità di potere di acquisto, possiamo notare come i livelli presenti nei Paesi in questione rispecchino sostanzialmente il livello di produttività o per dirla più chiaramente nei Paesi dove si registra una produttività maggiore sono presenti redditi più alti e viceversa:


Si noti il dato italiano e quello giapponese, di cui prima abbiamo osservato sia un basso livello di produttività che di elevato numero di ore medie complessive lavorate annualmente, entrambi i redditi medi rilevati risultano inferiori in relazione ai Paesi con maggiore produttività.
E' quindi evidente la correlazione produttività-reddito e d'altronde è intuitivo: ad una maggiore ricchezza prodotta è possibile un maggiore reddito da distribuire ai lavoratori. Questo significa che per aumentare il reddito occorre aumentare il valore aggiunto, ovvero la produzione realizzata per ogni ora lavorata. L'Italia soffre da molti anni una carenza di produttività e questo si ripercuote sui redditi che rimangono bassi in rapporto al potere di acquisto, il che comporta una debole domanda aggregata aggravata poi da una cattiva distribuzione dei redditi e da una tassazione che oltre ad essere elevata è anche iniqua perché colpisce maggiormente le fasce di reddito medio basse, dovuto questo anche alla elevata evasione fiscale.
Da dati ISTAT la spesa complessiva per i consumi finali per l'anno 2013 delle famiglie italiane si è attestata attorno ai 935 miliardi di euro mentre quella delle famiglie tedesche residenti in Germania è stata di 1.571 miliardi, ciò equivale ad una spesa media pro-capite rispettivamente di circa 15.700 euro in Italia e di poco più di 19.300 euro in Germania, il 23% circa in più, una percentuale del tutto simile al differenziale di produttività riportata nella tabella precedente.

Cosa fare per aumentare la produttività? La produttività è un fattore strutturale e solo da riforme strutturali questa può variare sensibilmente e poco o nulla può fare l'adozione di una valuta piuttosto che un'altra, ergo il ritorno alla lira non cambierebbe la situazione. Migliorerebbe probabilmente il fatturato con l'estero per alcune imprese una volta verificatisi un deprezzamento della lira rispetto alle altre principali valute ed a parità di vendite nel mercato interno la produttività aumenterebbe, ma solo di poco, non sufficientemente per creare le condizioni per un aumento dei redditi a livelli simili di quelli registrati ad esempio in Germania o in altri Paesi del nord Europa.
Servono interventi su più fronti a cominciare da una riduzione della pressione fiscale sulle imprese. A questo si deve aggiungere una riduzione della burocrazia che per molte imprese rappresenta un costo rilevante in quanto non si tratta semplicemente di mettere più firme al posto di una, ma ad esempio permessi da richiedere con conseguente attesa per una risposta da parte di organismi pubblici che per una azienda comporta costi da sostenere.

Anche le imprese devono fare la loro parte, l'economia italiana è caratterizzata al 99% da piccole e medie imprese, molte delle quali con insufficienti mezzi finanziari propri ed eccessivamente dipendenti dal settore creditizio. I due grafici seguenti sono tratti da una relazione del prof.Carlo Arlotta in occasione del 23° congresso AMA (Associazione Professioni Economico Contabili) tenutosi a Sanremo il 17 e 18 Ottobre 2014 e mostrano a sinistra le fonti di finanziamento delle imprese ed a destra il rapporto tra capitalizzazione delle aziende quotate in borsa rispetto al PIL nazionale:


Guardando attentamente il grafico di sinistra si nota come l'incidenza dei mezzi propri per le imprese italiane (15%) sia decisamente inferiore rispetto a quelle tedesche (28%) e inglesi (44%) mentre dal grafico a destra come il ricorso alla borsa da parte delle nostre imprese come fonte di finanziamento sia molto basso e questo in gran parte dipende proprio dalle dimensioni della maggior parte delle imprese.
Occorre quindi che le nostre aziende aumentino la propria dimensione onde ridurre i costi fissi sfruttando l'economia di scala e che riducano sensibilmente la dipendenza dal settore bancario aumentando i mezzi propri oltre ad un maggiore ricorso al mercato dei capitali come fonte di finanziamento.
Serve poi un maggiore indirizzo verso produzioni ad alto valore aggiunto da realizzare internamente visto che la delocalizzazione all'estero di quelle a bassa produttività ed alta incidenza di manodopera è un processo inevitabile, in caso contrario si rischia una forte deindustrializzazione del Paese che nessuna moneta o sovranità monetaria sarà in grado di contrastare.

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