martedì 2 gennaio 2018

Replica a Roberto Brazzale: "L'euro ci ha fregati, vogliamo capirlo o no?"

Personalmente non ho più interesse a discutere perennemente di uscita o meno dell'Italia dall'eurozona in quanto sono stati fatti parecchi dibattiti attorno a questo tema ed è mia convinzione che questa eventuale scelta non avverrà mai, le cui ragioni le ho espresse in una replica su questo blog ad un articolo pubblicato tempo fa su un quotidiano di diffuzione nazionale a mo' di breve sketch dal titolo "50 Sfumature di Ignoranza" ipotizzando che al governo vada in un prossimo futuro un euroscettico come Matteo Salvini ed i cui argomenti si possono riassumere come una contrarietà, o quantomeno forte perplessità, circa tale ipotesi e che sarebbe espressa dalle rapppresentanze delle varie isituzioni economiche e finanziarie italiane (ABI, Confindustria, sindacati e, aggiungo, anche da parte della Banca d'Italia).
A mio avviso è oramai argomento che viene dibattuto a livello accademico da qualche economista - magari in cerca di visibilità - e da politici che preso atto che il tema è discusso da una certa parte della popolazione attraverso i social forum ne approfittano per cercare di raccogliere voti ben sapendo che, come scritto prima, nessuno si assumerebbe mai l'onere di una scelta del genere che potrebbe condurre l'economia del Paese ad una nuova fase di forte crisi dagli esiti del tutto imprevedibili.

In questi giorni però mi è capitato di vedere uno spezzone dell'intervento di Roberto Brazzale, imprenditore veneto a capo dell'omonimo gruppo nel settore caseario, alla trasmissione Tagadà del 22 ottobre scorso (se non erro), sulla rete La7, questo:


L'interevento ha raccolto la mia curiosità in quanto sono almeno due anni, forse tre, che nel mondo delle imprese non si parla più di eventuale uscita dall'eurozona, anzi se capita di farne menzione è facile che la reazione sia di ilarità dato che per la stragrande maggioranza delle imprese tra gli ostacoli alla propria attività non c'è quello della valuta comune:


Roberto Brazzale è a capo dell'omonimo gruppo con sede in provincia di Vicenza, a Zanè, per questo ho preso come riferimento questo articolo pubblicato da un quotidiano locale. In ogni caso al di là di quello che può riportare un organo di informazione, egli saprà bene l'opinione al riguardo degli altri imprenditori, soprattutto veneti o anche del triveneto, e saprà quindi altrettanto bene che egli è una - cosiddetta - voce fuori dal coro, una 'mosca bianca'. In ogni caso le sue argomentazioni meritano di essere ascoltate e prese in considerazione.

A dire la verità però, non me ne voglia il dott.Brazzale, da quanto ascoltato durante quella trasmissione mi sono apparse argomentazioni confuse, contraddittorie ed incoerenti, soprattutto una volta che preso dalla curiosità di sapere qualcosa di più sulle sue posizioni ho letto ed ascoltato altre sue testimonianze, ad esempio una seguente sua partecipazione alla stessa trasmissione condotta da Tiziana Panella il 21 dicembre scorso:

Clicca per andare alla registrazione
Contraddizione perché qui, ma non solo, egli parla di inesistenza del made in Italy. Anzi, afferma che sarebbe addirittura dannoso per l'Italia:


Curioso...perché nel primo video egli al minuto 2' e 30" dice che in Repubblica Ceca, dove ha fondato una nuova attività, egli commercializza prodotti italiani, precisando che trattasi di made in Italy. Non è forse che la sua posizione critica verso il made in Italy ha a che fare con il marchio che contraddistingue appunto la sua neo attività in terra Ceca (Moravia è una regione situata a nordest del Paese)?


Comunque sia, le sue argomentazioni risultano inconsistenti perché il made in Italy esiste come esiste il made in Germany, il made in USA etc... a prescindere se alcune materie prime o semilavorati sono di provenienza estera, ciò che conta infatti è la progettualità e la fabbricazione del prodotto finito.

Ma veniamo alle presunte accuse rivolte all'euro. Il campo di attività del suo gruppo è quello caseario e allora sono andato a guardare i dati relativi a export e import di formaggi e latticini, dati tratti dal sito clal.it che lui conoscerà bene dato che il logo della sua capogruppo è ben presente in quel sito.
In queste due tabelle a confronto sono riportati i valori in tonnellate di merce ed il corrispondente in valore delle importazioni ed esportazioni italiane di formaggi e latticini:


Si può rilevare come dal 2004 al 2016 compresi le esportazioni siano cresciute sensibilmente (+76% in tonnellate di merce ed oltre il doppio in valore) mentre le importazioni hanno visto un aumento decisamente più contenuto (rispettivamente +32% in tonnellate di merce e +29% in valore), tant'è che il saldo è oggi (2016 e forse anche 2017) positivo contro il deficit - sebbene lieve - di 12 anni prima.
Quel sito fornisce gli stessi dati risalenti al commercio con l'estero dal 1991, in tonnellate di merce:


ed in valore:


Se il dott.Brazzale ci spiega dove, almeno guardando qui, risulti che l'ingresso nell'eurozona abbia penalizzato il settore in cui lui opera sarebbe interessante. Semmai è la Germania, a guardare l'interscambio bilateriale con noi, che dovrebbe lamentarsi, almeno per quanto riguarda il latte sfuso intero:


Egli poi afferma che condividendo la stessa moneta con i tedeschi i loro prodotti risultano più convenienti rispetto al caso che ciascuno abbia la propria valuta com'era prima dell'euro. A me risulta che durante gli anni della lira l'export tedesco era sempre tre volte quello italiano e nonostante gli apprezzamenti del marco tedesco sulla lira la bilancia commerciale rimaneva comunque a loro favore, tranne che per un breve periodo post 1992 dovuto però ad una breve recessione in Italia che causò un calo delle importazioni. Tra l'altro il dott.Brazzale essendo veneto dovrebbe sapere che la sua regione (e mia di residenza) sta registrando ottime performance sotto tutti i punti di vista: PIL, mercato del lavoro, commercio estero.
Con la crisi iniziata nel 2008 si è assistito ad una rapida esclusione delle attività poco competitive e prima di allora il processo di 'deindustrializzazione' ha avuto come ragione più la concorrenza di produzioni in aree dal basso costo del lavoro che dalla Germania o da altri Paesi con economia avanzata. Nell'era della lira dobbiame tenere presente che esisteva un muro, anzi due: fisico a Berlino e quello ideologico con i regimi comunisti che separava sostanzialmente due macroaree geopolitiche, dove il nostro Paese risultava essere quello più vantaggioso in occidente sotto il profilo degli investimenti. Una volta abbattuti entrambi i muri le produzioni a basso valore aggiunto hanno sofferto la concorrenza di quelli provenienti da Cina, est Europa ed altri Paesi ad oriente. Da veneto dovrebbe conoscere la storia della Benetton e che la delocalizzazione di gran parte della produzione non è certo dovuta all'ingresso dell'Italia nell'eurozona. E lo stesso si può dire per diversi settori come quello calzatutriero, del mobile ma anche dell'automotive.
Che da un ritorno alla lira e conseguente suo aggiustamento con le altre valute si ottenga un 'reimpatrio' delle attività delocalizzate all'estero ci crede uno come Claudio Borghi (che ha interagito in studio con Brazzale), non certo chi conosce e vive il settore manifatturiero.

Tornando alla sua attività, non ci racconti che ha scelto la Repubblica Ceca piuttosto che la Germania (dato che l'euro l'avrebbe così avvantaggiata) perché non ha l'euro:


Aggiungiamo un 19% di corporate tax rate contro il 27,9% italiano ed un costo del lavoro pari ad un terzo del nostro e si capiscono le ragioni. Lei è un imprenditore dott.Brazzale e ha fatto l'imprenditore: ha sfruttato l'opportunità che quel Paese - come altri - ha offerto! E lo ha fatto ha prescindere dall'euro.
Concordo pienamente quando descrive le molteplici difficoltà del fare impresa in Italia, dovute a vari fattori che nel secondo video menziona, ma che c'azzeccano con l'euro?

Delocalizzazione e internazionalizzazione
Concordo anche con la distinzione che il dott.Brazzale fa dell'uso di questi due termini. Con il primo si descrive il trasferimento di attività produttive all'estero per mantenere o aumentare la competitività (o i profitti) sul mercato, mentre l'internazionalizzazione è l'apertura di attività - sempre all'estero -  per una presenza o incremento di essa a livello internazionale. Questa differenza Claudio Borghi ed altri non la colgono, le attività fondate all'estero a seguito di un processo di internazionalizzazione non rientrano in Patria perché si cambia valuta o a seguito di un deprezzamento del cambio e nemmeno gran parte di quelle delocalizzate, almeno finché persiste un gap di costi ben maggiore rispetto al fattore cambio. E questo Roberto Brazzale lo sa bene rispondendo alla domanda di Borghi sul possibile rientro in Italia del suo ramo di attività in Repubblica Ceca nel caso di ritorno alla lira (minuto 3 del primo video).

In conclusione una intervista al dott.Brazzale: "L'euro ci ha fregati, vogliamo capirlo o no?". Condivido ben poco di quanto egli afferma, ma ciò non toglie che non si debba ascoltarlo.

2 commenti:

  1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina
  2. Gentile Cocucci, la ringrazio per l'attenzione e per il suo articolato commento che mi dà l'occasione di evidenziare ancor più la fondatezza delle mie convinzioni (non sono solo mie, per fortuna). Non me ne vorrà a male, le sue principali obiezioni principali, pur articolate molto bene, esprimono una visione ancora piuttosto acerba ed incompleta dei temi trattati (Euro, Made in Italy, ecc.), che coincide con la visione comune e che ho ora l'onore di contraddire. Le chiedo però il beneficio del tempo, sono ancora nella mia amata Asiago per qualche giorno e qui è proibito il computer. Permessi solo sci, da fondo o discesa. Con tutta cordialità. Roberto Brazzale

    RispondiElimina